Temi e protagonisti della filosofia

Nietzsche, Bergson, Husserl, Heidegger, Deleuze: sul divenire eracliteo (22)

Nietzsche, Bergson, Husserl, Heidegger, Deleuze: sul divenire eracliteo (22)

Feb 17

 

 

Articolo precedente: Nietzsche, Bergson, Husserl, Heidegger, Deleuze: sul divenire eracliteo (21)

 

22. Deleuze e Husserl: la fenomenologia dell’evento

a) EVENTO COME ATTRIBUTO NOEMATICO

La logica del senso è completamente ispirata da empirismo; ma appunto c’è soltanto l’empirismo che sappia superare le dimensioni sperimentali del visibile senza cadere nelle Idee, ricorrere, invocare, forse produrre un fantasma al limite di tutta una esperienza allungata, spiegata. Questa dimensione ultima è chiamata da Husserl espressione: essa si distingue dalla designazione, dalla manifestazione, dalla dimostrazione. Il senso è l’espresso. Husserl non meno di Meinong, ritrova le fonti vive di un’ispirazione stoica. Quando Husserl si interroga per esempio sul “noema percettivo” o “senso di percezione”, egli lo distingue a un tempo dall’oggetto fisico, dal vissuto psicologico, dalle rappresentazioni mentali e dai concetti logici. Lo presenta come un impassibile, un incorporeo senza esistenza fisica e mentale, che non agisce né patisce; puro risultato, pura “apparenza”: l’albero reale (il designato) può bruciare, essere soggetto ed oggetto di azione, entrare in mescolanze; ma non il noema di un albero. Vi sono molti noemi e sensi per uno stesso designato: stella della sera e stella del mattino sono due espressioni. Ma quando Husserl dice che il noema è il percepito quale appare in una presentazione, “il percepito in quanto tale” o l’apparenza, non dobbiamo intendere che si tratti di un dato sensibile o di una qualità, ma al contrario di un’unità ideale obbiettiva come correlato intenzionale dell’atto di percezione. Un noema qualunque non è dato in una percezione (né in un ricordo o in un’immagine), esso ha un ben altro statuto che consiste nel non esistere fuori della proposizione che lo esprime, proposizione percettiva, immaginativa, di ricordo o di rappresentazione. Del verde come colore sensibile o come qualità, distinguiamo il “verdeggiare” come colore noematico o attributo. L’albero verdeggia, non è questo in definitiva il senso di colore dell’albero e, l’albero arborifica, il suo senso globale? Il noema, è qualcos’altro che un evento puro, l’evento d’albero (quantunque Husserl non parli così per motivi terminologici)? E ciò che egli chiama apparenza, cos’altro è se non un effetto di superficie? Tra i noemi di uno stesso oggetto, o anche di oggetti diversi, si elaborano complessi legami analoghi a quelli che la dialettica stoica stabilisce tra gli eventi. La fenomenologia sarebbe forse questa scienza rigorosa degli effetti di superficie? [60]

Deleuze sostiene che la fenomenologia è la scienza rigorosa degli effetti di superficie, ma se la logica del senso è la logica degli eventi e degli effetti di superficie, la logica del senso si trova ad essere in una stretta relazione con la fenomenologia. Molte delle correnti della filosofia continentale possono essere derivate in qualche modo dalla fenomenologia. L’esistenzialismo sembra composto prevalentemente da filosofi che hanno un forte interesse per la fenomenologia: Sartre, Merleau-Ponty, Heidegger, ecc. Anche nell’ermeneutica si trovano diversi filosofi vicini alla fenomenologia come Lévinas, Derrida e Ricoeur. E nello strutturalismo? È proprio lo scritto Logica del senso che avvicina lo strutturalismo alla fenomenologia. Lo strutturalismo si basa sull’esistenza di una struttura composta da due serie separate in cui elementi dell’una rimandano a quelli dell’altra ed intrattenenti una relazione per cui una serie eccede sull’altra. Le due serie sono il significante e il significato. Il significante è il senso, la parola; il significato è la cosa. Il linguaggio è strutturato in modo tale che le parole e le cose non si identificano. Se così non fosse, avremmo quello che in psicoanalisi sarebbe un linguaggio schizofrenico, quello che in Logica del senso è una specie di linguaggio-cibo in quanto composto di parole mangiate. La parola da un lato si riferisce ad uno stato di cose o ad un oggetto particolare, dall’altro essa, non coincidendo con l’oggetto, è espresso o senso. Lasciando perdere il significato di una frase, cioè il riferirsi di quella frase ad un certo stato di cose, rimane comunque qualcos’altro: questo qualcos’altro è il senso. Per accorgerci di questo fatto si potrebbe prendere ad esempio un’espressione che non ha nessun significato come “quadrato rotondo”. Essa, sebbene non abbia significato perché non si riferisce a nessuno stato di cose, non smette di esprimere qualcosa, di avere un senso. In questa e nelle prossime due sezioni spiegherò bene come funziona la logica del senso mentre qui l’oggetto particolare di interesse è sia la sua relazione con la fenomenologia sia la sua natura di logica.

Deleuze crede che questa dimensione del senso non sia mai semplicemente questione di linguaggio, anche se sembra difficile separala da questo. In Logica del senso Deleuze istituisce un parallelismo tra lo strutturalismo e la dottrina stoica. Gli stoici avevano preso l’ordine delle cause e quello degli effetti distinguendoli ed opponendoli: da un lato un ordine delle cause con i corpi e le loro profondità, dall’altro un ordine degli effetti fatto di eventi ed incorporei. Al primo ordine, quello dei corpi, appartiene il significato, mentre il senso appartiene all’ordine degli effetti. Una proposizione in quanto ha significato si riferisce ad uno stato di cose, ma gli stati di cose concernono i corpi nel mondo. La proposizione ha anche un senso; la logica e la natura di questo senso saranno tematizzate in queste sezioni.

Perché allora la fenomenologia secondo Deleuze si insinuerebbe nello strutturalismo? Deleuze è convinto che il noema husserliano, ovvero l’oggetto così come si dà nel nostro vissuto, sia esattamente ciò che gli stoici intendevano per evento, ma l’evento è esattamente ciò che lo strutturalismo intende con il termine senso. Il problema di questo parallelismo che costruisce Deleuze è che secondo lui il noema sarebbe un evento, un incorporeo, o un oggetto virtuale che è indipendente dal soggetto, mentre Husserl intende con noema un’entità della mente. Se si fa un’indagine più approfondita si scopre che il problema nella contesa tra i due è solo uno: l’empirismo. Deleuze sceglie l’empirismo perché cerca una strada per andare oltre la mera realtà attuale oggetto dei sensi e nello stesso tempo non vuole rivolgersi alle idee e al mentale, quindi scopre la dimensione del virtuale in Bergson e dà origine ad una nuova forma di empirismo: l’empirismo trascendentale. Secondo l’empirismo trascendentale non c’è una relazione soggetto-oggetto già data, ma si tratta di pensare quei processi a partire dai quali si costituiscono i soggetti e gli oggetti dal punto di vista di una realtà impersonale e pre-individuale. In realtà l’empirismo trascendentale non è nemmeno mero empirismo in senso classico; infatti l’empirismo trascendentale parte dalla nozione di differenza in sé che, come spiegherò più avanti, non è affatto empirica.

Husserl, invece, non aveva simpatie per l’empirismo, piuttosto egli si rifaceva al pensiero razionalista di Cartesio. Nelle Ricerche logiche Husserl, tuttavia, non adotta ancora una posizione fortemente cartesiana: il suo stesso concetto di coscienza, come ha ben mostrato Emanuele Coppola, in realtà sarebbe avvicinabile a quello dell’empirista David Hume. È vero comunque che sia nei Prolegomeni sia nella seconda delle Ricerche logiche Husserl critica duramente l’empirismo; la critica si rivolge a due grandi temi: l’interpretazione psicologista della logica e la teoria dell’astrazione empirista. Certamente Husserl ha perfettamente ragione quando afferma che la logica non può essere ridotta al mentale o al pensiero: infatti, se così fosse, non vi sarebbero pensieri che non seguirebbero le leggi della logica, ovvero non ci sarebbero pensieri contraddittori. Inoltre non ha senso dire che la logica si riduce al mentale perché ciò non renderebbe giustizia alla validità obbiettiva degli argomenti logici che non dipendono dalla struttura di una mente e sono validi in ogni tempo e in ogni spazio [61]. Riguardo al secondo discorso, a proposito della concezione empirista del generale dell’idea come particolare, si può affermare che tale concezione è alquanto discutibile. Berkeley sosteneva che per pensare l’idea del gatto sarebbe bastato fare uso dell’immagine di un gatto qualsiasi, in quanto questa immagine avrebbe esemplificato facilmente le caratteristiche generali del gatto. In questo modo l’idea del gatto sarebbe consistita in un’immagine particolare di un gatto. Sicuramente nessun filosofo oggi si sognerebbe di dire che le idee sono delle immagini [62]; Deleuze tuttavia in Differenza e ripetizione sembra trovarsi d’accordo con l’idea empirista secondo la quale il generale non è che un particolare. Tuttavia entrambe le critiche all’empirismo mosse da Husserl non toccano la questione affrontata in questa sezione. Bisognerebbe piuttosto concentrarsi sul fatto che l’empirismo di Deleuze si basa sul virtuale, sull’idea di una realtà eccedente, sull’idea che la realtà è molto più vasta di quello che pensiamo. Se prendiamo questa idea bergsoniana, in Husserl si trova effettivamente qualcosa di simile. Nelle Idee [63] Husserl spiega che la realtà non deve essere ridotta semplicemente a quello che mi è offerto percettivamente proprio in quanto interagisco con il mondo: basta semplicemente che sposti la mia attenzione per interagire con un mondo più ampio che attornia la mia precedente finestra percettiva; ma se posso fare questo nello spazio, posso farlo nel tempo e ricordare degli eventi o avere protensioni di cose che devono ancora venire. La fenomenologia ha scoperto tutto un mondo di vissuti che è il mondo dell’esperienza, della prospettiva della prima persona, che le neuroscienze non sono ancora riuscite a ridurre alla materia. Tutto questo esiste in qualche modo, semplicemente non è scientificamente ancora chiaro come. Ora questa non è la prova che il virtuale sarebbe presente anche in Husserl, è un’osservazione che mostra come filosofi come Husserl, Bergson e James, indagando sull’essere della coscienza, hanno tutti più o meno concordato sull’idea che la nozione di “reale” non si restringe al mero attuale. Rimane però il fatto che Deleuze non intende il noema come oggetto della mente, mentre Husserl sì perché questo deriva da una certa nozione di intenzionalità che ha le sue radici nella filosofia medievale e che è stata ripresa successivamente da Brentano.

b) DELEUZE CON FREGE: I FONDAMENTI DELLA LOGICA DEL SENSO

A questo punto conviene rivolgersi ad un altro aspetto della questione e ad un altro autore: Gottlob Frege. In Logica del senso Deleuze afferma che la sua nozione di senso non differisce da quella usata da Frege in Sinn und Bedeutung. Frege sostiene che due espressioni come “stella del mattino” e “stella della sera” hanno lo stesso significato perché si riferiscono alla stessa cosa, Venere, eppure esprimono due rappresentazioni diverse, perciò hanno un senso diverso. Questo passaggio da Husserl a Frege mi permette di cominciare a prendere in considerazione non solo il problema della fenomenologia, ma anche quello della logica. Ci sono alcuni autori di un certo rilievo che sostengono che il Sinn (senso) fregeano non sarebbe altro che il noema di Husserl. Uno di questi autori è il filosofo norvegese Dagfinn Føllesdal, un altro è Barry Smith. Barry Smith ha scritto un interessante articolo sul tema del rapporto tra il pensiero di Husserl e quello di Frege [64]. Sia Frege che Husserl dal punto di vista logico sono degli antipsicologisti, con la differenza che, spiega Barry Smith, nel caso di Husserl l’aver separato la logica dalla mente e dal mero pensiero ha avuto l’effetto di scoprire tutto un mondo di atti di coscienza (giudizi, desideri, aspettative, ecc.) che potevano anche avere una struttura logica, ma non andavano confusi con la logica, quindi si delineava un nuovo campo di indagine: un campo per la fenomenologia. La schematizzazione husserliana dell’atto della coscienza, nella descrizione di Smith, è la seguente: atto/noesi; senso; referente (reference). Il senso, in mezzo tra la noesi e il riferimento, è il noema husserliano. Barry Smith spiega che nelle Ricerche logiche, quelle scritte da Frege, viene distinto l’oggetto dalla funzione. Ad esempio, in “Venere è un pianeta”, “Venere” è chiaramente un oggetto, ma “pianeta” è una proprietà di un oggetto. Sia Husserl che Frege, spiega Barry Smith, seguivano la tradizione logica di Ernst Schröder secondo la quale dire che un certo oggetto possiede una certa proprietà significa che quell’oggetto appartiene ad un certo insieme o che ricade sotto un certo concetto. Frege dirà nel Begriffschrift che l’oggetto è una costante individuale e la proprietà è una funzione. L’oggetto sarebbe perciò quella costante individuale che è l’argomento di una certa funzione. Al termine dell’articolo Barry Smith distingue tre reami per un’ontologia del riferimento tra Husserl e Frege:

  1. il reame reale soggettivo (immagini private mentali);
  2. il reame oggettivo non-reale (in riferimento a tutti gli oggetti puramente ideali, come potrebbero essere gli oggetti della logica e quelli della matematica);
  3. il reame oggettivo reale (in riferimento agli oggetti materiali, gli eventi ed ai processi).

Il primo reame è quello del segno, il secondo è quello del senso, il terzo è quello del riferimento. Il noema appartiene al senso; esso si trova quindi in mezzo tra le altre due dimensioni e sembra essere un medio. Barry Smith spiega che negli atti non-veridici, cioè nell’illusione o nell’allucinazione, non c’è referente, ma solo noema, mentre negli atti dove l’oggetto è astratto il riferimento sarebbe l’entità noematica stessa.

Tutti questi discorsi sul rapporto tra il senso secondo Frege e il noema secondo Husserl sono molto belli e stimolanti, sicuramente c’è del vero in quel che dicono, ma dalla prospettiva deleuziana qui non si sta cogliendo il punto. Il senso in Smith diventa qualcosa di ideale/astratto. La nozione di senso in questo caso sarebbe quella del regno del senso, questo reame dal sapore platonico del tutto estraneo alla filosofia dell’evento di Deleuze. In realtà quello che conta in tutto questo è capire che il senso, così come il noema, sono degli oggetti irreali, sono degli incorporei, essi non hanno natura chimica o materiale. Il seguente passo delle Idee di Husserl lo mostra bene:

L’albero simpliciter, la cosa della natura, è qualcosa di completamente diverso da questo albero percepito come tale, che come senso percettivo appartiene inscindibilmente alla percezione. L’albero simpliciter può bruciare, dissolversi nei suoi elementi chimici, ecc. Ma il senso ‒ il senso di questa percezione, cioè qualcosa che appartiene necessariamente alla sua essenza ‒ non può bruciare, non ha elementi chimici, forze, proprietà reali. [65]

L’esempio tipico di Deleuze è il “verdeggiare dell’albero”, un senso ed evento che non può essere semplicemente ridotto al fatto che l’albero ha le foglie verdi. Esistono quindi un “bruciare dell’albero” e un “verdeggiare dell’albero” come eventi/noemi che non bruciano e non sono verdi.

Io credo che la logica classica non sia altro che una logica del significato e che in qualche maniera non catturi il senso, almeno per quel che intende Deleuze con il termine senso. Si prendano come esempio due proposizioni di questo tipo: “il gatto mangia il topo”; “il topo è mangiato dal gatto”. Deleuze afferma che il senso è doppio, che è attivo-passivo, che esiste quindi in queste proposizioni un unico espresso che non si riduce al mero stato di cose per cui il corpo del topo morto ed a pezzi si trova nella pancia del gatto che lo ha divorato per pranzo. Se si formalizzassero le due proposizioni secondo la logica classica si otterrebbe una sola formula di questo tipo:

∃x (Gx ∧ ∃y (Ty ∧ Mxy))

Questa è un’espressione della logica predicativa, G è una lettera predicativa che sta per “gatto”, T è un’altra lettera predicativa che sta per “topo” ed M sta per la relazione “mangiare”. La formula si potrebbe leggere in questo modo: c’è una x che ha la proprietà di essere un gatto e c’è una y che ha la proprietà di essere un topo e x ha mangiato y.

Questo non significa che il senso in “il gatto mangia il topo” sia diverso dal senso in “il topo è mangiato dal gatto”: in realtà l’espresso è il medesimo. Il problema sta nel fatto che in quella formalizzazione scompare del tutto questa doppia articolazione del senso, che è una caratteristica del senso. La formalizzazione che ho scritto in realtà ci dice semplicemente che perché sia vero quel tipo di asserzione deve esistere un modello in cui l’oggetto denotato dalla x corrisponde ad un oggetto che è contenuto nell’estensione “gatto” e in cui l’oggetto denominato dalla y corrisponde ad un oggetto contenuto dell’estensione “topo”, tale per cui esiste una relazione tra questi due oggetti che è la relazione del “mangiare”. In questo caso la proposizione ci parla solo di uno stato di cose che indicherebbe e che, se corrisponde ai fatti, renderebbe la proposizione vera. Il senso, come spiegherò, non c’entra nulla con la verità. Questa proposizione potrebbe occorrere come premessa di un argomento oppure come conclusione di esso; la logica ci mostrerebbe in questo caso se l’argomento funziona, cioè se la conclusione è derivabile dalle premesse. Tuttavia la logica classica non sembra riuscire a catturare il senso in questa proposizione [66]. Più precisamente Deleuze afferma che la logica tratta solo del significato e della struttura dell’argomentazione, ma non direttamente del senso:

È sorprendente constatare che tutta l’opera logica concerna direttamente la significazione, le implicazioni e conclusioni, mentre solo indirettamente il senso ‒ e appunto tramite i paradossi che la significazione non risolve oppure che essa crea. [67]

Il senso è nel linguaggio, ma anche fuori di esso, cioè esso sarebbe un attributo noematico delle cose. Già questo sembra un paradosso, ma è proprio il paradosso la dimensione del senso e se c’è un modo per la logica per scoprire il senso, dice Deleuze, è qui. In una serie dal titolo “Sul senso” Deleuze presenta tre paradossi propri del senso:

  1. Paradosso della regressione o della proliferazione infinita: questo paradosso rimanda tanto a Frege quanto a Lewis Carroll; esso ci dice che il senso è sempre presupposto nel parlato: il senso è già prima che cominciamo a parlare. Si genera una regressione infinita quando voglio esprimere il senso di una proposizione perché ogni volta che provo a farlo dovrò formulare un’altra proposizione con un nuovo senso e questa per essere compresa dovrà avere un senso espresso da un’altra proposizione con il suo altro senso e così via. Questo paradosso è espresso nello strutturalismo con la formula: il significato di un significante è un altro significante. Si noti come Deleuze paragoni il paradosso alla teoria dei tipi di Russell. Infatti basta assegnare a ogni proposizione che esprime il senso della precedente un grado per avere dei tipi in gerarchia.
  2. Paradosso dello sdoppiamento sterile e della reiterazione arida: per evitare la regressione si tenterà di immobilizzare la proposizione per estrapolarne il senso, ma tutto quello che si ottiene è un mero “fantasma sterile”. Ad esempio Deleuze spiega che una proposizione come “il cielo è azzurro” diventerebbe “l’essente-azzurro del cielo”. In Carroll questo paradosso corrisponde al paradosso del “sorriso senza gatto” o del “fuoco senza la candela”.
  3. Paradosso della neutralità o del terzo stato dell’essenza: il senso è neutro ed è sempre doppio (attivo-passivo, futuro-passato, alto-basso), tuttavia la direzione è simultanea. Il senso è unico ed indifferente a questa opposizione.

Mano a mano nella Logica del senso Deleuze spiega nuove caratteristiche del senso: il senso è al di là del vero e del falso; anche il non senso ha senso. La dimensione di una proposizione che concerne la verità è quella del significato: infatti una proposizione si può dire vera o falsa in quanto indica un certo stato di cose e sarà vera se esiste questo stato di cose corrispondente o falsa se non c’è. Il senso non c’entra nulla con tutto questo, esso è semplicemente ciò che è espresso in una proposizione. Anche il non senso ha un senso: infatti, ad esempio, il “quadrato rotondo” certamente non ha significato, perché non designa nessuno stato di cose, tuttavia esso esprime pur sempre qualcosa [68].

Non finisce qui: nella serie “Paradosso” Deleuze torna a trattare della logica rivolgendosi direttamente alla teoria degli insiemi di Russell. In quelle notevoli pagine distingue due paradossi del significato e altri due del senso:

1) Significato:

‒ l’insieme anormale, ovvero un insieme che contiene elementi di un tipo diverso: il famoso barbiere del reggimento [69];

‒ l’elemento ribelle: «(…) fa parte di un’insieme di cui presuppone l’esistenza e appartiene ai due sottoinsiemi che determina» [70];

2) Senso:

‒ la suddivisione all’infinito: il presente che si divide all’infinito in passato e futuro. Due direzioni del senso: buon senso e senso comune. Il buon senso ripartisce la differenza, il senso comune identifica. La doppia direzione del senso rompe con il buon senso. Il paradosso, afferma Deleuze, sovverte il senso comune e il buon senso;

– la distribuzione nomade: il senso si ripartisce sempre in uno spazio aperto e non chiuso. Il buon senso è sedentario e ha solo uno spazio chiuso. La sovversione del senso comune e del buon senso genera uno spazio nomade per una distribuzione diabolica ed in movimento senza punti fissi.

Rimane ancora un elemento del senso, forse il più importante: la disgiunzione inclusiva. Ho detto che il senso ha questa doppia articolazione, ma il senso non esclude gli elementi della disgiunzione: li afferma entrambi simultaneamente. Una disgiunzione esclusiva è una formula del tipo: α v β [71]. Che cosa dovrebbe essere una disgiunzione inclusiva? Spesso ho tradotto questa disgiunzione come α ∧ β (es.: “William e Richard”), ma questa sarebbe semplicemente una congiunzione. In realtà la disgiunzione inclusiva in Deleuze è una sintesi, ma se la si rende semplicemente con una “e” invece che con una “o” si potrebbe confonderla con una sintesi connettiva, mentre si tratta di una disgiunzione. Forse una formula come “sia…sia” sarebbe più adatta, ma non c’è un simbolo logico, almeno che io sappia, per rendere questo.

La vera domanda, tuttavia, dovrebbe essere questa: la logica del senso è una logica alternativa o si concilia con la logica classica? Se si prende la lettera β nel mio esempio di sintesi disgiuntiva esclusiva come una formula dalla forma ~ α, si ottiene il terzo escluso: α v ~ α. Ora se la logica del senso nega anche questa sintesi disgiuntiva esclusiva, dalla sua negazione si ottiene la contraddizione affermata: ~ (α v ~ α) = α ∧ ~ α. Ci si potrebbe dunque chiedere se la logica del senso ammetta la contraddizione, nel qual caso la logica del senso sarebbe una logica alternativa. Deleuze tuttavia sottolinea che il senso non c’entra nulla con gli stati di cose e la contraddizione [72], si sa, rappresenta semplicemente due proprietà opposte attribuite allo stesso stato di cose. La logica del senso riguarda qualcosa di diverso, una dimensione che non può mai essere ridotta ad uno stato di cose, la dimensione del divenire. Tuttavia esiste ancora un altro problema: forse la logica del senso nega il terzo escluso nello stesso senso in cui questa operazione viene eseguita nella logica intuizionistica per esempio da Brouwer. Se così fosse, anche in questo caso bisognerebbe parlare della logica del senso come logica alternativa. Sia in Simondon sia in Guattari si trova esplicitata la necessità di un superamento del terzo escluso per una logica che possa comprendere una realtà come quella dell’individuazione e della virtualità macchinica. In effetti si può pensare una cosa di questo genere se si fa riferimento al Deleuze di testi come Mille piani, in cui Deleuze con Guattari si pone come obbiettivo la critica alla struttura binaria significante/significato, come istanza molare nella quale si vorrebbe intrappolare il desiderio. Ogni attacco allo strutturalismo è certamente un attacco alla logica classica come logica binaria, ma Deleuze in Logica del senso è ancora uno strutturalista e dal punto di vista della logica non sembra voler contraddire quel che gli analitici hanno detto sulla logica, ma forse semplicemente completare il discorso. Tuttavia è chiaro che il divenire è neutro rispetto alle opposizioni, semplicemente perché precede ogni opposizione. Della struttura, infatti, Deleuze dice anche che è un puro virtuale che si attualizza di volta in volta, non qualcosa di già dato.

 

Note

[60] Deleuze, Gilles, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 2009, pp. 26-27.

[61] Un esempio è la regola di inferenza conosciuta come modus ponens: A → B, A ├ B.

[62] In realtà è ancora forte nel dibattito la posizione ideazionale; tuttavia non ci sono per ora degli esperimenti neuroscientifici che l’abbiano confermata. Sembra, ad esempio, che le aree visive del cervello non si attivino quando un soggetto elabora una parola astratta.

[63] Cfr. Husserl, Edmund, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino, 2005, pp. 61-63.

[64] Smith, Barry, Frege and Husserl: the Ontology of Reference, Journal of the British Society for Phenomenology, Vol. 9, No. 2, 1978, pp. 111-125.

[65] Husserl, Edmund, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino, 2005, pp. 227-228

[66] Quale sarebbe il senso di questa proposizione? Probabilmente qualcosa come: il mangiare del gatto il topo o il gatto mangiante il topo.

[67] Deleuze, Gilles, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 28.

[68] Si noti che anche Husserl, nelle Ricerche logiche, afferma che non è possibile che “quadrato rotondo” non esprima nulla: se così fosse non potremmo comprenderci quando usiamo quest’espressione. Sembra piuttosto che essa rimandi ad una specie di concetto confuso.

[69] Ci si riferisce al paradosso del barbiere di Bertrand Russell che dice: se in un villaggio c’è un solo barbiere e questo barbiere rade solo gli uomini che non si radono da soli, allora il barbiere rade se stesso? Se il barbiere fa parte dell’insieme degli uomini che si radono da soli, allora non è vero che lui rade solo uomini che non si radono da soli. Se invece il barbiere non si rade da solo, vuol dire che anche lui va da un barbiere, ma dal momento che è l’unico barbiere nel villaggio non potrebbe che radersi da solo e quindi riappare il paradosso. A questo paradosso si riferisce l’insieme anomalo deleuziano, un insieme che contiene un elemento estraneo, un’anomalia.

[70] Deleuze, Gilles, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 2009, p. 72.

[71] Anche questa formula è problematica perché non è evidente che le due formule sono in una relazione per cui se una è vera l’altra è necessariamente falsa. Si può dare il caso in cui siano entrambe vere. In quel caso la disgiunzione apparirebbe di carattere inclusivo, anche se io non sono d’accordo con l’uso dell’espressione “o” nella disgiunzione inclusiva e non simpatizzo con l’idea della possibile doppia verità dei termini in una disgiunzione. Questo comunque non vale ovviamente nella formula α v ~ α.

[72] I paradossi, spiega Deleuze, sono degli impossibili da cui si deriva la contraddizione, ma non sono essi stessi contraddittori.

 

Articolo seguente: Nietzsche, Bergson, Husserl, Heidegger, Deleuze: sul divenire eracliteo (23)

 

 


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