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Severino: una lettura filosofica di Leopardi tra Schopenhauer e Nietzsche (2)

Severino: una lettura filosofica di Leopardi tra Schopenhauer e Nietzsche (2)

Dic 15

Articolo precedente: Severino: una lettura filosofica di Leopardi tra Schopenhauer e Nietzsche (1)

 

In Leopardi l’uomo si rivela nella sua specificità alterazione della natura poiché pensare significa essere infelici, tanto che potremmo convertire la nota citazione cartesiana in un nuovo assioma del tipo “cogito ergo patior”: il pensiero non può non pervenire alla constatazione per cui il passare di ogni cosa è il suo annichilirsi, la sua intrinseca vanità, persino il piacere e il pensiero del piacere, il dolore e la speranza, e l’orrore di tale visione non può che generare angoscia. Così l’uomo si rivela aberrazione della natura poiché l’angoscia esperita si oppone, come per Schopenhauer, alla pulsione più tenace di tutte, quella di perpetuare la propria esistenza e preservarsi dal niente. Nell’animale pensante, quindi, per Leopardi si concretizza una contraddizione ‒ come è ampiamente spiegato da Severino ‒ dal momento che la “scontentezza dell’esistenza” è un essere e, insieme, è la negazione dell’essere: essa persiste fintantoché l’uomo pensa. In particolare la ragione, distruggendo ciò di cui si ha bisogno per “(soprav)vivere” ossia l’illusione, conduce alla “verissima pazzia” leopardiana, la follia data dall’incontro-scontro di nullità di tutte le cose e voler essere salvi dal niente perseguendo l’anelito all’infinito.

Non a caso questo termine ricorre, come è noto, innumerevoli volte nel linguaggio poetico dell’autore ed è anche il titolo di uno dei suoi più celebri idilli: pur concordando con Schopenhauer e ritenendo che la felicità sia irraggiungibile all’uomo, il cui amor proprio è così illimitato che non sarà mai pago della propria condizione, Leopardi riconosce un’unica possibilità di attingere all’infinito, insita nell’immaginario. In esso, il pensiero, dominato dall’illusione, può “fingersi” spazi, silenzi e quiete che non hanno limiti e realtà: «tutte le cose si annientano, sono nulla; quindi gli slanci dell’uomo verso l’infinito e l’eterno (“e mi sovvien l’eterno”) appartengono veramente alle illusioni» (E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Bur Saggi, p. 89).

La forma più perfetta di immaginazione è la poesia, in cui l’infinito può presentarsi come contenuto, e in questo caso essa rimane illusione, o come forma, e in questo caso essa si lega strettamente alla filosofia e coglie la nullità del tutto. La poesia come forma è per Leopardi la poesia per eccellenza, prerogativa ed espressione del vero genio.

A questa classe di uomini straordinari Leopardi, nietzscheanamente, si rivolge affinché illuminino la via svelando la negatività dell’esistenza: non a caso l’opera del genio, nella forza con cui vede il nulla e la finitezza degli oggetti, offre consolazione e sollievo da essi. La natura del genio è nobile, filosofica, “produttrice di vita” come suggerisce l’etimo della parola: l’immagine che compendia nel miglior modo tali tratti è proprio quella della ginestra, fiore che si erge solitario e dignitoso nel deserto del nulla da cui, riconoscendolo con immediatezza e trasparenza, riscatta. L’opera del genio “è l’alternativa, non perché riesca a salvare dal nulla, ma perché è l’ultimo galleggiare dell’essere, prima di affondare nel nulla” (ibidem, p. 183): dalla stessa intensità con cui è sentita la morte, l’anima riceve nuova vita. Anche quest’identità di estremi fa pensare inevitabilmente a Nietzsche.

Nella lirica celeberrima La ginestra è come se una parte di Leopardi confidasse nel canto del genio, in quanto è l’unico capace di convertirsi in dottrina dell’amore e superare così le piccolezze dell’egoismo, individuando il vero “colpevole”, la natura. E con questo augurio, velato di diffidenza, giunge a perfetto compimento il pensiero leopardiano.


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