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Il viaggio in Tibet di Ippolito Desideri (7)

Il viaggio in Tibet di Ippolito Desideri (7)

Gen 04

 
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L’infernal dottrina (2)

Il concetto di vacuo, fra l’altro, contribuisce a mettere in discussione l’approccio epistemologico del gesuita. In realtà smonta una delle sue prime interpretazioni analogiche, ovvero quella relativa alla Trinità. Appena entrato in Laddakh, Desideri aveva infatti iniziato a ricercare immagini riconducibili al mondo occidentale. È ben accolto in un ambiente che lo colpisce per la sorprendente apertura: i mercanti musulmani hanno la loro moschea e possono professare liberamente la loro religione. È anche ammirato dalla grande e sentita devozione manifestata da tutta la popolazione; così discute, si confronta, espone la dottrina cristiana e riceve tante lodi insieme e osserva che, in fondo, la sua dottrina è confrontabile con la loro. Così fa il viaggiatore alle prime armi: di fronte ad una realtà diversa dalla sua, la osserva con gli schemi mentali del proprio mondo. Fra il proprio mondo e l’altro mondo c’è una linea immaginaria di confine: basta saltarla a piè pari e l’effetto è sorprendente, la prospettiva cambia. Quella linea vale tutto un nuovo mondo, ma è necessario un atto di violenza mentale per sganciarsi dal giudizio e operare un’altra riflessione.

La difficoltà non sta nell’oggetto (…), ma nello sforzo richiesto di fare violenza a se stessi, alla propria abituale e consolidata sfera di esperienza per oltrepassare i limiti del pensiero concettuale. [63]

Desideri non sorpasserà mai quella linea, ma getterà

un primo ponte per un incontro fra diversi sistemi di pensiero come quello occidentale, sostanzialmente dualistico, e quello orientale, buona parte del quale sostanzialmente non dualistico. Questo incontro appena avviato sul piano della mistica e su quello della scienza è un capitolo ancora aperto a livello della filosofia. [64]

Con questa impostazione cristianocentrica ed interpretazione per via analogica, a Leh Desideri vede qualcosa di simile alla Trinità cristiana nei tre elementi fondamentali del buddhismo: le tre preziosità del Buddha, del Dharma e del Saṅgha, che gli vengono presentate come aspetti diversi di uno stesso concetto. Queste invece, almeno ad un primo livello, esprimono solo il Buddha, il risvegliato, l’illuminato, il suo insegnamento (Dharma) e la comunità di coloro che percorrono il sentiero di elevazione spirituale. Questo passo della speculazione desideriana, è l’unico reso pubblico dopo la sua morte grazie ad una lettera che il pistoiese scrisse ad un suo confratello. Nel 1722 in Lettres édifiantes et curieuses vennero pubblicate alcune epistole originali scritte dai missionari gesuiti dalla varie sedi di missione, fra cui quella del nostro alla Compagnia di Gesù. E l’errore di Desideri sarà divulgato in tutto il mondo per lunghissimo tempo. A Lhasa egli comprese l’errore ma, come sappiamo, il pistoiese non ebbe fortuna fra i suoi contemporanei. Oltre a quella lettera di lui non si lesse nulla per un secolo e mezzo.

Un altro tentativo di comparazione è costituito dall’interpretazione del ciclo delle rinascite che Desideri paragona alla trasmigrazion pitagorica, ovvero alla dottrina della metempsicosi:

Il primario e fondamental errore da cui scaturiscono, o, meglio, in cui si racchiudono tutti gli altri errori che compongono la falsa setta de’ Thibettani, è il pessimo errore della metempsicosi, o sia della trasmigrazion dell’anime. Una tal metempsicosi si vien da essi chiamata un giro imbrogliatissimo e inestricabile e un mar interminabile e senza fondo, e ciò a causa di un’infinità d’ideali e fantastici travagli dai quali se la fingono composta. (…) Primieramente affermano che il mondo e tutto ciò che in esso esiste, i viventi e la loro nascita o corso successivo di trasmigrazione, è stato ab eterno, di modo tale che, cominciando dalla nascita presente di ciascun vivente in particolare e con ordine retrogrado scorrendo per lunga infinita serie dell’altre nascite precedenti, non possa giammai pervenirsi a uno di cui possa verificarsi che fu la prima nascita d’un tal vivente. [65]

È il suo continuo e disponibile tentativo di spiegare e spiegarsi l’origine delle credenze buddhiste. Desideri non riesce a darsi pace, anche la dottrina della reincarnazione non può non prevedere una causa prima non causata. Non hanno dio, ma sono virtuosi. E a lui, uomo del 1700, risulta estremamente difficile pensarlo. Rimanendo sulla sua interpretazione del giro imbrogliatissimo come trasmigrazion pitagorica, possiamo rilevare che anche qui il metodo comparativo sembra non funzionare. Nella visione buddhista non si parla di un’anima o di una monade spirituale che trasmigra da un corpo all’altro, ma di un flusso composto da istanti di coscienza legati tra loro da una relazione causale. I buddhisti usano spesso l’immagine dell’accensione di una candela con il fuoco di un’altra candela. Il fuoco della seconda è in una relazione causale con il fuoco della prima, ma al tempo stesso ne è distinto: si tratta perciò di una relazione di continuità ma non di identità.

Dato che il ciclo personale della rinascita vede il proprio nirvāṇa al termine di un processo di purificazione del kárman, l’universo è retto da una legge morale impersonale, non c’è alcun dio che premia o punisce. Ogni essere può ottenere una nascita positiva astenendosi dalle azioni negative non salutari e coltivando le azioni positive e salutari. Nel buddhismo la dimensione etica è centrale: viene conferita importanza alla coltivazione di atti positivi e meritori, ossia al compiere azioni che porteranno felicità e all’evitare azioni che porteranno dolore.

Vogliono dunque che i peccati e il loro reato a forza di soffrir pene restino poco a poco disfatti; e finiti che siano, finischino altresì i tormenti, siccome finite che siano in una gran fornace le ammassate legna finiscono parimenti le fiamme. [66]

La traduzione del raggiungimento del nirvāṇa è estremamente efficace ma inserisce il concetto di peccato in una cultura che non lo ha mai conosciuto: ecco il paragone con il suo sistema di valori. Ecco il dramma di Desideri: il suo sforzo di comprendere è estremo ma non può che farlo con i suoi pur ricchi (per l’epoca), ma inadeguati, strumenti che ha disposizione.

In questo affascinante percorso di ricostruzione del pensiero desideriano è interessante soffermarci sulla meditazione ed in particolare sullo yoga. Desideri dedica grande attenzione a questa pratica essendo lui un gesuita e per questo testimone esperto degli esercizi spirituali, fondati da Ignazio di Loyola. Si tratta di una serie di tecniche di direzione spirituale volte a guidare il fedele a un pieno contatto con se stesso e con la sua fede. A questo scopo gli esercizi raccomandano il ritiro e il silenzio, lontano dagli affari quotidiani, come modo per favorire un raccoglimento dell’attenzione e un contatto profondo con la propria coscienza.

In Oriente, lo yoga è innanzitutto esercizio e distacco: da un lato prevede di concentrare la volontà e l’attenzione su un unico punto, dall’altro il distaccarsi da ciò che impedisce il raccoglimento purificando la mente dalle passioni che la agitano. Nella tradizione contemplativa buddhista il dominio di sé e l’esercizio costante sono considerati la base della vita spirituale di un monaco.

Desideri ebbe una prima conoscenza di queste tecniche dai testi che studiò e tradusse e ne fu colpito positivamente. Nel terzo libro della Relazione accenna ripetutamente alla tecniche meditative buddhiste:

Non solamente hanno i Thibetani sì fatti trattati e sì belle regole di contemplazione, ma molti ancora tra essi ne praticano l’esercizio. Come già in altro luogo ho riferito, costumano comunemente ne’ loro conventi i Lamà per due mesi dell’anno far quotidiane e frequenti conferenze, prediche e istruzioni ai religiosi e sopra tali materie n’esercitano questi la meditazione. Vanno altri per un mese o due l’anno a ritirarsi in alcuna solitudine o disagiata caverna, e quivi si impiegano in tutto quel tempo nella pace e tranquillità di più sode e più profittevoli contemplazioni. Altri finalmente non per qualche mese o tempo prefisso, ma stabilmente e costantemente rimangono in perfetto ritiro e senz’altro pensiero, senza verun altra occupazione che di sempre più sprofondarsi e sempre più raffinarsi nell’intrapreso esercizio della contemplazione. [67]

L’esercizio contemplativo buddhista è indirizzato alla liberazione dalle cinque afflizioni fondamentali o “veleni” che sono la nescienza, l’avidità, l’avversione, la gelosia e l’orgoglio. E Desideri che cosa fa? Riconosce tali veleni nei vizi capitali:

Finalmente la parte più ripetuta della loro morale è di trattare de’ vizj capitali che sono la sorgente degli altri peccati. Ancorché non gli esprimono se non col numero di cinque, chiamandoli i cinque veleni dell’anima, contuttociò nello spiegarli ne specificano tutti i nostri sette. Tali cinque veleni dell’anima sono appresso di essi; la superbia, l’attacco smoderato e disordinato della volontà delle cose, l’ira, l’invidia e la pigrizia in cui confondono anche l’ignoranza. Della natura, cause effetti e rimedj di ciascun di questi ne parlano molto giustamente e molto uniformemente alla maniera con cui ne parliamo noi altri, o sia nella nostra filosofia morale, o sia ne’ nostri libri ascetici. [68]

Oltre alla purificazione dalle passioni, Desideri espresse un apprezzamento particolare per alcune forme di meditazione che sentì vicine alla devozione per i santi tipica della spiritualità cattolica. Si tratta delle tecniche del guru-yoga, ovvero quel vasto terreno di pratiche diffusissime nella tradizione tibetana, basate sulla visualizzazione e contemplazione dei maestri del passato, eletti a simbolo di virtù e fonte di trasformazione spirituale:

In ordine poi alla più immobile e fissa contemplazione, propria de’ proficienti, ancorché in qualche parte ne trattino più ostensivamente e anche superstiziosamente che con vera sodezza, pur non di meno propongono varie cose non disprezzabili in suo genere; e primieramente come preludj di sì fatte contemplazioni assegnano il mettersi a farle in luoghi ritirati sì, ma chiari e luminosi, il rivoltarsi verso il cielo, l’immaginarsi di rimirar i santi, di scorgerne la chiarezza e la bellezza e di vedersene scoperta davanti agli occhi la gloria e l’immensa loro beatitudine. Indi per materia e punti di sì fatta contemplazione propongono ora di considerar la bellezza della virtù in se stessa e gli ammirabili frutti e beni inestimabili che da essa provengono; ora l’eccitar in sé ardentissime brame di procacciarla con ogni sforza; ora il considerar le virtù de’ santi, esaminarne il numero, ponderarne l’eccellenza e la perfezione; ora eccitare in sé un gradissimo amore verso de’ medesimi e prefiggerseli come unico e degno oggetto de’ propri affetti; ora cercar materia d’estrema confusione in se stesso nel vedersi sì lontano dall’aver in se stesso quelle virtù che ne’ santi ammira; ed ora finalmente risvegliar in se stesso un’ardentissima brama e una generosa risoluzione di volersi a’ medesimi render simile, e anche uguale, con l’attender seriamente all’acquisto dell’istesse virtù. [69]

Il paragone è servito e, sommariamente, calza meglio di altri. C’è però ancora una volta una differenza da notare: l’oggetto finale del contemplare. È sempre quello: dio. Benché cristianesimo e buddhismo ricerchino entrambe una discesa catartica e una tranquillitas animi, nella tradizione cristiana ciò è raggiunto rivolgendosi alla persona divina in un rapporto di amore e fiducioso abbandono. Nel buddhismo invece non c’è dio, perciò la quiete è raggiunta in seguito alla sospensione delle funzioni mentali ordinarie, fino in qualche modo ad annullare la persona:

Alla radice del dolore, infatti è la sete, sete del piacere dei sensi, di esistenza, di annientamento. La sete produce attaccamento, quell’attaccamento psicologico alle cose, alle persone, ai sentimenti, alle idee e soprattutto a sé, che costruisce l’illusione di un io incondizionato e stabile, possessore e fruitore delle cose. [70]

La quiete però non è un fine in sé, tanto nel cristianesimo quanto nel buddhismo. In quest’ultimo viene considerato il fondamento della visione profonda (vipassanā). Una volta calmata la mente e raggiunto uno stato di beatitudine e assenza di concettualizzazioni, lo stato di chiarezza raggiunto (prajñā) viene usato per indagare, ovvero vedere in profondità la vera natura delle cose. E qual è l’origine della vera natura? La vacuità. Laddove nel cristianesimo, cioè in un sistema di credenze altro, è dio.

Vacuo contro dio o, meglio, vacuo parallelo a dio. Infatti pur non ammettendo alcuna causa primaria, i tibetani non possono per questo essere considerati atei, poiché nonostante teoricamente «escludano ogni divinità […] in pratica […] l’ammettono e la riconoscono» [71]. Come commenta Bargiacchi in Le Culture dei missionari

Desideri trovava infatti perfettamente congruenti con la visione cristiana le perfezioni idealizzate e rappresentate dalle divinità tibetane, pur indicative soltanto, ad un esame più profondo, di livelli esistenziali più elevati da raggiungere nel percorso spirituale.

Ma la parte che segue è decisamente la più interessante:

Scopre inoltre che la “vacuità” concepita dal buddhismo esprime la polarità del relativo, sul piano fenomenico, che si contrappone ad un assoluto collocato in una dimensione trascendente, ben al di là dei più terreni concetti di esistenza e non esistenza: una concezione che si distacca così tanto dal relativismo nichilista, quanto dal rozzo e banale sostanzialismo. [72]

Ecco quindi il processo di ascesi spirituale secondo le due prospettive. In entrambe si tende ad orientarsi dall’autoreferenzialità al senso di appartenenza ad un processo che trascende e di cui siamo manifestazione, con il dovere di esserne consapevoli. Desideri ci stava arrivando: in cinque anni di permanenza in Tibet ha saputo colloquiare, farsi ben volere, imparare la lingua, tradurre e comprendere come pochissimi sarebbero oggi in grado di fare. Il suo è stato un viaggio interiore ancorché esteriore. Perché, come sostenne Max Müller, «chi conosce una sola religione non ne conosce alcuna» [73].

Sono le parole del grande tibetologo Tucci a darci la dimensione della prospettiva di Ippolito Desideri:

Il Desideri vuole portare i maestri del Tibet alla luce del Cristianesimo passando egli stesso traverso i misteri della loro dommatica. Ed aveva ragione. Di nessuna religione si dovrebbe parlare restandone al di fuori; anche se non è la tua, non dimenticare che altri vive di essa e delle sue speranze e che non ci si può passare sopra con un’alzata di spalle od un sorriso di spregio. Per tutte le genti, anche per quelle che sembrano più lontane dal vero, la religione è l’invisibile ponte che congiunge la terra al cielo, la faticosa e dogliosa evasione dalla prigionia del tempo alla libertà dell’eterno. Dopo questo che ho detto non vi meravigliate se aggiungo che l’opera di Desideri fu in anticipo sui tempi. [74]

 

Note

[63] BENJAMIN 2010, p. 31.

[64] BARGIACCHI 2009, p. 118.

[65] MITN 1952-56, VI, p. 166.

[66] MITN 1952-56, VI, p. 183.

[67] MITN 1952-56, VI, p. 227.

[68] MITN 1952-56, VI, p. 225.

[69] MITN 1952-56, VI, p. 227.

[70] MAGNO 2009, p. 25.

[71] MITN 1952-56, VI, p. 208.

[72] BARGIACCHI 2009, pp. 115-116.

[73] MÜLLER 1876, p. 14.

[74] TUCCI 1943, p. 215.
 

Bibliografia

BARGIACCHI 2009
Bargiacchi E. G., L’esperienza tibetana di padre Ippolito Desideri, in N. Gasbarro (a cura di), Le culture dei missionari, Bulzoni Editore, Roma 2009, pp. 101-118.

BENJAMIN 2010
Benjamin W., Per la critica della violenza, trad. it. di M. Tomba, Edizioni Alegre, Roma 2010.

MAGNO 2009
Magno E., Introduzione all’estetica indiana, Arte e liberazione del sé, Mimesis Edizioni, Milano 2009.

MITN 1952-56
L. Petech (a cura di), I missionari italiani nel Tibet e nel Nepal, Libreria dello Stato, Roma (vol. II de «Il Nuovo Ramusio» suddiviso in 7 tomi. Raccolta di viaggi, testi e documenti relativi ai rapporti tra l’Europa e l’Oriente, a cura dell’IsMEO).

MÜLLER 1876
Müller M., Einleitung in die vergleichende Religionwisseschaft, Treubner, Strassburg 1874.

TUCCI 1943
Tucci G., Le missioni cattoliche e il Tibet, in C. Costantini, P. D’Elia e altri (a cura di), Le missioni cattoliche e la cultura dell’Oriente, IsMEO, Roma 1943, pp. 225-229.
 
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