Nietzsche, Bergson, Husserl, Heidegger, Deleuze: sul divenire eracliteo (2)
Nietzsche, Bergson, Husserl, Heidegger, Deleuze: sul divenire eracliteo (2)
Nov 30
Articolo precedente: Nietzsche, Bergson, Husserl, Heidegger, Deleuze: sul divenire eracliteo (1)
2. Il concetto del tempo nella storia della filosofia
a) IL TEMPO NELLA FILOSOFIA ANTICA
Ho deciso di inserire una sezione nell’articolo per spiegare quelli che, secondo me, sono stati i vari progressi compiuti dai filosofi nella storia della filosofia sul concetto di tempo, badando ai momenti più rilevanti per quanto riguarda la riflessione filosofica. Forse il primo fatto che hanno constatato i filosofi è che esistono due dimensioni: una dimensione è quella dell’eternità e l’altra è il divenire; la prima dimensione si trova fuori dal tempo, la seconda è il tempo stesso. I primi filosofi si devono essere accorti che dal punto di vista dell’esperienza il mondo si offre in divenire, come insieme di enti in perenne mutamento. Devono forse aver capito che se tutto muta non è possibile nessuna conoscenza. Infatti non si potrebbe asserire nulla di qualsiasi ente, per esempio affermare di qualche ente che ha una certa proprietà, senza che, finito di parlare, l’ente sia già mutato. Se così stanno le cose ci deve essere un piano di essenze immutabili che non cambiano nel tempo; conoscere le essenze, a questo punto, vorrebbe dire conoscere davvero. Tutto fa supporre che vi debba essere un piano dell’eternità. Nietzsche afferma, quando spiega l’origine del pensiero di Talete in La filosofia nell’epoca tragica dei greci, che l’idea di Talete secondo la quale l’acqua sarebbe il principio di ogni cosa non è chiaramente un’ipotesi fisica, come potrebbe esserlo il dire che la terra viene dall’acqua, ma è un pensiero filosofico in quanto rispecchia l’idea secondo la quale tutto è Uno. Quindi Talete cercava al di là di un mondo apparente quel principio eterno di tutti gli enti.
Il divenire e l’eternità sono stati spesso contrapposti dai filosofi soprattutto per quel che riguarda la grande tradizione idealista. La conoscenza non può essere del divenire, come dicevo, ma solo delle essenze eterne e deve seguire la logica. Ciò che è più fastidioso del divenire è che viola le leggi della logica, è contraddittorio, in esso le cose sono e non sono, esso non rispetta forse nessuna regola dell’intelletto, appare quindi quasi come anarchico. In una tradizione che potremmo tracciare da Parmenide a Hegel, passando per Platone, Kant e Fichte, si dice che l’eternità è il mondo vero, mentre il divenire è il falso mondo apparente; la conoscenza potrebbe riferirsi solo al primo mondo e non al secondo. Ovviamente anche quanto affermo qui è problematico: sicuramente in questa immagine del mondo si può includere Parmenide e Platone; Kant faceva partire la conoscenza dall’esperienza, tuttavia secondo lui la conoscenza più certa, universale e necessaria, deriva dai giudizi sintetici a priori. Se non ci fossero dei principi a priori nell’intelletto, dalla sola conoscenza esterna delle cose non potremmo trarre nulla di universale e cadremmo, così come è accaduto agli empiristi, nel più totale scetticismo. Anche Hegel qui rappresenterebbe una figura problematica rispetto a questo tema dell’eternità e del divenire; dopo tutto egli riprende molti temi dallo stesso Eraclito: la dialettica hegeliana, infatti, ricorda le figure eraclitee della guerra, del divenire altro, dell’unione degli opposti. Hegel in qualche modo non oppone veramente l’eternità al divenire: egli crede che il dover essere deve sempre realizzarsi nell’essere, e questo è il significato della sua sentenza famosa sul reale come razionale. Hegel insomma non pensa essenze al di là dell’apparenza come invece è caratteristico delle forme di pensiero di Platone e Parmenide. Hegel quindi legge l’apparenza come essenza in cui si manifesta lo Spirito. Hegel, tuttavia, intende l’apparenza in due modi: il mero sembrare (scheinen) o l’apparire in cui si dà l’essenza (erscheinen). Hegel quindi rigetta il noumeno kantiano, ma, proprio per questo, tale filosofo deve inserirsi alla fine della storia nietzscheana del mondo reale che diventa favola: proprio Hegel, infatti, ha colpito con l’accetta il mondo reale, lasciando solo il mondo apparente. Tuttavia il recupero di Eraclito in Hegel non ha gli stessi scopi e risultati dell’operazione di Nietzsche: il primo è il filosofo della necessità, della storia, che forse rintraccia in Eraclito l’idea della ragione che governa le cose e gli eventi [3]; il secondo è il filosofo dell’eterno ritorno, del caso, delle combinazioni dei possibili. Da qui certo sembrano provenire due immagini di Eraclito. Non voglio interrogarmi in questa sede su quale sia quella corretta: sulla base dei soli frammenti che abbiano di Eraclito ammetto che si potrebbero costruire più letture del filosofo. In questo articolo, tuttavia, sarà seguita solo la seconda interpretazione: quella di Nietzsche.
b) IL TEMPO NELLA FILOSOFIA MEDIOEVALE E MODERNA
In un secondo momento i filosofi si sono resi conto che il presente non può appartenere al tempo sennò, per la sua stessa natura, produrrebbe una contraddizione. Se il presente è un attimo immobile, qualcosa di non destinato a scorrere, perché altrimenti non sarebbe più presente, esso non appartiene al tempo, quanto piuttosto all’eternità. Agostino è certamente il prossimo protagonista della storia e secondo me deve essere connesso a questa intuizione. Agostino si accorge che non è semplice parlare di tempo, che esso sembra piuttosto un’intuizione interna non comunicabile. Tuttavia questo fatto non gli impedisce di esprimere una serie di riflessioni sul tema del tempo. Agostino arriva a sostenere che il tempo sarebbe un’illusione attraverso delle argomentazioni che portano continuamente alla conclusione secondo la quale il presente contraddice il tempo. Se pensiamo il tempo come un insieme di presenti, presenti passati e presenti futuri, essi per natura, non essendo elementi che mutano l’uno nell’altro, non permettono di spiegare il divenire delle cose; se il tempo è fatto di soli presenti, esso non è perché non diviene. Il tempo è composto da tre dimensioni: passato, presente e futuro; se il passato è ciò che non è più e il futuro è ciò che non è ancora, l’unica dimensione del tempo che è, è il presente. Da ciò si potrebbe dedurre almeno la fuoriuscita dal tempo del presente, il quale dovrebbe essere piuttosto riferito all’eternità, all’eterno essere.
Eternità e divenire hanno continuato ad essere temi centrali nella filosofia, tuttavia non ci sono stati, secondo me, ulteriori progressi sul tema, sino all’Etica di Spinoza. Spinoza scrive pochissimo sul tempo, ma l’unica cosa che dice su di esso si presenta come una folgorante novità: il tempo è la durata degli enti. Il discorso di Spinoza è molto semplice, ma le sue conseguenze sono sorprendenti. L’uomo come tutti gli enti dell’universo non è altro che un modo della Sostanza, un ente finito in un universo infinito, perciò in quanto tale è determinato ad esistere da altre cause estranee a lui ed antecedenti. Ogni cosa finita quindi ha un’esistenza determinata nel tempo e perciò ha una durata. Non vivremo per sempre, almeno come corpi. Questo ci dice che il tempo è un elemento intrinseco, che fa parte dell’essenza degli enti in quanto gli enti sono essenzialmente finiti. Oltretutto, a voler spingersi un po’ oltre, si potrebbe dire che questo discorso porta a questa conseguenza: non c’è un solo tempo, ma ogni cosa ha la sua durata. L’uscita del presente dal tempo ha un effetto curioso: solo nel presente si trova una dimensione collettiva, solo nel presente possiamo dire che noi tutti svolgiamo cose diverse allo stesso tempo: si pone quindi il problema della simultaneità. In quanto ogni cosa è nell’intelletto divino, ed esso stesso è eterno, secondo Spinoza, ogni cosa è eterna, ma l’eternità riguarda non tanto il corpo quanto piuttosto l’idea di un corpo. La mente umana è un modo finito tanto quanto il corpo umano, ma nella proposizione XXIII Spinoza afferma che col distruggersi del corpo rimane ancora qualcosa della mente, la sua idea del corpo. Una cosa è concepire gli enti sub specie durationis, come semplici modi della Sostanza, un’altra è concepirli sub specie aeternitatis, come natura naturante, in quanto proprietà della Sostanza. Per esempio, dice Spinoza, l’acqua sub specie durationis è finita e corruttibile, ma non sarebbe vero questo per l’acqua concepita sub specie aeternitatis: nel primo caso si parla di natura naturata, cioè del mero modo, della natura come singolarità; nel secondo caso si parla di natura naturans, quindi natura concepita come attributo della Sostanza, nel caso dell’acqua come estensione.
Anche se è vero che gli enti sono finiti e il tempo sembra intrinseco ad essi, è altrettanto vero che il tempo non può essere derivato da nessuna intuizione. Facciamo sempre esperienze nel tempo e non del tempo: infatti se non ci ricordassimo degli istanti precedenti e del nostro passato non potremmo né parlare di tempo né tanto meno parlare di mutamenti degli enti. Sono questi fatti che devono aver prodotto una riflessione in Kant tale da averlo portato a compiere il successivo passo decisivo nel progresso della filosofia sul concetto di tempo. Kant in un certo senso ha detto che il tempo non è fuori di noi, ma in noi. Il tempo è per Kant una delle condizioni a priori della sensibilità, l’altra è lo spazio; mentre la seconda si occupa della disposizione delle cose percepite secondo il luogo, la prima ha la funzione di ordinare gli stati interni. È un fatto che se non avessimo una memoria non potremmo parlare di passato, ma se non potessimo parlare di passato non potremmo nemmeno concepire gli eventi in successione. Il tempo come condizione a priori della sensibilità ha proprio questa funzione di disporre tutto in successione e di permettere di poter rappresentarci la simultaneità. Il tempo non è una determinazione oggettiva, ma una condizione soggettiva; anche se esso non ha di per sé una forma, il tempo viene normalmente rappresentato come una linea retta.
Fino ad ora ho parlato del tema del divenire, del tempo che scorre e non del presente, perché credo che, almeno fino a Kant, non ci siano stati grossi progressi sul tema in filosofia. In Kant certo il presente gioca un ruolo importare come quella dimensione in cui egli scopre la libertà, ma questo sarebbe forse più un discorso sulla natura della libertà che sulla natura del tempo. Il filosofo che io ritengo abbia apportato delle considerazioni nuove sul tema del presente in realtà è Kierkegaard, soprattutto per quel che riguarda le sue riflessioni sul tema dell’istante. Esiste una specie di istante falso per Kierkegaard che è quello dell’esteta, ovvero l’istante a cui noi normalmente siamo abituati. L’esteta cerca il piacere dell’attimo, tuttavia egli vive un’esistenza senza senso come un insieme di puntini che non portano da nessuna parte. Questo istante fugge come tutti gli istanti del tempo. Vi è ciononostante un altro istante, un punto dove eternità e divenire devono incontrarsi. Il religioso, l’uomo di fede, scopre questo secondo istante, questo istante vero che è trascendente. Egli sa che solo in questo istante può avvenire il suo incontro con Dio. Mentre Agostino in un certo senso metteva in evidenza una opposizione tra il presente e il tempo, Kierkegaard qui aggiunge che il presente si oppone anche alla storia.
c) IL TEMPO NELLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA TRA CONTINENTALI E ANALITICI
Normalmente rappresentiamo il tempo come un insieme di istanti che si susseguono uno dopo l’altro tracciando una linea che va dal passato verso il futuro; quando facciamo questo disponiamo gli istanti in sequenza e li colleghiamo con una retta. Si pensa anche che il tempo sia unico per tutti e del tutto omogeneo, quindi che il tempo sia quasi come un oceano e che noi siamo i pesci che nuotano dentro. Questa concezione del tempo descrive il tempo in termini spaziali e geometrici: la mera successione fa pensare gli istanti come punti di una retta; l’omogeneità del tempo induce a pensarlo come una dimensione dello spazio. Il tempo però non funziona in questo modo. Per la nostra coscienza passato, presente e futuro si accavallano continuamente senza mai dare l’impressione di una linea retta, semplicemente perché impressioni, ricordi e aspettative non si ordinano mai in una sequenza che va dal passato al futuro, ma può accadere che mentre percepiamo qualcosa adesso noi ricordiamo qualcosa d’altro e inoltre ci forniamo delle aspettative su qualcosa di futuro. Verso la fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento la più grande rivoluzione in filosofia è stata quella di considerare il tempo in termini non spaziali e nello stesso tempo concepirlo come durata. Questo vale per diversi filosofi protagonisti di questa rivoluzione come William James, Edmund Husserl e Henri Bergson. In particolare Bergson afferma che a noi appaiono i fenomeni in sequenza, quindi ci appare che la nostra esperienza del mondo ci dia il reale come istanti che si susseguono, ma questo si verifica non perché le cose stanno in questo modo nel mondo là fuori, bensì perché noi stessi duriamo. Non deve essere indifferente rispetto a questa trasformazione del pensiero filosofico la teoria della relatività di Einstein. Bergson, ad esempio, si è direttamente confrontato con la teoria di Einstein.
Seguendo la scia degli ultimi autori citati ci si imbatte in un altro importantissimo filosofo sul tema del tempo: Martin Heidegger. Heidegger afferma come gli altri tre autori sopraccitati che noi siamo essenzialmente temporali. In particolare Heidegger nega che il tempo possa essere considerato un qualsivoglia ente, come se fosse un qualcosa o un oggetto come gli altri nel mondo. Piuttosto afferma che tutto ciò che si può dire del tempo riguarda le sue manifestazioni. Gli enti sono modificati nel tempo, ma ciò di cui noi facciamo esperienza non è altro che questo: la temporalità dell’ente.
Il Novecento è un secolo di innovazioni anche su un altro versante: sul concetto di storia, per esempio per quel che riguarda la tradizione ebraica utopico-messianica da Walter Benjamin a Ernst Bloch. Non parlerò di questa tradizione perché il concetto di storia va distinto da quello di tempo e questi progressi riguardano più il primo concetto che il secondo. Mi limito a notare di sfuggita che in alcuni di questi autori, come Ernst Bloch o Martin Buber, compare un’immagine del futuro abbastanza singolare come non essere o meglio come il radicalmente nuovo. L’Utopia è per questi autori quella promessa della felicità nel qui ed ora che trova la possibilità di essere realizzata in momenti propizi della storia; la realizzazione dell’Utopia decreterebbe, tuttavia, la fine di ogni tempo.
Al momento ho parlato solo della tradizione continentale della filosofia nel Novecento; non ho detto nulla invece della tradizione analitica che pure ha certamente dato dei contributi per quel che concerne la riflessione filosofica sul tema del tempo. La filosofia analitica ha cominciato l’analisi del tempo dall’analisi delle espressioni linguistiche sul tempo, cioè dall’analisi dei nostri modi di parlare del tempo. Ellis McTaggard, ad esempio, può essere considerato uno di questi filosofi che hanno contribuito alla riflessione sul tempo partendo dall’analisi del linguaggio, un altro è certamente Ludwig Wittgenstein. McTaggart sostiene che esistono due modi di parlare del tempo: l’A-serie e la B-serie. Secondo l’A-serie il tempo va dal passato verso il futuro, mentre la B-serie concepisce il tempo in termini di relazione come “l’essere prima di” o “l’essere dopo di”. McTaggart era un lettore di Hegel; Hegel nella Fenomenologia dello spirito afferma che se noi prendiamo un foglio, guardiamo dalla finestra, constatiamo che è notte e scriviamo sul foglio che è notte e, se il giorno dopo al risveglio riprendendo lo stesso foglio leggeremo che è notte, essendo giunto il nuovo giorno, potremmo facilmente constatare che quello che era vero ieri non è vero oggi. L’affermazione offerta nell’esempio di Hegel sarebbe del tipo “A-serie”, tale per cui è vera solo in un certo momento presente, ma non sempre; tuttavia se sul foglio avessimo scritto: la notte è preceduta dal giorno, questa proposizione sarebbe del carattere “B-serie” e sarebbe vera comunque in ogni tempo. L'”A-serie” colloca i fenomeni nel tempo secondo proprietà “A”, cioè a seconda del fatto che il fenomeno sia passato, futuro o presente. Nel caso della “B-serie” i fenomeni sono pensati a partire da relazioni “B”, cioè dalle relazioni di successione o di simultaneità. Ad esempio, se dico “martedì viene prima di mercoledì”, sto parlando di “B-serie”. La “B-serie ” è statica, infatti “martedì viene prima di mercoledì” è un’asserzione che sarà sempre vera. La “A-serie”, invece, è mutevole, essa rappresenta il tempo come divenire, perciò quel che dico nell'”A-serie” non è sempre vero. Prendendo la storia come esempio, si può dire che la battaglia di Trafalgar preceda la morte di Hitler o che la rivoluzione francese (1789) segua quella americana (1783). McTaggart sosteneva che il tempo fosse un’illusione proprio perché uno stesso evento poteva essere sia passato che presente, per esempio quello della battaglia di Trafalgar. Perciò affermava l’esistenza di un solo grande presente. Il suo argomento è stato chiaramente criticato, perché un evento non è mai presente e passato allo stesso tempo, ma in due tempi diversi. Dopo McTaggart i filosofi analitici si sono divisi in due correnti: quelli che riducono l’A-serie alla B-serie; quelli che riducono la B-serie all’A-serie. Russell fa parte della prima corrente. Infatti egli sostiene che se un evento è passato, questo significa che ci precede. Dunque se la battaglia di Trafalgar è passata prima di noi, questo significa che come evento viene prima del presente in cui noi siamo.
Le riflessioni di Wittgenstein sul tempo invece si rivolgono direttamente alle nostre espressioni su di esso e principalmente hanno di mira il fatto che noi, con il nostro modo linguistico di esprimere il tempo, spesso confondiamo il tempo con il movimento. Ci poniamo domande assurde su dove vada a finire il passato, diciamo che il futuro è qualcosa che deve ancora “venire”. Tutto questo “andare” del tempo è puramente linguistico, perché, sottolinea Wittgenstein, il tempo non va confuso con il movimento come fossero una cosa sola.
Un altro filosofo analitico centrale nel discorso sul tema del tempo, in particolare sul tempo nella coscienza, è Bertrand Russell. Le considerazioni di Russell non sono di carattere puramente linguistico, perciò devono essere distinte dalle precedenti. Più propriamente esse potrebbero riguardare quella che oggi si chiama “filosofia della percezione“. In particolare è degno di nota il time-lag argument: quando vediamo le stelle nel cielo non vediamo il loro aspetto attuale in quanto esse sono migliaia di anni luce distanti da noi, addirittura vi sono stelle nel cielo che noi vediamo, ma non esistono più. Russell da questo fatto ha pensato che la stessa cosa potesse valere anche per la percezione. Se da quando la luce si riflette sugli oggetti a quando i nostri sensi ricevono certi dati intercorre del tempo, si chiede Russell, come potremmo noi dire che l’immagine che abbiamo di questo oggetto è fedele a come esso ora è? Questo solo argomento sembra mostrare che in fondo ciò che noi percepiamo non sono gli oggetti stessi, ma dei dati sensoriali che formano oggetti dipendenti dalla mente stessa: i cosiddetti sense data. Se è vero quel che afferma Russell c’è una netta differenza o forse un’asimmetria tra il lato oggettivo dell’esperienza e quello soggettivo, data da una frazione temporale di scarto.
L’ultimo protagonista di questa breve storia della filosofia sul concetto di tempo è un filosofo americano, un ontologo precisamente, la figura principale della posizione che verrà denominata quadridimensionalismo: Willard van Orman Quine. Questo filosofo è un altro riferimento per due motivi: il primo è l’introduzione del concetto di parte temporale, il secondo è la sua critica ad Eraclito. Quine sostiene il quadridimensionalismo come posizione ontologica che afferma che negli enti la dimensione temporale non è separabile dalle altre spaziali. Si dirà che ogni ente muta nelle sue parti temporali, il che spiega come qualcosa possa comunque mantenere un’identità nonostante i suoi mutamenti. Quine critica Eraclito perché crede che si sbagli nell’affermare che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume: piuttosto non ci si può bagnare due volte nelle stesse acque. In effetti potrei tranquillamente bagnarmi due volte in giorni diversi nel Tevere, anche se le acque del Tevere nei due giorni sono mutate, giacché si sostiene che c’è una parte temporale Lunedì e una parte temporale Martedì e il passaggio tra queste parti spiega il mutamento. L’idea del quadridimensionalismo si presenta come risposta nell’ontologia all’affermazione di Einstein secondo la quale lo spazio e il tempo non sono divisibili e perciò risulta più corretto parlare di spazio-tempo.
Note
[3] Infatti la ragione che governa tutte le cose di Eraclito in Hegel dovrebbe avere come corrispettivo l’astuzia della ragione.
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