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ARISTOTELE: METAFISICA, LIBRO A; CAPITOLO 6

ARISTOTELE: METAFISICA, LIBRO A; CAPITOLO 6

Gen 23

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Trovo giusto dedicare un post all’esposizione aristotelica della dottrina platonica. Per intenderci, questa è l’ultima parte della pars construens degli argomenti dei predecessori di Aristotele. Nel prossimo post ci occuperemo della pars destruens e quindi potremo dirsi concluso il primo libro della Metafisica.
Lo stesso autore della Metafisica sembra infatti soffermarsi più a lungo su Platone e la sua scuola, innanzitutto perché Aristotele ha studiato presso l’accademia platonica per vent’anni, poi perché Platone è teoreticamente e temporalmente il punto più alto e l’ultimo rappresentante del cammino intrapreso dai presocratici non mitografi (cioè non considerando coloro che scrivono  miti e non filosofia poiché non hanno a cuore la sapienza, come già Socrate enunciava nei dialoghi platonici) fino ad Aristotele stesso.
Ricordo che la dottrina platonica come la espone Aristotele non ha una controparte in Platone, o perché non ci sono arrivate le opere in cui Platone esponeva i suoi argomenti con intento divulgativo alla maniera moderna di una specie di trattato sulla propria filosofia, o molto più probabilmente perché Platone non credeva che questo fosse il metodo per una corretta esplicazione della sua dottrina. Infatti nei dialoghi Platonici apprendiamo che Socrate disdegnava la parola scritta perché “non può difendersi”, a differenza di una persona che esprime le proprie ragioni. Gli stessi pitagorici e l’orfismo in generale si pensa avessero una vasta cultura di rituali esoterici tramandati su una allenata base mnemonica dei loro adepti. Per colpa della storia e più probabilmente a causa della volontà dell’autore abbiamo di Platone una serie di scritti in cui viene privilegiata una conoscenza in itinere, data dal percorso di sviluppo del lettore stesso mentre assume le nozioni del testo. Pur rimanendo questa inalienabile dimensione, essa diviene più moderata negli scritti aristotelici dove vi è ovviamente una dimensione di sviluppo del lettore nel corso della lettura dell’opera ma anche una più diretta proposta delle nozioni, su basi argomentative più evidenti e chiare.
Ne risulta che l’esposizione di Platone fatta da Aristotele non è Platone, perché Platone probabilmente non si sarebbe espresso così in alcun caso. E ciononostante è forse la migliore espressione compendiata della dottrina platonica fatta da un allievo rispettoso e attento, un allievo così attento che non rifiuta lo scontro dialogico e non risparmia nemmeno il proprio maestro sotto i colpi della sua argomentazione. L’esposizione aristotelica è chiaramente impostata a reperire argomenti pertinenti alla sua trattazione e spiegandone le ragioni a vagliare se questi argomenti sono anche solidi o sono da rigettare come scorretti ed invalidi.
Aristotele scrive:

Ché [Platone], divenuto sin da giovane seguace dapprima di Cratilo e delle opinioni di Eraclito,convinto che tutte le cose sensibili sono sempre fluenti e intorno ad esse non si dà mai un sapere incontrovertibile, anche in seguito mantenne queste convinzioni. E poiché Socrate trattava di cose etiche ma per niente affatto della natura nella sua interezza, e poiché in esse ricercava l’universale e per primo pose il suo pensiero sulle definizioni, accogliendo questa <dottrina>, a causa di quella Eraclitea si convinse che essa riguardava altre realtà e non quelle sensibili: giacché è impossibile che la definizione comune abbia per oggetto qualcuna delle cose sensibili, dal momento che esse in realtà mutano di volta in volta. Questi, dunque, chiamò Idee quelli fra gli enti che sono di tal natura, e affermò che le cose sensibili sono accanto ad esse e si dicono tutte in conformità a esse: infatti, i molti sono omonimi alle Idee per partecipazione.

Partendo dal famoso frammento eracliteo che enuncia grosso modo: “tutto scorre” la dottrina platonica è andata evolvendosi a partire dalla costatazione del movimento e della natura transeunte delle cose. Dai presocratici Platone deriva l’insufficienza delle cause materiali, le quali risultavano lacunose nello spiegare la forma delle cose fornendo infatti solo una ragione materiale. Importante la “maieutica” socratica (la ricerca dialogica di una definizione ottenuta attraverso il ragionamento di entrambi gli interlocutori alla stregua di una nutrice che aiuta a partorire una donna gravida), che pur restando nel campo dell’etica (secondo Aristotele) rimane una metodologia filosofica, o scientifica, cioè la ricerca delle definizioni. Da ricordare che per Aristotele la definizione è anche la ragione formale di una cosa. La definizione ha come caratteristica di essere un universale da applicare ad una molteplicità, quindi nasce la questione: qual è lo statuto ontologico della definizione? Dove si trovano le definizioni?  Alcuni diranno che la definizione, la forma delle cose non si trova ovviamente in nessun posto o forse nei libretti di istruzioni. Nel frattempo da millenni la natura continua a produrre un numero infinito di forme in continua mutazione, seguendo fra l’altro specifiche regolarità che noi poi chiamiamo leggi di natura. Questa per gli antichi era la più esemplare evidenza dell’esistenza di enti sovrasensibili. Per i pitagorici erano i numeri la base materiale che formava i cieli e quindi a discendere ogni ente della terra. Così come per i Pitagorici le cose sensibili esistono per “imitazione” dei numeri. Mentre per Platone le cose sensibili esistono per “partecipazione” dei numeri, pur non adducendo spiegazioni a riguardo, aggiunge Aristotele, non si comprende in che cosa consista questa partecipazione o come si svolga. I numeri per Platone e per i Pitagorici, in modo diverso, sono gli enti sovrasensibili da cui prendono forma gli enti sensibili.
Poi Aristotele scrive:

Inoltre, egli [Platone] afferma che, accanto alle cose sensibili e alle Idee vi sono gli enti matematici, che sono intermedi fra le cose <e le idee> e differiscono dalle cose sensibili per il fatto di essere eterni ed immobili, e dalle Idee per il fatto di essere molti e simili, mentre ciascuna Idea è, essa stessa, una soltanto.

Questo passo è di grande importanza. Le cose sensibili partecipano alle idee, ma anche i numeri dei pitagorici vengono inseriti. Infatti è forte la propensione a considerare la matematica come un aspetto della realtà stessa, benché i numeri non siano di per sé sufficienti come principio formale di ciò che numero non è. La regolarità delle leggi naturali e il fatto che si possano misurare sia i cicli celesti che quelli terrestri, controprova della omnipervasività della matematica (molto più estesa dell’estensione ascrivibile ai quattro elementi difficilmente importabili nelle dimensioni celesti per la scienza antica) viene salvata da Platone in un piano intermedio fra gli enti sensibili e quelli sovrasensibili. Ciò a sua volta genera uno sdoppiamento dei numeri stessi: infatti vi sono i numeri sensibili cioè le cose misurate esistenti e i numeri sovrasensibili che mediano a loro volta con le Idee, questi ulteriori mediatori sono le idee dei numeri, o “numeri ideali” da cui si generano i “numeri sensibili”. Questo sarà uno dei demeriti più grandi che Aristotele reputerà a Platone, quello della infinita riproduzione degli intermediari nella fallacia del terzo uomo.

Oltre leggiamo:

Perché le Idee sono cause per le altre cose, ritenne che gli elementi di esse fossero gli elementi di tutti gli enti. Ebbene, <ritenne> che il Grande e il Piccolo sono principi come materia, mentre come essenza <è principio > l’Uno. Da quelli, infatti, per partecipazione all’Uno, derivano le Idee.

In questo passo e nei successivi vengono trattate le influenze pitagoriche nella dottrina platonica. Dal testo aristotelico non si comprende se per Platone le Idee siano esattamente i “numeri ideali”, o se questi siano alcune fra le Idee, o, intermedi fra i “numeri matematici” (o reali) e le Idee.
Platone comunque concorda con i Pitagorici che (1) l’Uno è come sostanza, in quanto si predica solo di se stesso, mentre tutte le altre cose non possono dirsi Uno anche se sono generate dall’Uno. L’Uno funziona come principio formale per le Idee le quali hanno come principio materiale il Grande e il Piccolo. Inoltre (2), per entrambi, i numeri sono causa delle cose sensibili.
I Pitagorici si differenziano invece da Platone poiché ponevano come principio materiale per le Idee l’ “indeterminato” mentre Platone pone invece la “Diade” di “grande” e “piccolo”.
Più avanti nel testo Aristotele aggiunge che i Pitagorici e Platone sono discordi sulla natura da attribuire ai numeri: per i pitagorici  i numeri sono le cose sensibili, mentre per Platone sono causa delle cose sensibili. Zanatta fa notare che quelli in questa eccezione si considerano per i Pitagorici i “numeri reali”, mentre per Platone si prendono in considerazione i “numeri ideali”.
Aristotele, proseguendo, imputa a Platone di aver invertito i termini del ragionamento, infatti non è la forma (Uno) ad essere generata molte volte attraverso l’applicazione della materia (Diade). Ma una sola forma, ancora l’Uno, che genera molte volte applicata successivamente alla stessa materia, cioè la Diade.
Quindi la conclusione di Aristotele è che Platone ha rilevato nella sua dottrina solo due delle quattro cause, cioè quella formale e quella materiale attribuendole rispettivamente all’Uno e alla Diade.

NOTA: Perchè a Platone e ai Pitagorici interessano L’Uno e la Diade o l'”illimitato”? Questo concetto è ben espresso nel Timeo di Platone ma possiamo ridurlo impropriamente in soldoni.  Possiamo considerare i numeri come base delle regolarità della natura in quanto, abbiamo detto, misurano sia i cicli celesti che quelli terrestri. I numeri sono in fin dei conti una totalità illimitata ed indeterminata, infatti nessun numero è più importante di un altro, se non quando viene ad essere una misura di un oggetto reale. In realtà ancora una volta non stiamo parlando della preminenza di un numero degli altri, ma piuttosto della forma di un oggetto, che ben partecipando in qualche modo dei numeri, o potendo in qualche modo essere interpretato coi numeri, non è in tutto e per tutto un numero come vorrebbero i Pitagorici. Abbiamo visto che possiamo ritrovare i numeri in ogni cosa, come forma per ogni oggetto e come forme pure prima di essere un determinato oggetto. Ora, i numeri come indefinita molteplicità (Pitagorici) possono essere considerati come un tutto e quindi un “Uno”. In effetti tutti i numeri hanno a loro base l’Uno che poi sommandosi a se stesso diventa indeterminatamente molti. Questo tutto, questo “Uno” può essere almeno di due tipi: il “to pan” liberamente tradotto dal greco, ossia la somma matematica dei componenti di un insieme; oppure un “to olon” cioè un insieme organico determinato come forma, totalità superiore alla somma delle parti. Sembra quindi che alla base dei numeri vi siano i concetti di “Uno” e “Molti”, o di “tutto” e “parte”. Quando consideriamo il “tutto” e la “parte” nulla rimane fuori, ogni cosa può essere considerata in sè come un tutto, oppure possiamo considerare le sue parti. A sua volta la parte può essere considerata ancora come un tutto, successivamente divisibile ancora in parti. Quindi i numeri, sia come somma matematica degli infiniti in un molto indeterminato; sia come totalità delle parti in un tutto formato e organico, hanno a loro base i concetti di “Uno” e “molti”. Questo concetto avrà una gorssa importanza per tutta la storia della filosofia. Eliminare uno dei due corni della diade distrugge immediatamente anche laltro, come afferma Platone (che dice che l'”Uno” non può esistere senza i molti, mentre i “molti” senza “uno” sono una formazione cancerogena senza alcuna possibilità di forma); Kant poi considererà l’Uno come la funzione dell'”Io Trascendentale”, una funzione di unità (quindi totalità formale organica) che raccoglie e categorizza i dati sensibili sotto le forme trascendentali a priori; il medesimo problema prenderà una piega del tutto originale anche in Hegel.


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