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Nietzsche, Bergson, Husserl, Heidegger, Deleuze: sul divenire eracliteo (26)

Nietzsche, Bergson, Husserl, Heidegger, Deleuze: sul divenire eracliteo (26)

Mar 10

 

 

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26. Deleuze: le tre sintesi del tempo in Differenza e ripetizione

 

[…] il nemico si agita, insinuato ovunque nel cosmo platonico, la differenza resiste al suo gioco, Eraclito e i sofisti fanno un chiasso infernale […]. [88]

Eraclito fa troppo rumore! Troppo perché non possa essere sentito o ascoltato anche dai sordi! Il sistema dei simulacri ribelli risale alla superficie al momento della morte di Dio e della caduta dei valori, nel momento dell’affermazione dell’Essere come divenire. La realtà platonica è stata rovesciata e i demoni della materia o simulacri galleggiano sull’abisso in una realtà molecolare. Per capire come l’ordine platonico è stato rovesciato dallo stesso Gilles Deleuze occorre comprendere come è fatto l’ordine platonico. Deleuze è convinto che la filosofia si occupi di problemi essenzialmente pratici, per quanto ai più appaia astratta. Un esempio di questo Deleuze lo scopre in Platone: si tratta della teoria dei pretendenti. L’idea in Platone è il modello, mentre le copie sono i pretendenti. L’idea permette di selezionare i pretendenti; in questo modo possono essere riconosciuti i falsi pretendenti. I pretendenti sono valutati in base al loro grado di partecipazione rispetto all’idea originaria. Secondo Platone soltanto la giustizia è giusta, gli uomini giusti, invece, sono degli individui che a gradi diversi partecipano dell’idea di giustizia. Per capire meglio, immaginatevi un programma di cucina come Hell’s Kitchen con Cracco: ci sono dei concorrenti (i pretendenti) che devono cucinare dei piatti, gli scontri sono ad eliminazione e alla fine solo uno dei concorrenti può vincere il gioco. Sulla base di cosa si può stabilire che un cuoco ha talento e che un certo piatto è ben fatto? Platone ha la sua risposta: esiste un’idea di cuoco, ci deve essere un modello di quel piatto e, quanto più il pretendente si avvicina al modello, tanto più aumentano le sue probabilità di battere la concorrenza. Riassumendo: l’ordine di Platone suppone un’Idea e delle copie di questa Idea. Il vero dualismo di Platone, secondo Deleuze, sta a livello delle copie, ovvero da un lato vi è una parte della materia che si lascia assoggettare all’idea (la copia), dall’altro un’altra ribelle (il simulacro). Nell’ordine platonico si ha dunque un’identità in sé e delle copie che partecipano di questa identità che possiedono delle differenze per sé come ciò che distingue una copia dalle altre. Il simulacro, invece, rappresenta la differenza in sé, ciò che appare come mondo rovesciato, ma che non lo è. Deleuze sostiene che la differenza in sé funzioni come lo specchio di Carroll, ossia quello specchio che rovescia la realtà. Ad esempio, se prendiamo un cucchiaio e guardiamo la parte concava di esso, vediamo la nostra immagine rovesciata. Deleuze, tuttavia, pensa che la realtà è la differenza in sé, non la differenza empirica o esterna. Perciò sembra che il mondo capovolto poi sia nel verso giusto. Noi vediamo questa realtà attuale, ma in realtà la realtà attuale è semplicemente il prodotto di un processo virtuale di differenziazione e di individuazione. Per tornare alla critica rivolta contro Platone: non è che le tigri sono tigri per via di una sequenza di DNA che è identica a se stessa (essenza); infatti non ci sono sequenze di questo genere; l’epigenetica spiega che il DNA muta sempre perché le specie si evolvono in continuazione (Eraclito in biologia); piuttosto le specie sono il prodotto della loro storia ed evoluzione a partire da quella che Darwin chiama selezione naturale. La differenza in sé è il mostro escluso nella teoria platonica.

In questo momento si danno due modelli di ripetizione: la ripetizione dell’Identico e la ripetizione del Differente. La ripetizione dell’Identico è la ripetizione dell’Uguale, quella ripetizione di cui, secondo Deleuze, soffrono i malati di mente e da cui devono essere liberati. La falsa ripetizione dice: “Tutto uguale! Non cambia niente!”. Un’altra ripetizione si affaccia a noi come possibilità: la ripetizione della differenza, ripetizione che non rimanda all’identico, ma al nuovo. La ripetizione che salverebbe i malati di mente. Per capire questa ripetizione è importante spiegare quindi le sintesi del tempo e il concetto di ripetizione per sé.

Il secondo capitolo di Differenza e ripetizione, “Ripetizione per sé”, tratta principalmente di tre sintesi del tempo. Il capitolo comincia subito discutendo della prima sintesi del tempo: l’Habitus o abitudine. David Hume sostiene che la ripetizione non cambia l’oggetto, ma cambia qualcosa nel soggetto che l’osserva. Il soggetto muta nella sua contemplazione in quanto estrae la differenza nell’evento della ripetizione. Nella prima sintesi del tempo il tempo stesso è preso come insieme di istanti. In questa sintesi prevale totalmente la dimensione del presente, dimensione che, riconosce lo stesso Deleuze, non fa realmente parte del tempo. Il presente in questa sintesi appare tanto dominante che il futuro e il passato non sono altro che sue dimensioni. Il passato è qui semplicemente un presente trattenuto, ovvero una ritenzione [89]. Il futuro è invece un’anticipazione di un presente futuro o forse si potrebbe dire, con Husserl, una protensione. Questo tempo è tempo contratto, esattamente come si contraggono abitudini. Ma la contrazione è contemplazione. In particolare, in questo passaggio, Gilles Deleuze si trova d’accordo con quanto afferma Plotino nell’ottavo trattato della terza Enneade (La natura, la contemplazione e l’Uno), ovvero che tutto è contemplazione. Questa sintesi del tempo è intesa da Deleuze come durata reale e come presente che passa. Come già detto, la prima sintesi del tempo si riferisce all’abitudine, ma l’abitudine è una forma di memoria solo nel senso di memoria meccanica. Allora c’è bisogno di un’altra memoria: della memoria pura.

La seconda sintesi del tempo è quindi Mnemosine. In questa sintesi la dimensione predominante è il passato. Se l’abitudine contrae, la memoria incastra. Ho già spiegato che per Deleuze la memoria non è altro che un sistema puntuale. In questa sintesi riecheggia molto il pensiero di Bergson, in particolare quando Bergson afferma che ogni presente è già passato. Questo tipo di sintesi comprende il tempo come qualcosa di inarrestabile, ma solo se il presente è già presente e passato, dice Deleuze, può effettivamente passare. Tutto il passato appare come un segmento in mezzo a due presenti: quello attuale e un presente passato. Deleuze parla di tre fenomeni: la contemporaneità del passato con il presente che è stato, cioè il fatto che ogni volta che passa un presente ne compare uno nuovo; la coesistenza del passato con il presente successivo [90]; la preesistenza del passato rispetto al presente che passa.

C’è ancora una terza sintesi del tempo: Eros/Thanatos. Questa sintesi del tempo rappresenta il puro ordine del tempo. In questa terza sintesi la dimensione del tempo dominante è il futuro, quindi l’avvenire e il nuovo. Questa sintesi è di estrema importanza perché in Deleuze l’eterno ritorno non è altro che ritorno del nuovo, cioè la ripetizione stessa è del nuovo. Il nuovo in Deleuze potrebbe essere identificato con l’eccedenza virtuale della struttura. La differenza infatti sembra essere costituita da una struttura complessa che si differenzia in sé in significante e significato; queste due serie sono in una relazione tale per cui la prima eccede sulla seconda. L’eccedenza appare come singolare, come il non senso che ha senso, il Nuovo stesso, il di più. Nella concezione della ripetizione in Deleuze: il presente è il ripetitore, il passato è la ripetizione stessa e il futuro è il ripetuto, ma il segreto della ripetizione è nel ripetuto. Si dà ripetizione per sé perché il ripetuto è la differenza in sé, mentre la ripetizione stessa appare come esterna e non come interna. Deleuze sostiene che non è vero che due cose differiscono perché si somigliano, piuttosto esse si somigliano perché differiscono.

L’ultima parte del capitolo “Ripetizione per sé” è importante e nello stesso tempo interessante perché tratta del tema della morte, dandone un’immagine completamente diversa da quella offerta da Heidegger. Deleuze con Heidegger distingue due tipi di morte: una morte personale e una impersonale. La morte personale è lo “io muoio”, la morte impersonale è il “si muore”. La morte personale per Heidegger rappresentava la possibilità della possibilità, la possibilità della propria scomparsa, era cioè il contrassegno della vita autentica all’insegna dell’essere per la morte. In Deleuze la morte personale è semplicemente la morte di noi stessi come Io o Me, una forma di ritorno alla materia. La morte impersonale in Heidegger rappresentava la morte non vissuta, la morte semplicemente accettata passivamente, come se si trattasse del correre degli eventi a cui ci si rassegna e questo era il marchio della vita inautentica nella quotidianità dell’Esserci. In Deleuze la morte impersonale rappresenta, invece, lo stato delle differenze libere. Parlerò sempre più spesso di questa dimensione dell’impersonale de-soggettivata, delle singolarità libere e del molecolare. Qui Deleuze semplicemente definisce quella dimensione come morte impersonale. Deleuze non si trova d’accordo con Heidegger per via della sua prospettiva vitalista. Egli non crede nella grande morte alla fine della vita; piuttosto, riprendendo Bichat, pensa che la vita sia attraversata da tante piccole morti. Da questa nozione Deleuze trae un’etica vitalistica che consiste nell’affermazione dell’evento o degli eventi nell’esistenza sino alla fine, sino al cedimento finale. Ho già detto che la realtà nel primo Deleuze si trova distinta in due elementi: corpi ed eventi. L’etica di Deleuze ci invita ad affermare l’evento in ogni cosa, il che vorrebbe dire con Nietzsche: amare la vita e ogni evento in essa. Ad esempio se ci feriamo: da un lato si dà il corpo del dito sanguinante, dall’altro questa scheggia o evento che è ciò che noi possiamo affermare per volere l’evento. Deleuze infatti asserisce:

È vero che l’incrinatura non è nulla se non compromette il corpo, ma non per questo cessa di essere e di volere quando confonde la propria linea con l’altra linea, all’interno del corpo. Non è possibile dire in anticipo, bisogna rischiare resistendo il più a lungo possibile, non perdere di vista la grande salute. La verità eterna dell’evento si coglie soltanto se l’evento s’iscrive anche nella carne; ma ogni volta dobbiamo doppiare questa effettuazione dolorosa con una contro-effettuazione che la limita […] Bisogna accompagnarsi da sé, innanzitutto per sopravvivere, ma anche quando si muore. [91]

Per quanto riguarda l’altro tipo di morte, ovvero quella personale, in una lezione Deleuze afferma di essere d’accordo con Spinoza sulla concezione della morte come fatto metafisico. La definizione di morte come fatto metafisico implica che la morte del soggetto o dell’individuo vada considerata diversa rispetto a quella del corpo. Infatti Deleuze nota che i medici sono effettivamente in grado, attraverso dei tubicini, di tenere ancora in vita il cuore di un uomo anche quando questi è già morto. L’uomo quindi è morto, ma il suo cuore continua a battere. Questo significa che la morte del soggetto non può essere presa come fatto puramente materiale, appunto perché parte del corpo è ancora tenuta in vita, ma allo stesso tempo non si può dire che il soggetto sia vivo. In questo senso la morte andrebbe considerata un fatto metafisico.

 

Note

[88] Deleuze, Gilles, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano, 2010, p. 165.

[89] Riferimento ad Husserl.

[90] Su questo punto sono molto indicativi i lavori di Bergson, ma anche il romanzo di Proust Alla ricerca del tempo perduto. Il romanzo di Proust secondo Deleuze è un romanzo sui segni, segni che ci fanno accedere al virtuale. Questo romanzo è pieno di esempi di oggetti che rimandano al passato; in quei momenti un presente passato interferisce con un presente attuale, ovvero si dà una forma di coesistenza del passato con il presente attuale.

[91] Deleuze, Gilles, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 144.

 

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