Temi e protagonisti della filosofia

Così interpretò Masini (1)

Così interpretò Masini (1)

Dic 13

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Oggi pubblichiamo il primo articolo di Roberta Papale, laureata in Filosofia con una tesi sul nichilismo nietzscheano. Roberta inizia la sua collaborazione con Filosofia Blog introducendoci a un classico della letteratura su Nietzsche. Ringraziandola per il contributo, le diamo il benvenuto tra i collaboratori del blog.

 

Introduzione alla lettura di Ferruccio Masini, Lo scriba del caos. Interpretazione di Nietzsche, Il Mulino, Bologna 1978, pp.326

Il testo di Masini si radica su un’accurata e appassionata analisi testuale e linguistica dell’opera nietzscheana e ne fornisce un’interpretazione affascinante incentrata sulla dinamica trascendente-estatica della volontà dionisiaca; talvolta risulta, tuttavia, di difficile lettura per la consistente presenza di termini in lingua tedesca. Emerge, particolarmente suggestiva, l’immagine di Dioniso-Zarathustra come punto di incontro delle molteplici direzioni del pensiero di Nietzsche.

Muovendo dall’importanza che riveste nell’opera nietzscheana la venerazione per la civiltà greca arcaica, quale momento in cui una cultura reale è stata in grado di offrire alla vita lo strumento della propria trasfigurazione attraverso il Tragico, l’autore individua il metodo con cui egli si approccia ai filosofi dell’archè, cioè quello snocciolare l’elemento umano, unico e irripetibile, di e da ogni pensiero, riconoscersi in quell’immagine e ritrovare in essa “la propria gioia”: e questo è anche il modo in cui Nietzsche vorrebbe fosse accolta la sua eredità.

La filosofia è essenzialmente un’intuizione -mistica- che afferra l’unità al fondo di tutte le cose, quel principio che sfugge invece all’occhio comune che sa fissarsi solo nel perenne ciclo del sorgere e del passare: «è questa intuizione, infatti, lo strumento di un’autorivelazione dell’ “officina della natura”, resa manifesta nei suoi segreti profondi dal discorso del filosofo e dell’artista. Fantasia e inesplicabile divinazione sono le componenti poetiche di questa rivelazione che affiora nel linguaggio metaforico-analogico dei primi filosofi» (p.79). Tale linguaggio sfugge inevitabilmente alle categorie esplicative del pensiero discorsivo, nel suo opporsi al concetto -e quindi alla metafisica– che è «impoverimento schematico di un ricco e fecondo -immediato- possesso di realtà, la quale resta pertanto un mistero inviolabile, uno scrigno di cui è stata gettata via la chiave» (p.80). Il filosofo, o uomo della conoscenza, nel suo fare e disfare metafore si scopre così un “soggetto artisticamente creatore”, a sostegno di un’idea di filosofia che sia plasmatrice di vita e strumento di auto-realizzazione della cultura.

Lo stesso nucleo tematico del tragico non può essere analizzato, e sviscerato in tutte le sue implicazioni, se assunto come definizione statica e vuota in quanto esso «emerge come tensione irrisolvibile, come gioco debordante e dislocante i significati, come eccesso, come infrenabile movimento estatico» (p.93), ed è piuttosto una prefigurazione di quella “magia degli estremi” che per Masini si colloca al cuore del pensiero nietzscheano, l’incanto per cui ogni parte è negata, superata e ricompresa nell’essere onnicomprensivo del tutto. I due istinti, artistici ma anche fisici (nella loro appartenenza alla phýsis), apollineo e dionisiaco stanno in un rapporto pari a quello dei lottatori di Eraclito: «essi si ghermiscono e si serrano l’uno all’altro per soggiogarsi, ma sono solidali nell’abbraccio di una lotta che li divide e al tempo stesso li unisce» (p.101). Di conseguenza l’immagine del gioco si adatta anche al tragico, anzi è necessaria per comprenderlo; del resto essa è centrale nell’interpretazione nietzscheana di Eraclito, molto caro al filosofo tedesco e da cui egli deriva, con le dovute distanze, l’ultima delle tre metamorfosi narrate nel Così parlò Zarathustra, il fanciullo, simbolo di una sovrabbondanza ludica in cui l’eccesso di impeto si innalza al di sopra dell’inutilità del tutto: dal suo fare come gioco discende la stessa necessità dell’essere, «il trionfo di un estro divinamente innocente che accende e spegne nel suo sorriso apollineo e nella sua enigmatica crudeltà dionisiaca la fluttuante superficie marina dell’esistenza» (p.76).

Questo gioco è l’autoaffermazione dionisiaca del divenire, la lieve danza di Zarathustra.


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