Dalla Pace di Whitehead all’Armonia di Ariosto
Dalla Pace di Whitehead all’Armonia di Ariosto
Mar 15
Quello che mi propongo di fare in questo contributo è un esercizio di scrittura con testo a fronte. Da una parte vi sarà il testo del filosofo Alfred North Whitehead Pace [1]; un breve e intenso saggio che conclude il suo volume Avventure di idee. A fronte vi sarà il poema di Ludovico Ariosto Orlando furioso [2].
Due testi, dunque, non solo posti a secoli di distanza, ma anche fra loro disomogenei, sia nella qualità che nella quantità, che però a mio parere riverberano l’uno sull’altro un sorprendente gioco di significazione attraverso il mutuo scambio fra il concetto filosofico di Pace e la pratica poetica dell’Armonia [3]. Ovviamente, come la parola esercizio sta ad indicare, si tratta qui di una prima messa alla prova dell’ipotizzata reciproca frequentazione, una prima verifica della sua plausibilità che potrebbe confortare ulteriori, più ampi e approfonditi sviluppi. Più precisamente si potrebbe dire che il lavoro di sonda consiste nel lasciare agire l’effetto di trascinamento che il testo del filosofo induce, quasi naturalmente, verso il commento del poema ariostesco e, soprattutto, verso il suo cuore o fuoco ancora così imprendibile e complesso, cioè il concetto di Armonia, il quale a sua volta, nella sua azione poetica, riflette la propria convincente esemplarità sulla difficile impresa tentata dalla parola filosofica che sin dall’inizio dichiara, pur essa, la sua inadeguatezza a nominare il sentimento di cui si occupa: «La Pace di cui si parla non ha nulla a che fare col concetto negativo di anestesia. È un sentimento positivo che corona la “vita” e il “movimento” dell’anima. È difficile definirlo, è difficile parlarne» (p. 362).
1. IL MOVIMENTO
Prima caratteristica della Pace di Whitehead è di essere un sentimento dinamico che favorisce un sentire più ampio, una dilatazione del sentire al di là dei propri propositi e della propria persona. «In essa» scrive Whitehead «si esprimono i genuini interessi motori dello spirito, e non il gioco superficiale delle idee discorsive. La Pace è aiutata da tale ampiezza di superficie e nel contempo la promuove. Infatti è in gran parte per questa ragione che la Pace è così essenziale per la civiltà. È la barriera contro la ristrettezza. Uno dei suoi frutti è quella passione di cui Hume negava l’esistenza: l’amore dell’umanità in quanto tale» (p. 363).
È risaputo che, sin dalla sua apparizione (1516), il poema di Ariosto oltre alle molte lodi ricevette anche molte critiche e queste erano soprattutto indirizzate alla vastità del poema e alla sua interna dinamicità, al suo cambiare continuamente personaggi, situazioni, argomenti. Si può ben dire in proposito che si assiste ad una continua dilatazione, ad un irrequieto promuovere l’ampiezza di superficie che rompe qualsiasi barriera di ristrettezza, di tempo, di luogo, di azione. Tant’è che al poeta per il suo grande affresco della cavalleria come teatro della vita e delle passioni umane non basta il mondo conosciuto: ci vuole il Paradiso terrestre, ci vuole il mondo della Luna, ci vogliono isole sconosciute. Quella del Furioso è una dimensione aperta nell’effetto strutturale di onda avvolgente, di mondo in movimento, di ritmo inesauribile che sembra riflettere in sé il ritmo di una realtà contraddittoria, aperta, incontrollabile, che sfugge a ogni finale fissazione e catalogazione. L’opera compie l’impossibile impresa di illuminare in piena luce quella totalità perpetuamente discordante, frantumata, scissa e moltiplicata. Whitehead a proposito di questa devastante realtà parla di “turbolenza distruttiva” (p. 362) che solo la Pace (cui a fronte potrebbe porsi la traduzione poetica: la piena luce dell’Armonia) è in grado di placare, non di eliminare, ché in questo caso si tratterebbe di mera anestesia e non di positiva padronanza del mondo della vita. Ma in che senso il movimento vince la ristrettezza, e, infine, cosa è questa ristrettezza? Whitehead ce la dice così: «Il suo primo effetto [della Pace] è la rimozione dello sforzo del sentimento acquisito sorgente dalla preoccupazione che l’anima ha per se stessa. La Pace porta così con sé un superamento della personalità» (p. 362). Il movimento, allora, è lo strumento di questo andare oltre la ristrettezza del sé, è l’amore della varietà che tramuta l’identità dell’essere da solida sfera a nucleo di esplosiva espansione sino a, scrive il filosofo, «una presa di contatto con l’infinito, un’esigenza di andar oltre ogni confine» (p. 362). E la varietà, il senso della lievitazione, si impianta subito nel Furioso, nel suo famoso incipit:
Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori,
Le cortesie, le audaci imprese io canto (I, 1, 1-2).
Lì dove la materia si accumula, si espande, esplode; lì dove l’io canto viene posposto significativamente alla fine del distico come colui che salvaguarda la complessità del tutto, che tutela contro ogni schema ed ogni moralismo le fonti dell’energia vitale per nulla inibite o addomesticate, e nello stesso tempo intende esserne l’intelligenza cantandole, trasfigurandole. Essere lì dove i personaggi si susseguono e nel loro continuo apparire e scomparire dimostrano l’inconsistenza della personalità, dell’io solido e statico, dell’io come permanenza, come protagonismo, tant’è che nei secoli il Furioso è stato indicato, volta a volta, come il poema di Ruggiero, o quello di Orlando, o quello di Rinaldo, di Angelica, di Rodomonte; ognuno con le sue buone ragioni, ma tutte incapaci di contrastare la loro evanescenza all’interno della “distruttiva turbolenza” del poema, quella che porta all’oltre-soggetto.
2. IL SUPERAMENTO DEL SOGGETTO
L’intuito metafisico del filosofo lo porta oltre il soggetto, ovvero lo porta a considerare che non si è soggetto, ma si diventa soggetto in un processo senza termine: in questo “aver da essere” Achille non raggiunge mai la tartaruga. Andare per questa via della Pace è andare oltre il perseguimento e raggiungimento del bello statico voluto dal proprio inquieto egoismo, su questa via la bellezza è oltre, è quella dell’opera che si realizza nel mondo, dell’armonia che approccia l’oggetto all’infinito senza mai raggiungerlo. La Pace così considerata non è questione di tranquillità, non è un problema psicologico, ma cosmico.
Abbiamo in mente definizioni quali “poeta dal cor sereno” o “Ludovico della tranquillità”, che mentre tendono a definire il risultato “pacificatore” dell’armonia ariostesca distraggono completamente dal senso che si può trarne avendo presente la “pagina a fronte” scritta dal filosofo. Quasi a dire che c’è sì una realtà di cui il poeta ha acuta coscienza:
in questa assai più oscura che serena
vita mortal tutta d’invidia piena (VI I 7-8)
e proprio per questo, sapendo della sua irredimibile tragicità, egli crea un sopramondo poetico, una ricostruzione fantastica, dove la realtà è sì riflessa, ma deformata, smussata nelle sue asprezze, depotenziata nei suoi contrasti. Realtà dunque alleggerita, resa in termini musicali, una facile pittura di descrizione, senza sforzo, come se fosse già in atto una coscienza disneyana ante litteram.
Whitehead suggerisce decisamente un’altra partenza, proviamo a guardare, ci dice, non alla deformazione fantastica (come se per sfuggire ai pericoli fosse sufficiente rappresentarli), ma alla trasformazione del sentimento del tragico in quello dell’avventura. Del resto il titolo del suo testo non per nulla è Avventure delle idee e non per nulla il poema ariostesco inizia con i cavalieri alla ventura nella selva, con la loro inquietudine, la loro instabilità, figure della follia del mondo così bene descritta da Erasmo da Rotterdam nel suo Elogio della follia. Dunque, per dirla con uno dei concetti preferiti dal filosofo Carlo Sini [4], è l’esperienza della soglia quella che ci si presenta: la soglia per cui il mondo non è una cosa, ma un accadere; soglia così bene esemplata dall’esperienza della parola poetica che si sporge al di là, verso la cosa stessa, che è sempre ritrovata nella parola-selva, ma che proprio perciò è sempre persa, ed è nella coscienza artistica di questo irresolubile paradosso che si trasforma la tragedia dell’impossibilità e della distruzione nella bellezza dell’avventura.
L’equivoco fra deformazione e trasformazione è persistente: nel 2016, per il cinquecentenario della prima edizione del poema, la mostra celebrativa allestita a Ferrara a Palazzo dei diamanti aveva come sottotitolo “Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi”, che comunemente si legge: “Cosa vedeva Ariosto quando sognava“. Credo che sarebbe stato più corretto, o, perlomeno, meno foriero di equivoci “deformanti” che quel “quando” fosse “quando guardava” con occhi ben aperti, occhi intelligenti sulla realtà e non offuscati da personali psicologismi. Ariosto era tutt’altro che un sognatore, anche se, purtroppo, la sua fama di poeta fantastico iniziò ben presto, per la penna dei suoi primi biografi che si compiacevano di descrivere le sue “distrazioni”, come quella raccolta da Giosué Carducci che riferisce che il poeta «discorrendo senza badarci si mangiò l’uccellaccio che gli amici gli fecero portare al posto della pernice» [5]. Riccardo Bacchelli mette la parola definitiva su tutto ciò quando scrive: «Insomma, poeta grande, si disse, ma cortigiano, o, anche, sublime distratto: l’Ariosto! che è sincero fino alla crudezza, e che è l’uomo, l’artista, il poeta, più attento che dar si possa; attento e scrutativo della “verità effettuale della cosa”» [6].
In tutta la prima parte del poema il continuo apparire e scomparire di Angelica annuncia e ripropone il movimento della Pace: «l’inchiesta esemplarmente segnata da Angelica si situa sin dall’inizio nei termini di una condizione fallimentare, per sostituzione o dirottamento o differimento» [7], intrecciandosi, tra l’altro, con l’oggetto del desiderio per eccellenza, quello che si vorrebbe definitivamente possedere, quello che più evidenzia la spinta egoistica che sta alla base stessa dell’amore della bellezza a cui i cavalieri tanto anelano, magari mascherandolo, appunto, da “cavalleria”. In questo senso la poesia di Ariosto non fa sconti ideologici: l’abito della Pace ch’egli indossa nella sua figura di poeta non gli permette di schematizzare o semplificare. A differenza del cavaliere di Matteo Maria Boiardo, (l’autore dell’Orlando Innamorato a cui Ariosto si è collegato per comporre il Furioso), «che è in genere l’uomo quale vorrebbe essere o perlomeno far credere agli altri di essere; il cavaliere di Ariosto è invece l’uomo quale egli è, con tutte le qualità, le possibilità, le caratteristiche positive e negative che lo fanno appunto uomo, nei suoi limiti, nelle sue virtù e nei suoi difetti» [8]. E sin dal primo canto del poema il poeta mette ben in chiaro questo: quando, ad esempio, Ferraù sulle rive del fiume è stremato dalla battaglia è mosso sì dalla cortesia cavalleresca ad intervenire allorché gli giunge l’invocazione di soccorso da parte di Angelica “la bella”, ma subito appare, introdotto con un ironico “forse”, il vero motivo, individuale e maschio, che lo spinge all’azione:
E perché era cortese, e n’avea forse
Non men dei dui cugini il petto caldo,
L’aiuto che potea tutto le porse (I, 16, i due cugini sono Rinaldo e Orlando).
Motivi tutt’altro che disinteressati sono anche quelli che accampa Rinaldo per smettere il duello con Ferraù (I, 19) e quelli di Sacripante, che corona con il più classico detto autogiustificativo la “cavalleresca” caccia ad Angelica:
So ben ch’a donna non si può far cosa
Che più soave e più piacevol sia,
Ancor che se ne mostri disdegnosa,
E talor mesta e flebil se ne stia (I, 58).
Dunque spinta egoistica del maschio che deve essere redenta, riconciliata con l’altro/a dal senso superiore della Pace, e cioè dell’andare oltre la propria personalità, un tema che, in relazione al maschile desiderio di possesso, si svilupperà nell’inchiesta di Rinaldo che si concluderà nel rifiuto del paladino di bere dal calice che dovrebbe fornirgli la prova “probante” della fedeltà o meno dell’amata. In gergo epistemologico si direbbe che Rinaldo sia sfuggito all’illusione dell’experimentum crucis, quello che dovrebbe cancellare ogni dubbio e dirimere finalmente e definitivamente l’oggettiva verità del fenomeno. Fissazione della verità che tanto è congeniale e va a braccetto con la volontà di possesso.
3. IL CAMPO DELL’ATTENZIONE
Scrive Whitehead: «La Pace… si risolve in un più ampio movimento dell’interesse cosciente. Esso allarga il campo dell’attenzione. Così la Pace è autocontrollo nella sua massima estensione, estensione dove l’ “io” è andato perduto e l’interesse si è trasferito verso delle coordinazioni più ampie che non sia la personalità» (p. 363). Spogliandosi dell’abito egoistico il campo dell’attenzione si allarga a dismisura. Una caratteristica, questa, di cui Ariosto è maestro insuperato, capace di far giocare nella sua armoniosa ottava tutta la verità della descrizione e tutto il realismo dei particolari. I riscontri di come il movimento dell’interesse cosciente della Pace porti a fare il bene della “cosa stessa” nel poema sono innumerevoli, tanto che arduo è vincere l’imbarazzo della scelta. Si veda ad esempio la descrizione dell’assalto di due cani furiosi al quale è paragonato il duello fra Rinaldo e Sacripante;
Come soglion talor duo can mordenti,
o per invidia o per altro odio mossi,
avicinarsi digrignando i denti,
con occhi bieci e più che bracia rossi;
indi a’ morsi venir, di rabbia ardenti,
con aspri ringhi e ribuffati dossi:
così alle spade e dai gridi e da l’onte
venne il Circasso e quel di Chiaramonte (II, 5).
Oppure chi potrà più dimenticare quell’ora canicolare descritta nel C. VIII, 20, durante la quale Ruggiero attraversa un paese torrido di sole, il cui silenzio è rotto soltanto dal noioso stridore delle cicale? Tace ogni uccello, bolle l’aria e l’eroe cammina alla volta di Logistilla stanco e assetato:
Percuote il sole ardente il vicin colle;
E del calor che si riflette a dietro,
In modo che l’aria e l’arena ne bolle,
Che saria troppo a far liquido il vetro;
Stassi cheto ogni augello all’ombra molle,
Sol la cicala col noioso metro
Fra i densi rami del fronzuto stelo
Le valli, e i monti assorda, il mare, e il cielo.
Le descrizioni di Ariosto risultano talmente ecfrastiche da gareggiare in forza espressiva con l’immagine della cosa stessa e paiono così anticipare di secoli la lezione impartita dall’inconscio tecnologico della fotografia in merito ai dettagli ritenuti insignificanti, sui quali solitamente si sorvola.
4. IL SOGNO DELLA GIOVINEZZA E L’INTELLIGENZA DELLA TRAGEDIA
Questo è un punto chiave che merita una adeguata citazione del filosofo: «Il significato della Pace si intende più chiaramente considerandola nella sua relazione coi tragici esiti che sono essenziali alla natura delle cose. La Pace è l’intelligenza della tragedia e nello stesso tempo la sua conservazione… I tipi più alti [di oggetti], che implicano la vita animale ed il predominio d’una personalità essenzialmente mentale, preservano il loro aroma attraverso la rapida successione di fasi, dalla nascita, alla pienezza, alla morte. Non appena viene raggiunto un alto grado di consapevolezza la gioia dell’esistenza s’intreccia con la sofferenza, la frustrazione, la perdita, la tragedia. Fra il trapassare di tanta bellezza, tanto eroismo, tanto coraggio, la Pace è allora l’intuizione della Permanenza. Mantiene viva la sensibilità verso la tragedia; ed essa vede la tragedia come un fattore di vita che persuade il mondo a puntare verso la bellezza che sta oltre l’appassito livello del fatto che ci circonda. Ogni tragedia è il dischiudersi d’un ideale; ciò che poteva essere e non è stato, ciò che può essere. La tragedia non è stata invano. Questo potere di sopravvivere come forza motrice, appellandosi alle riserve della Bellezza, marca la differenza fra il male tragico e il male grossolano» (pp. 363-364).
L’epoca attraversata dalla vita di Ludovico Ariosto fu un’epoca di grande transizione; le antiche certezze d’essere giunti ad un livello alto di civiltà e di stabilità vacillarono. Il vecchio mondo con l’impresa di Colombo s’era improvvisamente ampliato e il modello di vita dei popoli così scoperti in cui gli uomini vivevano in semplicità e in un confidente rapporto con la natura mise in luce il malaise della cultura europea ormai turbata da tellurici sommovimenti [9]: solide signorie, come il Ducato di Milano di Ludovico il Moro, crollavano come un castello di carte e la tragedia s’avvicinava sempre più anche al dominio Estense, alla Ferrara del poeta, assediata e minacciata da Venezia e dai Papi, mentre si scatenavano crudeli ambizioni di potere e scorrerie di rapina, quali quelle di Cesare Borgia, il Valentino, figlio del papa Alessandro VI. Le armi da fuoco avevano spazzato via i residui della antica cavalleria e dal nord giungeva il monito di un monaco agostiniano che nel breve volgere di un decennio avrebbe sconvolto l’Europa intera mettendo fine alla scontata e più che millenaria autorità del Vescovo di Roma, ora presentato come l’anticristo, sovrano d’una Roma (con regnante Giovanni De Medici “amico” di Ariosto, papa Leone X) divenuta capitale del mercimonio e «carnificina de Christiani» [10], “città eterna” che pochi decenni dopo (regnante Giulio De Medici, papa Clemente VII, cugino di Giovanni) fu devastata e umiliata dal famoso Sacco del 1527 ad opera dei riformati lanzichenecchi. L’io, l’uomo, e il corpus politicum fu messo tutto a rischio nella molteplice e allargata crisi iniziata nel basso rinascimento e ora divenuta vieppiù cruenta per la ferocia materiale e intellettuale delle guerre di religione.
Dunque proprio nell’arco dei decenni in cui il Furioso fu elaborato e rielaborato l’espandersi inarrestabile dell’instabilità politica e la crisi dei valori tradizionali, oltre alle instabili vicissitudini private della biografia del poeta, furono sicuramente foriere del senso della tragedia a cui Ariosto prestò al massimo grado la propria intelligenza artistica, fatto che si può leggere anche fra le righe di Dorigatti, il curatore della prima edizione del 1516 del poema (ed. Olski 2006), che ebbe a notare a proposito del suo metodo compositivo: «Il testo del primo Furioso così come ci è stato tramandato dalla stampa… si può considerare un vasto campo archeologico, frutto di una serie di stratificazioni accumulatesi nel corso del tempo, vestigia di interventi autoriali in forma di correzioni, aggiunte, inserti espunzioni, rifacimenti o ampliamenti su larga scala… Interventi che rispondono all’intento di sincronizzare l’opera con la realtà circostante e il momento storico, che è l’aspetto maggiormente caratterizzante della prima redazione» [11].
Senso della tragedia a cui richiama anche Eugenio Garin che avverte a proposito delle edulcorate letture d’un trionfante Rinascimento che: «Non si è capito che la poesia può fiorire più alta fra le rovine… Non si è compreso che proprio una profonda tensione, il senso di una tragedia incombente, sono le radici profonde che segnano in modo inconfondibile artisti, pensatori, poeti: che il disperato appello alla ‘renovatio’ è l’altra faccia di un senso di morte, e che la ricerca di una misura suprema non è che il tentativo di arginare la follia» [12].
Che proprio questa tragedia, non rimossa, non edulcorata, ma guardata in faccia, sia la via, o il reale motore che conduce alla bellezza dell’opera poetica, questo è il miracolo del Furioso, che in tale maniera realizza l’Armonia delle armonie cui punta la Pace del filosofo.
La tragedia si trasforma in Avventura, in una Permanenza posta a un livello più alto rispetto al semplice accadere della singola occasione: è la permanenza della distruzione, quella che scorge in essa il veicolo per un’armonia più alta, per il nuovo che deve venire. È quest’ultimo il «sogno della giovinezza», scrive il filosofo, quella giovinezza che è «la vita non ancora toccata dalla tragedia» e che quindi è «particolarmente soggetta alla visione di quella Pace che è l’armonia delle attività dell’anima che giacciono al di là di ogni soddisfazione personale» (p. 366). Per inciso, quest’anno, il 2018, ricorre il cinquantesimo del Sessantotto, e chi, allora giovane, ha vissuto con la passione dell’anima i suoi ideali e ne ha percorso le disillusioni e le tragedie che sono seguite, illustra, con la sua immagine di vita sulla soglia del paradosso, la Pace del filosofo, questo rapporto così difficile da tradurre in parole, fra sogno e tragedia. Sogno che quindi persiste e insiste nel suo permanente impermanere, in ogni progetto dell’uomo che annega nella contingenza, nel transito, e che conduce alla comprensione della totale identità fra verità ed errore. La verità, così come la vita, non è, ma diviene, non ha punto di arrivo e come tale, in questo respiro cosmico, l’esperienza della verità del mondo consiste nel transitare delle sue figure, nella natura cronica di ogni suo configurarsi, ma anche nel suo rinnovellarsi.
«Pro bono malum», fa mettere ad epigrafe del suo poema Ariosto, motto a cui si sono date, nei secoli, diverse interpretazioni. Ci pare, comunque, che chi vede in esso una semplice allusione alla ingratitudine del cardinale Ippolito d’Este verso il poeta che ne esaltava la casata, dia una lettura dello stesso troppo angusta, legata come è ad una personale contingenza che male si accorda con il respiro cosmico del poema: forse si può azzardare che alla base del motto stia invece una coscienza più profonda della frale tragicità della vita legata al suo transitare ed esso sia più una constatazione di fatto che una dichiarazione di arreso pessimismo.
Il cerchio della esperienza non si chiude mai, il bene si frange e si apre sempre l’infinita via della spirale.
5. IL VIAGGIO DI RUGGIERO
Ruggiero è rapito in volo dall’Ippogrifo che lo porta verso l’estremo ponente sull’isola di Alcina, dove rimane abbagliato dalle apparenze della maga e irretito (caduto in errore) dalla sua falsa e ammaliante bellezza. In suo aiuto accorre la maga Melissa che lo rende cosciente dell’inganno e il cavaliere, dopo aver ricevuto adeguati consigli morali da parte di Logistilla, in groppa all’Ippogrifo si pone sul sentiero del sole verso il compimento di un perfetto circolo:
Finir tutto il cominciato tondo
Per aver, come il sol, girato il mondo (X.70).
La metafora è evidente: si tratta di chiudere il “solare” cerchio educativo della scapestrata giovinezza, cosicché Ruggiero, pentitosi e ripudiate le amorose lusinghe, possa tornare in Europa ad assolvere alle sue responsabilità di uomo chiamato a sposare Bradamante e con lei a fondare la gloriosa dinastia degli Este. Il fatto di portare a compimento il viaggio guidando l’Ippogrifo, mentre nella prima metà era stato impotente passeggero alla sua mercé, ribadisce il senso della parabola educativa. Del resto nelle platoniche allegorie, educazione è una circolazione: l’anima cade fuori dalla perfezione nella materiale degradazione e poi tramite l’educazione è restaurata nella nuova spirituale perfezione. In termini platonici, circolazione non è solo la forma dell’educazione, è anche la spirituale condizione per la quale gli uomini, dalla loro condizione di caduta lineare del corpo, aspirano [13].
Sfortunatamente, come anche i più strenui difensori delle didattiche intenzioni di Ariosto hanno riconosciuto, questa elaborata narrativa dell’educazione, sorprendentemente densa di immagini, figure e testi di ascesi, culmina non con un umanistico trionfo sopra la mostruosità, o con l’accesso all’immagine di naturale perfezione identitaria del sé, ma con un ritorno a un non frenato desiderio e a un appassionato auto-inganno. Visto che Ruggiero, appena tornato in Europa e mentre il virtuoso cerchio si sta chiudendo, tenta di violentare la donna (Angelica) che ha appena salvato dalle mostruose fauci dell’Orca marina. E lo fa in piena conoscenza delle sue obbligazioni verso Bradamante, atteso che di fatto è la memoria del suo attaccamento a lei che prima media il suo proposito di salvare Angelica. La virtù asseconda il vizio.
E come ne begli occhi gli occhi affisse,
De la sua Bradamante gli sovvenne;
Pietade e amore a un tempo lo trafisse,
E di piangere a pena si ritenne (X, 97).
Il cerchio non si chiude, Ruggiero di nuovo dimentica la sua vera amata, la sua intenzione di ritornare in Spagna al punto dal quale era originariamente partito, e tutte le altre obbligazioni in cui Melissa l’aveva istruito. Ruggiero diviene egli stesso, per il momento, la vera immagine della bestia, un cavallo sfrenato che vaga di nuovo attraverso una selva di cieche e mondane illusioni.
Qual raggion fia che ‘l buon Ruggier raffrene
Sì che non voglia ora pigliar diletto
D’Angelica gentil che nuda tiene
Nel solitario e commodo boschetto.
Di Bradamante più non gli soviene
Che tanto aver solea fissa nel petto
E se gli sovien pur come prima
Pazzo è se questa ancor non pressa e stima… (XI, 2)
Non c’è punto d’arrivo che tenga, sponda a cui definitivamente approdare. Nemmeno Ruggiero, il cavaliere che indossa le armi di Ettore troiano, il cui coraggio, la cui lealtà è indiscussa, colui che è votato a fondare la genealogia degli Este, nemmeno lui si impianta in una inossidabile identità. Scrive il filosofo: «Nel cuore della natura delle cose c’è sempre il sogno della giovinezza e il raccolto della tragedia» (p. 376).
Il poema è pieno di questo errare nell’errore; è pieno di veloci transiti, di subitanee digressioni, di fallimenti. Nella sua versione definitiva (apparsa nel 1532) persino il finale viene rimesso in discussione con una lunga digressione sul matrimonio contrastato fra Ruggiero e Bradamante ingarbugliatisi con le vicende dell’imperatore d’Oriente e del figlio Leone. Una aggiunta generalmente criticata come inutile appesantimento di un finale scontato, ma che, al di là di giudizi strettamente estetici – che se isolati in un’opera come il Furioso lasciano il tempo che trovano – sono anche sintomo di una coscienza del non concluso, della narrazione che non può finire, coscienza che sarà esaltata in tanta letteratura dell’appena trascorso Novecento e che trova nella Cognizione del dolore o in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda due delle sue più esemplari espressioni. Che poi il punto finale venga finalmente posto con l’ottava che illustra la tragica morte di Rodomonte, figura ante litteram di Don Giovanni, e con il retro pensiero che il trionfo di Ruggiero sul feroce pagano «alma sdegnosa / che fu sì altera al mondo e sì orgogliosa» non sia che il preludio della sua propria morte dovuta al ferro traditore dei maganzesi, la dice lunga sulla irrisolta turbolenza che permea l’opera nel suo complesso
La penna del poeta sa guidare tutto ciò sul cammino della bellezza nella coscienza che la Pace non è il risanamento della ferita, ma è la sua intelligenza, il suo accoglimento quale elemento costitutivo dell’Avventura dell’Universo che «comincia con il sogno e miete Bellezza tragica. È questo il segreto dell’Unione della Gioia con la Pace: che il sofferente raggiunga il proprio fine in una Armonia di Armonie».
6. NEL SEGNO DELL’ALTERITÀ
Con le ultime righe sopra riportate il filosofo si ricollega alla prima pagina del suo saggio, dove elenca le quattro qualità «il cui realizzarsi congiunto nella vita sociale costituisce la civiltà» (p. 361). Ed esse sono: Verità, Bellezza, Avventura ed Arte. Tralasciamo la loro spiegazione, piuttosto complessa, su cui il filosofo s’è dilungato nelle pagine precedenti del saggio sulla Pace, per concentrarci invece sul prosieguo del discorso dove Whitehead avverte che «tuttavia manca ancora qualcosa» alla somma di queste qualità e questo qualcosa «[a]bitualmente… si nasconde al margine della coscienza come forza operante»… «Senza di essa il perseguimento della Verità, della Bellezza, dell’Avventura e dell’Arte può essere spietata, dura, crudele; così come ce ne offre esempio la storia del Rinascimento Italiano cui sembra mancare qualcuna della qualità essenziali della civiltà»… «Siamo alla ricerca della nozione d’un’Armonia delle Armonie, che leghi insieme la altre quattro qualità, così da escludere dalla nostra nozione di civiltà quell’inquieto egoismo, per il quale, di fatto, le altre qualità sono state perseguite».
Non mancò, al margine della coscienza poetica di Ariosto come forza operante del suo poema, la precisa convinzione che alla raffinata civiltà della corte rinascimentale di cui era servitore e funzionario («di poeta cavallar mi feo») o a quella della corte papale mancasse qualcosa, che la magnificenza, la bellezza, la retorica delle lettere, non fossero sufficienti a giustificare la patente di civiltà di cui orgogliosamente s’ammantavano. Non gli sfuggiva la turbolenza distruttiva con cui le arti erano perseguite, al fine della potenza e del prestigio, e la corte romana con i suoi fasti edilizi o quella estense con le sue esagerate ostentazioni del superfluo ne erano prove lampanti. Ariosto non era certo un idealista o un moralista, non era un fustigatore di cattivi costumi, banditore di inviolabili principi, ma coglieva nell’egoismo dei signori ciò che rischiava di piegare l’inevitabile imperfezione della realtà, il suo essere in divenire, a male grossolano, a crudeltà.
Sotto questa angolatura è forse comprensibile anche il silenzio che il poeta tenne, in tutte le versioni del poema, su Nicolò Machiavelli mentre convocò nell’ultimo canto del Furioso, ad accogliere la sua nave poetica che dopo perigliosa navigazione finalmente approdava, tutta l’élite culturale del suo tempo. Il Segretario fiorentino, attraverso una lettera al comune amico Luigi Alamanni datata 17 dicembre 1517, fece palese il suo risentimento: «Io ho letto a questi dì Orlando Furioso dello Ariosto e veramente el poema è bello tutto e in molti luoghi è mirabile. Se si truova costì, raccomandatemi a lui e ditegli che io mi dolgo solo che avendo ricordato tanti poeti che m’abbi lasciato indreto come un cazzo…» e “cazzo” rimase anche nelle successive edizioni del poema, quella del 1521 e quella del 1532, segno che quella non fu una “dimenticanza”, ma una voluta omissione, un deciso smarcarsi dall’autore de Il Principe e, soprattutto, del libretto in cui si racconta con distacco apparente ma sostanziale ammirazione e implicita approvazione Del modo tenuto dal Duca Valentino nell’ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signo Pagolo e il Duca di Gravina Orsini composto nel 1503 [14]. Ariosto non era certo un ingenuo, ben conosceva le nefandezze del potere, le falsità della diplomazia e, anche, le accettava come inevitabili [15], ma da qui a vantarle, da qui a esaltare come virtù del buon governo, anzi come le necessarie virtù del buon governo, lo spergiuro, la crudeltà, il nessuno rispetto della vita umana, ce ne passava. È come se il poeta del Furioso vedesse in Machiavelli il severo scrutatore della tragedia umana, senza però che ne possedesse l’intelligenza. Come se messer Niccolò fosse l’impersonificazione di quella “civiltà” del Rinascimento italiano, che il filosofo, come appena citato più sopra, descriveva come spietata, dura, crudele, perché mancante di qualità in grado di riscattarla. Pure Ariosto, dunque, sentiva, come Whitehead, che s’era in tempi in cui la civiltà, più che essere fatta, era ancora da fare.
E la sua ricerca-risposta non prese la via della precettistica già iniziata dal suo amico Bembo, teorico dell’amore nel suo Asolani, o quella di Castiglione del Cortigiano, ma fu il dispiegarsi di un’opera-mondo dove ciò che ne costituiva l’ossatura morale non era qualche dottrina o principio, ma la dimensione della attenzione alla complessità e all’alterità irriducibile ai propri scopi individuali. Un’ossatura all’interno della quale si “fanno” anche i personaggi del Furioso in un processo che potrebbe paragonarsi, con la debita carità da applicarsi ad ogni similitudine, al farsi delle pagine principali del motore di ricerca Google dove grazie a un particolare algoritmo è dall’interno della qualità e del numero dei collegamenti che si definisce e si cambia la rilevanza di una pagina, così come l’identità delle dame e dei cavalieri che popolano il poema si forma dall’interno della macchina poetica, nella corrispondenza con il tutto di cui fa parte, da cui è determinata e che contribuisce a determinare; è costituita, in pratica, dall’accumulo degli abiti di risposta che ognuno mette in atto in rapporto al mondo in cui agisce. Da questo punto di vista, la diffusa critica rivolta ai personaggi del Furioso che sarebbero privi di profondità psicologica risulta sostanzialmente insensata perché fondata sulla superstizione oggettivistica in base alla quale si richiederebbe che il personaggio abbia prima la sua propria individuale identità (costruita chissà dove) che verrebbe poi agita nella macchina del poema. Ma l’identità non c’è, l’identità si fa, abitata come è dalla trascendenza verso l’altro, e lo stesso autore non è propriamente colui che la determina (nessun occhio di Dio appartiene al poeta), ma è colui che possiede l’intelligenza di questo farsi e su di essa mantiene radicalmente la posizione. Scrive Whitehead: «Appartiene alla civiltà della coscienza allargare il grande movimento dell’armonia» (p. 370) e, dopo aver indicato alcune delle tante società di cui farebbe parte l’anima individuale, prosegue: «Queste varie società, ciascuna secondo la sua misura, esigono lealtà ed amore. Nella storia umana le varie risposte a queste esigenze rivelano l’essenziale trascendere di ogni attività individuale al di là di se stessa. L’ostinata realtà dell’assoluta autorealizzazione dell’individuo è limitata dalla relazione in cui questo si trova con l’ambiente da cui emerge e dentro il quale si muove» (p. 371).
Quanto questo farsi dell’opera fosse ambiguo, e proprio perciò proficuo a rappresentare l’amore per l’umanità nella onestà d’un fare poetico in cui le parole sono cose, sono sentimenti, parole che si sporgono verso l’oltre dell’altro, dove, come si esprime il filosofo, «è attivo l’aroma della trascendenza», vorremmo illustrarlo con l’episodio della disastrosa sconfitta dell’esercito di Agramante.
Se è vero che non solo il pensiero condiziona il linguaggio, ma anche che il linguaggio condiziona il pensiero, va dato merito alla poesia di Ariosto, sempre così attenta alla concreta realtà delle cose a cui si riferisce, di essere in grado di rimescolare le carte persino fra chi siano i buoni e chi siano i cattivi: si rammenti che Cloridano e Medoro, eccezionali esempi di amicizia, abnegazione e pietà, sono pagani, due “dell’altro campo”, paradossali figure di moro «bianco e biondo» e di pagano che sembra «un angelo»; e che lo stesso Rodomonte, perlopiù attore di ottusa ferocia e miscredenza, è però capace, all’interno della sua stessa crudeltà, di sincera contrizione. Già Battista Guarino, umanista e docente a Ferrara dal 1460 al 1503, anno della sua morte, metteva in guardia nel suo De ordine docendi ac studendi (1459) circa l’ambiguità della poesia, capace di deliziare l’anima con ciò che nella realtà fuggiremmo inorriditi o scandalizzati.
Venendo all’episodio in questione, siamo al diciottesimo canto. Alle porte di Parigi si è appena conclusa una ferocissima battaglia dove le forze di Carlo Magno sono uscite dalle mura della città e hanno vittoriosamente contrattaccato all’assedio degli invasori saraceni comandati dal prepotente e orgoglioso Agramante. L’esercito pagano è ridotto in disordinata fuga:
E con gran tema fin dentro alle porte
Dei forti alloggiamenti ebbon la caccia;
Et era lor quel luogo anco mal forte,
Con ogni proveder che vi si faccia:
Che ben pigliar nel crin la buona sorte
Carlo sapea, quando volgea la faccia,
Se non venia la notte tenebrosa,
Che staccò il fatto, et acquetò ogni cosaDal creator accelerata forse,
Che de la sua fattura ebbe pietade;
Ondeggiò il sangue per campagna e corse
Come un gran fiume, e dilagò le strade:
Ottantamila corpi numerorse,
Che fur quel dì messi per fil di spade;
Villani e lupi uscir poi de le grotte
A dispogliarli e a devorar la notte.
Chi legge queste ottave dovrebbe aver presente quelle, ben più famose, dove Ariosto si chiede perché i cristiani combattano tra loro invece di volgere le armi contro i “cani” musulmani o “il Turco immondo” (XVII, 74-75) e vedervi lo slittamento che la “nascosta” coscienza poetica produce rispetto alla ideologia di parte, dall’invettiva indignata contro l’ignavia di chi non combatte l’infedele
O d’ogni vizio fetida sentina
Dormi, Italia imbriaca…
sino al “forse” che fa scorgere un Dio padre mosso a pietà per la sconfitta dei musulmani che sono pur essi sue creature: ecco l’amore dell’umanità senza riserve che prende piede, ecco la Pace del filosofo che vince la rigida morale dell’interesse particolare, ecco la poesia che prende il largo dalle nude ristrettezze del fatto. Così si dà luogo persino alla parodia della lettera biblica, a un suo ribaltamento: se Giosuè chiese al suo Dio di fermare il corso del sole in modo da allungare la durata del giorno e sterminare il nemico, qui si chiede invece di affrettarne il corso affinché le ombre della notte proteggano l’umanità sconfitta. Tra l’altro, va ricordato che la stessa “impietosa” lettera biblica di Giosuè fu usata, nella sua letterale verità fisica (il sole che gira intorno alla terra) per formulare l’accusa di eresia nei confronti di Galileo.
La questione del problematico rapporto fra giustizia e bontà che qui fa capolino, emblematica del rapporto fra il governare e l’umanità, sarà ben vissuta da Ariosto anche nella sua vita privata; ne sono testimonianza le lettere da lui scritte dalla selvaggia regione della Garfagnana («del silvoso Appennin la fiera sponda») di cui egli fu attento e laborioso governatore per conto di Alfonso I d’Este, duca di Ferrara dal 1521 al 1524.
Citerò, avviandomi alla conclusione, solo un breve brano tratto da una lettera del 2 ottobre 1522 dove la riflessione del funzionario al suo Signore sul governare rivela quel contraddittorio oltre, quel “margine nascosto della coscienza”, che “corrompe” la rettitudine dell’ordine e che è poi l’abito della Pace vestito dal filosofo:
Io gli ho compassione, pur in questo mi rimetto a chi ha miglior giudizio di me, et a chi la misericordia non corrompe la giustizia: io il confesso ingenuamente, ch’io non sono homo da governare altri homini, chè ho troppa pietà, e non ho fronte di negare cosa che mi sia domandata.
Vorrei infine richiamare l’attenzione sul tirarsi da parte di Ariosto, sullo smarcarsi, che in questo caso ritengo non sia solo da attribuire al suo desiderio di lasciare quelle montane lande selvagge per tornare a Ferrara dalla sua amata Alessandra, ma sia, più in generale, espressione del disagio con cui egli visse nella società del suo tempo, specificamente, la società maschile del suo tempo, verso la quale provò sentimenti contrastanti che non lo mettevano a proprio agio. Nella sua biografia, che è in genere decisamente avara di informazioni, altri segnali di questo disagio, del suo appartarsi, appaiono qua e là, come risulta ad esempio dalla Equitatio di Celio Calcagnini [16] in cui il giovane poeta che cavalca con gli amici è ritratto solitario e pensieroso, ai margini della compagnia. Egli è in una posizione molto defilata resa evidente sin dall’inizio della cavalcata dove non è nemmeno citato nella presentazione generale dei convenuti, finché ad un certo punto lo si interpella in merito alla discussione che già da un pezzo andava svolgendosi; o come traspare dall’episodio del suo rifiuto di recarsi in Ungheria al seguito del cardinale Ippolito; o come si può ricavare dai numerosi aculei volti ai suoi sodali di genere sia nelle Satire che nelle Commedie che nel Furioso stesso. Una posizione “a latere” che, credo, non sia riducibile solo a questione di carattere, ma riveli nel suo ritirarsi, nella sua discrezione, riserve e critiche verso quella società e civiltà di cui egli è stato considerato (e lo è a tutt’oggi) la più alta e matura espressione. Quanto poco quella civiltà gli corrispondesse, quanto la sua acuta sensibilità gliene mostrasse le mancanze e quanto lui fosse “benignamente” accettato da essa è ben mostrato in occasione della sua morte: la sua “misera” sepoltura si può usare come termometro che misura il grado della sua integrazione nel tessuto civile del tempo, paragonandola, ad esempio, agli onori altrimenti riservati alla salma di Machiavelli.
Michele Catalano nella sua insuperata biografia di Ariosto [17] riferisce che la morte del poeta ferrarese passò i primi giorni inavvertita e le esequie furono indecorose e clandestine. Il trasporto della salma avvenne alla chetichella, quasi clandestinamente, senza onori di sorta, sdegnosamente assenti il Principe e i cortegiani di casa d’Este: «la sera del lunedì 7 luglio 1533, il giorno seguente alla sua morte, il corpo fu portato nottetempo al convento di San Benedetto da quattro uomini con due lumie accompagnato dai soli monaci». Più fortunato, sei anni prima, Nicolò Machiavelli era stato gloriosamente accolto accanto ad altri grandi in Santa Croce.
Non tardò molto, comunque, che l’epoca, sulla scia del grande successo del poema capace di procurare diletto a nobili e plebei, si impadronì del “suo” poeta, anche a costo di marginalizzare diversi contenuti, ritenuti perlopiù semplici digressioni, se non veri e propri peccati di lascivia, in modo da far rientrare nella morale corrente e nel presunto spirito del tempo ciò che ne debordava. Esemplare di questo “recupero” è la grande operazione editoriale intrapresa da Gabriele Giolito de’ Ferrari, editore in Venezia. Si tratta della celeberrima edizione illustrata del poema apparsa nel 1542. La cura e il commento è di Ludovico Dolce il quale “normalizza” l’opera sia per quanto riguarda l’infrazione all’aristotelica unità d’azione sia purificando la commistione di episodi alti e di scene basse, di nobili sentimenti e di materiali passioni: la complessità del testo è ridotta a un’esaltazione semplificante delle virtù morali e nella programmatica condanna della passione amorosa; siamo, per usare una efficace formula di Eugenio Garin, nella degenerazione dell’etica nell’etichetta. Anche le illustrazioni, purtroppo antesignane delle tante che poi seguiranno, opereranno una drastica scelta dei temi con la quasi totale abolizione della materia amorosa a favore di quella epico-militare e con una conseguente censura dell’elemento femminile che compare quasi sempre sullo sfondo o in posizione comunque subordinata rispetto alla presenza maschile: l’arme e non gli amori, i cavalier e non le donne [18].
Tradimento, questo, di quell’abito poetico che si esprime proprio nell’estrema varietà dei protagonisti e delle situazioni, e nelle loro relazioni, e cioè nella capacità di tollerare in Pace l’irrequieto errare delle figure del poema; «l’imperscrutabile, la vita eternamente attiva meditata in pace» [19], direbbe Goethe, cui corrisponde, nel Furioso, la bellissima metafora del musico che interpreta da par suo l’unica possibilità di navigare nel molteplice:
Signor, far mi conviene come fa il buono
Sonator sopra il suo instrumento arguto,
Che spesso muta corda, e varia suono,
Ricercando ora il grave, ora l’acuto (VIII, 29).
Tradimento dunque del poema che, al contrario, risulta essere tanto simile al mondo intero di cui Carlo Sini dice che «non è una cosa, ma è l’interpretante ultimo, il supporto ultimo di tutti i sensi, la permanente transitorietà» dove tutto è inscritto e dove tutto accade.
Del resto, questa metafora del suonator ha una sua notevole storia che dimostra come essa non si riduca ad essere un semplice accorgimento retorico, un richiamo alla piacevolezza delle variazioni per l’uditorio, ma parli di un modo di stare al mondo e di comprenderlo. Lo testimonia egregiamente Giordano Bruno che propone l’immagine dell’asino che suona la lira che può sì essere “asino negativo”, la cui condizione di ottusa unidimensionalità non gli permette di addivenire all’armonia del molteplice, ma può essere anche “asino positivo” capace di sopportare la “soma” delle difficoltà e cioè di percuotere le corde alla ricerca della consonanza del suono che corrisponde alla capacità di saper cogliere l’armonia nella differenza [20]. Uno di questi asini, non per nulla virtuoso suonatore di liuto, fu Galileo Galilei il quale, nel Saggiatore (1624), scrisse la famosa novelletta applicando la tecnica delle variazioni musicali al tema del suono, di cosa sia e da cosa abbia origine, mostrando così come lo stesso percorso della conoscenza sia sostanzialmente “ariostesco” e cioè continuo frutto di complessa esecuzione.
Note
[1] Titolo originale Adventures of Ideas, Macmillian Company, New York, 1933. I numeri di pagina riportati a seguito delle citazioni si riferiscono all’edizione italiana dell’editore Bompiani, 1997.
[2] L’edizione definitiva è del 1532.
[3] L’idea di questo confronto è venuta a seguito dall’ascolto della registrazione di una lezione del filosofo Carlo Sini in cui “legge” il testo di Whitehead (precisamente la lezione n. 29 del corso tenuto dal professore l’anno accademico 2005-2006 dal titolo Distanza un segno. Filosofia e semiotica). I concetti ch’egli sviluppa sono venuti ad incontrarsi con mie riflessioni intorno alla poesia dell’Ariosto, aiutando e stimolando l’avventura dell’approfondimento e della rielaborazione.
[4] Cfr. CARLO SINI, Transito Verità. Figure dell’enciclopedia filosofica, Jaca book, 2012.
[5] GIOSUÉ CARDUCCI, La cultura estense e la gioventù dell’Ariosto, p. 269.
[6] RICCARDO BACCHELLI, Arte e genio dell’Ariosto, in La congiura di don Giulio d’Este, Milano 1966, p. 553.
[7] SERGIO ZATTI, Il Furioso fra epos e romanzo, p. 71.
[8] ANTONIO FRANCESCHETTI, Appunti sull’Ariosto lettore dell’Innamorato, in Convegno internazionale Ludovico Ariosto, Accademia de Lincei, p. 110.
[9] Senza voler considerare che l’esistenza dei popoli americani poneva il problema della loro origine, ricordando che l’esistenza degli antipodi era stata negata da due Padri della Chiesa, Lattanzio e Agostino, in base alla teoria della monogenesi dell’umanità basata sul racconto biblico della creazione.
[10] Definizione che Lutero diede della capitale della cristianità alla dieta di Worms del 1521, davanti all’indignato imperatore Carlo V.
[11] MARCO DORIGATTI, Il manoscritto dell’Orlando Furioso, in L’uno e l’altro Ariosto in corte e nelle delizie, a cura di GIANNI VENTURI, Firenze 2011, p. 3.
[12] EUGENIO GARIN, Rinascite e rivoluzioni. Momenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Roma-Bari 2007, p. XXVII.
[13] Del problema dell’educazione nell’umanesimo civile e nel neo-platonismo e del loro fallimento tratta lungamente e a fondo ALBERT RUSSEL ASCOLI, Ariosto’s Bitter Harmony: Crisis and Evasion in the Italian Renaissance, Princeton University Press, 1987.
[14] Sul problema del rapporto fra Ariosto e Machiavelli vedi: MARIO ROFFI, Il grande silenzio di messer Ludovico. Ariosto e Machiavelli, in: “Atti dell’Accademia delle Scienze di Ferrara” voll. 66-67 (1998-1999), pp. 237-249.
[15] Prova ne sia la giovanile egloga in cui si approvava senza alcuna riserva la condanna del carcere a vita in regime di assoluto isolamento di Ferrante e Giulio d’Este, i quali avevano sì complottato contro i fratelli Alfonso (duca) e Ippolito (cardinale), ma avevano i loro buoni motivi, soprattutto Giulio che era stato accecato dai sicari di Ippolito per questioni amorose. Bisogna aggiungere che l’Egloga non venne mai pubblicata da Ariosto, il quale poi farà in qualche misura ammenda nel Furioso in cui al canto III, ottava 62, chiede pietà per i disgraziati cospiratori:
O bona prole, e degna d’Ercol buono,
non vinca il lor fallir vostra bontade:
di vostro sangue i miseri pur sono:
qui ceda la iustizia alla pietade.
[16] ELISA CURTI, Una cavalcata con Ariosto. L’Equitatio di Celio Calcagnini, Fondazione Ferrara Arte, 2016.
[17] MICHELE CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto, Olschki, 1930-31, vol. I, p. 640.
[18] Vedi CHRISTIAN RIVOLETTI, Ariosto e l’ironia della finzione. La ricezione letteraria e figurativa dell’Orlando Furioso, Marsilio, 2015, p. 366. Non è comunque senza ambiguità il rapporto tra testo e immagini nell’edizione Giolito, significativa è, ad esempio, l’illustrazione al III canto in cui non c’è la normalizzazione della figura della maga Melissa: gli spiriti evocati per interpretare la genealogia estense escono dalla tomba di Merlino e sono inequivocabilmente diavoli, lei è rappresentata discinta e con i capelli sciolti (segno del disordine interiore) come le streghe. Il commento figurativo dunque si rivela in questo caso in contrasto con la tendenza interpretativa del suo corrispettivo testuale, teso a ridurre e snaturare la pregnanza narrativa del magico.
[19] JOHANN WOLFGANG VON GOETHE, Massime e riflessioni, 1207, Milano, 1988.
[20] Cfr.: NUCCIO ORDINE, La cabala dell’asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno, Milano, 2017.