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ARISTOTELE: METAFISICA, LIBRO A; PARTE 3

ARISTOTELE: METAFISICA, LIBRO A; PARTE 3

Gen 09

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Riprendiamo con l’anno nuovo il commento alla Metafisica di Aristotele. Oggi tratteremo del capitolo 3 del libro A (ricordo che la suddivisione in capitoli è ad opera del traduttore ma non dell’autore), in cui Aristotele ricorda la dottrina della quattro cause, già espressa nel suo trattato sulla fisica. In questo capitolo inoltre Aristotele inizia ad affrontare  le dottrine dei predecessori, non con intento esegetico ma probabilmente in un ottica funzionale alla sua spiegazione. Aristotele infatti non disponeva di manuali di storia della filosofia e il suo ripercorrere le tappe dei predecessori rientra nel metodo analitico di Aristotele, già enunciato nei precedenti post, che prevede innanzitutto di ricercare come si sono espressi i saggi, o quali siano le opinioni notevoli intorno ad un problema per poi analizzarlo via via in modo sempre più specifico. Passa quindi in secondo piano la ricerca della fedeltà delle opinioni degli autori e una loro interpretazione profonda come se fossero presi singolarmente, rispetto alla trattazione riguardo al problema specifico della causalità, che per Aristotele si rivela avere quattro declinazioni specifiche.

Riguardo alle cause Aristotele scrive:

Poiché  è chiaro che si deve assumere la conoscenza incontrovertibile delle cause iniziali,[…] e le cause si dicono in quattro sensi [come Aristotele aveva già detto nella sua opera chiamata: Fisica], e tra esse [1] una diciamo che è l’essenza, vale a dire la quiddità […], [2] un’altra la materia e il sostrato, [3] come terza ciò da cui deriva il principio del movimento, [4] come quarta la casa contraria a questa, vale a dire ciò in vista di cui e il bene (giacché questo è il fine di ogni generazione e di ogni movimento).

La note del traduttore ci sono di grande aiuto per capire questo passaggio a prima vista intricato.

La cause prime (in quanto principi di ogni cosa) secondo Aristotele sono quattro:

1) Causa formale: ciò che determina l’essenza di una cosa. Come ricorda Zanatta, Aristotele è molto pratico riguardo all’essenza, cioè ciò che fa di una cosa quello che è, e che modificata rappresenta una cosa diversa, infatti Aristotele si riferisce (nel testo greco) alla definizione. La definizione per Aristotele avviene tramite due determinazioni: (A) genere prossimo (la famiglia di oggetti, l’insieme di oggetti, più simile all’oggetto in questione) e (B) differenza specifica (ciò che nell’oggetto in questione, in particolare, lo distingue dall’insieme di oggetti del genere prossimo). Il celebre esempio aristotelico concerne la definizione di uomo come “animale” (genere prossimo) “razionale” (differenza specifica). Di questo tema avremo modo di parlare anche in altri luoghi della metafisica.

2) Causa materiale, o anche “sostrato”, letteralmente ciò che “soggiace” (ciò che sta sotto, che resta inalterato) alle trasformazioni; nel caso di un vaso l’argilla che rimane tale sia quando è nella cava che quando lo scultore ha dato forma al vaso. Ovviamente questo è un esempio pedestre, infatti il sostrato sarà preso in considerazione nella sua accezione filosofica, verrà infatti affrontato da Aristotele il tema dell’Essere (non il verbo tale e quale ma l’Essere come Ente, la sostanza fondamentale di cui tutti i corpi possono predicare l’esserci a cagione di questa) come sostrato da cui nascono tutti i corpi sensibili o sovrasensibili.

3) La causa motrice o quella che noi oggi diciamo essere la causalità di tipo meccanico. Anche per Aristotele aveva questo significato nella Fisica, si tratta della causalità della maggior parte dei corpi in movimento che vediamo intorno a noi ogni giorno, cioè la causalità derivante da un urto reciproco o dall’applicazione di una forza. Tutta la meccanica classica (anche contemporanea) è basata su questo tipo di causalità.

4) La causa finale, ciò in vista di cui una cosa è fatta. In questo tipo di causalità rientrano sia corpi, sia moventi morali, gli atti, che non sono effettivamente dei corpi. Così, ad esempio, un vaso può essere prodotto con fine l’arte o il bello; oppure lo studio può essere intrapreso con il fine della sapienza. Inoltre per Aristotele il fine ultimo di tutte le cose è il “bene”, idea del tutto greca fra l’altro, di una civiltà che chiamò l’universo in cui viveva “cosmo” cioè ordine. Così l’individuo come ordine, in cui vi è grande dispiego di complesse e imperscrutabili leggi naturali è un bene, non può che apparire ad Aristotele come oggetto di meraviglia ed ammirazione. L’individuo in sé poi deve agire al meglio per ricercare il bene nella sua vita, cioè attraverso il soddisfacimento dei bisogni, che essendo naturali sono ordinati, e l’esercizio, ancora una volta ordinato, della razionalità. Ogni creazione naturale non può quindi per sua natura che tendere al bene. Poco importa se l’individuo si comporterà in modo irrazionale e distruttivo, come potrebbe ciò infatti intaccare l’ordine immutabile del cosmo? Questo almeno secondo una visione popolare e diffusa nel mondo greco (che non dobbiamo prendere poi così alla lettera pensando che non abbia presentato sfaccettature) ma che sicuramente influenza anche Aristotele. Ci sarà comunque anche in questo caso motivo di approfondimento nello snodarsi della Metafisica.

Secondo la manualistica possiamo avere una prima distinzione aristotelica dei presocratici cioè i monisti (che riconoscevano un unico principio) e i pluralisti (che riconoscevano più principi).

La maggior parte dei monisti si è concentrata, secondo Aristotele, sulla causalità di tipo materiale e questi sono: Talete che assumeva come principio l’acqua; Anassimene e Diogene ponevano a principio l’aria; Ippaso di Metaponto ed Eraclito d’Efeso il fuoco.

Fra i pluralisti abbiamo invece Empedocle che poneva a principio i quattro elementi: acqua, aria, fuoco e terra. A chi possa sembrar banale porre a principio i quattro elementi pensi che noi i quattro elementi li chiamiamo tali da allora.

Anassagora di Clazomene invece poneva infiniti principi, cioè le “omeomerie” (che letteralmente significa: ciò che è composto di parti (“meros”) uguali (“omo”)). Democrito, e il suo “atomismo”, invece non vengono “stranamente” menzionati da Aristotele (ma le cause tale scelta le lasciamo agli esegeti).

Fra coloro che pongono un solo principio, fa eccezione Parmenide, che pur riconoscendo l’Uno come causa materiale e la sua immobilità (la scuola degli Eleati), dovendo riconoscere il mutamento per quanto apparente dei corpi, arriva a concepire delle cause motrici (in questo caso due: il giorno e la notte). Quindi Parmenide fa un passo avanti.

Un altro passo avanti lo compiono, a detta di Aristotele, Anassagora ed Erotimo di Clazomene. Aristotele scrive:

Dopo costoro e siffatti principi [chi aveva considerato solo la causa materiale o anche quella materiale e quella motrice], sul presupposto che non erano sufficienti a generare la natura degli enti, nuovamente costretti, come abbiamo detto, dalla verità stessa, <gli uomini> ricercarono il principio successivo. Ché, dal fatto che alcuni fra gli enti versino in una condizione di bene e di bellezza e altri lo diventino senza dubbio né è logico che siano causa né il fuoco né la terra […]; né <è logico> affidare al caso e alla sorte che una realtà di così grande ampiezza versi in una condizione di bellezza. Pertanto uno che disse che, come nei viventi, anche nella natura è insita una mente quale causa del cosmo e di tutto l’ordine, apparve come uno sobrio a confronto di coloro che in precedenza avevano parlato a caso.

Fra questi appunto Anassagora e Erotimo di Clazomene (che fra l’altro è una figura leggendaria che poco ha a che fare con Anassagora). Non si capisce bene in questo passo se Aristotele si riferisca in modo più preciso alla causa motrice o a quella finale. Mentre è sicuro come venga assegnato ad Anassagora un primato per aver individuato, in qualche modo, un tipo di causalità non scorto prima da altri.

Ci tengo a ripetermi: le varie dottrine dei presocratici vengono qui esposte come in una veloce carrellata e snaturate delle loro profondità. Dei presocratici ci rimangono fra l’altro solo frammenti scritti e non opere intere, però da quello che ci rimane possiamo dedurne la vastità delle produzioni e la profondità. Il fatto che Aristotele non si dia pena di riportare estesamente le loro dottrine è a cagione che queste erano probabilmente evidenti e largamente risapute al suo tempo; inoltre Aristotele, lo ricordo, non ha mire filologiche, ma vuole fare un preciso discorso filosofico, su cosa è la filosofia fra l’altro. Anche noi oggi infatti se vogliamo citare una nozione manualistica di Aristotele non ci mettiamo a esporre tutte le sue opere e il suo pensiero, ciò non toglie però nulla alla sua grandezza, mentre possiamo solo immaginare cosa avrebbero potuto insegnarci le opere perdute dei presocratici.

Per approfondire



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