Nietzsche, Bergson, Husserl, Heidegger, Deleuze: sul divenire eracliteo (21)
Nietzsche, Bergson, Husserl, Heidegger, Deleuze: sul divenire eracliteo (21)
Feb 11
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21. Heidegger e Bergson: il tema della morte
E dentro di noi è presente un’identica cosa: vivente e morto, e lo sveglio e il dormiente, e giovane e vecchio: difatti queste cose, una volta rovesciate, sono quelle, e quelle dal canto loro, una volta rovesciate, sono queste. [57]
François Dastur, fenomenologo francese, nei suoi scritti mette in luce l’intimo legame tra la temporalità e la coscienza in Husserl ed Heidegger. La nostra coscienza altro non sarebbe che questo flusso di vissuti che scorre, una coscienza temporale, che, proprio in quanto tale, rivela il suo carattere di finitudine. Dastur stesso ha scritto un libro sulla morte: La mort. Essai sur la finitude [58]. Dastur distingue due tradizioni sul tema della morte: in Platone, che commisura la mortalità dell’uomo con l’immortalità dell’assoluto, l’uomo è legato all’esistenza terrena e prova paura della morte, la filosofia dovrebbe perciò svolgere un ruolo di addomesticamento della morte; Aristotele, invece, arriva a pensare la morte come mero passare e in questo modo supera il problema del terrore della morte. In Platone la negatività è collocata direttamente nell’uomo rispetto ad un essere eterno, in Aristotele invece diventa centrale il movimento stesso del divenire dall’essere al non-essere: in questo movimento del passaggio si può pensare la morte. Quando Heidegger parla della morte distingue la morte dal mero decesso. Egli vede nella morte una possibilità vissuta da un soggetto. Noi siamo temporali e un giorno cesseremo di esistere, ma è proprio questo assoluto nulla della morte che apre una dimensione per l’Esserci: quella dell’essere per la morte. La morte è, dice Dastur, la possibilità dell’impossibilità dell’Esserci. L’Essere per la morte è la libertà per la morte dell’Esserci, un altro modo di guardare alla finitudine dell’Esserci stesso.
La temporalità della coscienza sembra decretare il carattere di finitudine della nostra coscienza e di noi stessi. A questo punto sorge la domanda: se è vero che tutto diviene, tutto muta e tutto è temporale, non è vero anche che deve pur rimanere qualcosa di identico, proprio questo qualcosa che muta, qualcosa che si evolve, forse quell’identica cosa a cui si riferiva Eraclito? In passato filosofi come Platone credevano l’anima immortale, ora, invece, questi autori ci dicono qualcosa di diverso: che la temporalità fa parte della nostra essenza. A questo punto ci si può chiedere: che cosa ci dicono questi autori della vita dopo la morte?
In Essere e tempo Heidegger pensa la morte come esperienza che viene vissuta da altri. Sono gli altri che si prendono cura del morto, che lo seppelliscono, che lo rimpiangono, che portano i fiori al cimitero. La morte sembra semplicemente un addormentarsi, un fatto inconscio. Tuttavia, sottolinea Heidegger, la fenomenologia non si occupa di quel che accade dopo la morte, perciò non esclude la possibilità che vi sia qualcos’altro. La fenomenologia studia il vissuto e il vissuto della morte riguarda solo due soggetti: chi compiange qualcun altro perché morto e la persona ancora viva per cui la morte è un evento futuro.
Qualcosa di molto più interessante lo si trova invece in Henri Bergson. Bergson afferma che si potrebbero fornire dei buoni argomenti a favore della vita dopo la morte dimostrando che l’attività della coscienza eccede quella cerebrale. Un tipo di dimostrazione del genere sarebbe molto più credibile di qualsiasi argomento di metafisica e Bergson si prefigge di esporre tale argomento. Bergson lo fa mettendo appunto in campo una serie di riflessioni a supporto della tesi secondo la quale la coscienza non si riduce al cervello. Con questo Bergson intende anche dimostrare che la memoria non si riduce al cervello; infatti egli intende per coscienza e memoria la stessa cosa, pensando che l’inconscio sia essenzialmente oblio.
Prima di tutto Bergson suppone che la coscienza sia presente in tutto il vivente, cioè sia negli uomini che negli animali, compresi gli insetti. Passando dall’umano all’insetto si arriva ad esseri con sistemi nervosi e cerebrali sempre più semplificati. Vi sono anche degli esseri viventi come le meduse o le spugne che non hanno affatto il cervello, eppure non sembrano privi di un certo grado di intelligenza. Bergson in L’energia spirituale afferma che dire che per essere coscienti bisogna avere un cervello è come dire che per digerire ci vuole un apparato digerente, ma di fatto l’ameba digerisce senza apparato digerente. Quindi vi sono animali relativamente ai quali si può plausibilmente supporre che abbiano un certo grado di coscienza anche se non hanno affatto il cervello, ad esempio le meduse.
Il cervello secondo Bergson ha una funzione del tutto diversa da quella della coscienza. La coscienza è libertà, creatività, spontaneità, imprevedibilità. Il cervello al contrario ha una funzione motoria e semplicemente reagisce ad un mondo esterno. Ora chi sostiene una teoria riduzionista potrebbe dire che la libertà in fondo non è altro che un’illusione, ma questo, dice Bergson, ce lo devono ancora dimostrare, perché noi abbiamo effettivamente la sensazione di essere liberi.
Bergson non ignorava quel che dicono le neuroscienze: egli conosceva i casi di deficit, i tentativi di localizzazione e gli studi di Broca sulla memoria verbale. Egli, tuttavia, non è affatto convinto che questi studi dimostrino che la coscienza e la memoria sono nel cervello. Egli crede piuttosto che dimostrino che esiste una relazione tra il cervello e la mente. In una immagine molto suggestiva, sempre in L’energia spirituale, egli paragona la mente ad un chiodo e il corpo ad un vestito che è appeso al muro con questo chiodo: se si tira l’abito è ovvio che il chiodo oscillerà e si sposterà, se poi lo si tira violentemente probabilmente il chiodo si staccherà dalla parete. Il chiodo e l’abito non sono la stessa cosa, ma, fuori di metafora, è ovvio che una lesione al cervello comporterà degli effetti sulla mente, il che comunque non significa che siano la stessa cosa e non significa nemmeno che ci sia una corrispondenza tra le aree del cervello e come è costituita la mente.
Infine, si chiede Bergson, come potrebbe il cervello contenere cose non tangibili come i ricordi? Il cervello, pensa Bergson, non ha lo scopo di conservare i ricordi, ma di mostrare ciò che è utile praticamente. A questo punto se la coscienza eccede il cervello [59] e il corpo umano, è supponibile che essa si conservi una volta che il corpo sia morto. Non è certo una prova definitiva, ma sono delle osservazioni che lasciano aperta questa possibilità.
Note
[57] Colli, Giorgio (a cura di), La sapienza greca. Eraclito (vol. III), Adelphi, Milano, 2006, p. 105.
[58] Cfr. Gondek, Hans-Dieter, Tengelyi, László, Neue Phänomenologie in Frankreich, Surkamp, Berlin, 2011, pp. 537-543.
[59] Ancora oggi le neuroscienze, che sembrano aver ridotto tutto al cervello, in realtà non sono in grado di dare una risposta soddisfacente al problema della coscienza. C’è chi dice che la coscienza in realtà è solo un’illusione e questi sono gli eliminativisti. C’è chi invece crede che la coscienza sia un epifenomeno del cervello causato biologicamente: Huxley sosteneva che la coscienza fosse causata dal sistema nervoso, ma che fosse un fenomeno emergente. Nella filosofia della mente si parla di epifenomeno quando un fenomeno della mente è causato dal cervello. Non ci sono ancora delle soluzioni soddisfacenti al problema e anche per questo tale problema viene oggi chiamato hard problem. Alcuni filosofi attuali hanno elaborato delle posizioni alternative: una è il pampsichismo, sostenuto da vari filosofi, tra cui Galen Strawson e Steven Shaviro; l’altra alternativa è la posizione di David Chalmers. Il pampsichismo crede che la coscienza sia ovunque, che la coscienza sia una caratteristica fondamentale della realtà. Questo significa che la coscienza la possiedono anche le rocce. Strawson afferma che la componente fondamentale della realtà, cioè l’energia, avrebbe la proprietà di avere esperienze. Il pampsichismo è un ritorno sulla scena di una posizione spinozista. David Chalmers, invece, crede che la coscienza sia una dimensione della realtà come lo spazio e il tempo. Sono posizioni interessanti quelle che stanno oggi emergendo nella filosofia della mente, perciò è un peccato che questi autori non considerino molto un filosofo come Bergson.
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