L’etica stoica VI. Virtù
L’etica stoica VI. Virtù
Mag 12[ad#Ret Big]
Per gli stoici essere felici portando a perfezione la natura specificamente umana in una vita bella e buona dal corso prospero e armonioso significa esercitare la virtà vivendo secondo ragione o, il che è lo stesso (nella misura in cui la natura sia cosmica sia singola è razionale), vivendo secondo natura, la quale viceversa ci guida senza fallo appunto alla virtù. In pratica (è proprio il caso di dirlo), la virtù è una predisposizione alla coerenza morale: come la natura produce costantemente gli stessi effetti dalle stesse cause (il fuoco fa fumo e non acqua), così il saggio è irremovibile dalle sue scelte in armonia col logos. L’esperienza degli accidenti naturali esterni che ci affettano, argomenta Crisippo, è regolata dalla medesima legge comune a tutte le cose (a sua volta identica al re Zeus) che ci spinge anche ad agire in un certo modo piuttosto che nel modo contrario proibito, ossia nel vizio.
Ora, la virtù non è un mero mezzo per raggiungere la felicità. La felicità infatti non rappresenta uno stato conseguente e separato all’esercizio della virtù, ma la virtù stessa è immediatamente la felicità per l’uomo. Siamo virtuosi non sotto la spinta della speranza di acquisire un bene esterno alla virtù che ci renda felici o del timore di incappare in un male esterno al vizio che ci renda infelici: la virtù è da perseguirsi di per sé, è assolutamente degna di essere scelta, a prescindere da calcoli e considerazioni ulteriori.
Ma se l’uomo virtuoso è immediatamente anche felice e perfetto, allora sarà pure autosufficiente. In particolare, egli non subordina il perfezionamento della sua natura al godimento dei piaceri, cioè di beni apparenti che, a differenza della virtù, non sono stabilmente in suo potere e si configurano come concomitanti alla virtù nel caso che essa si accordi con le passeggere coincidenze esterne fuori controllo, per le quali dunque non vale la pena affannarsi. Accessoria è anche un’eventuale vita futura: la perfezione è raggiungibile già in questa vivendola virtuosamente. Anzi, come sappiamo, anche questa stessa vita è indifferente: nonostante sia, quale indifferente positivo dotato di valore, preferibile alla morte, non ha un valore assoluto ma solo relativo; la virtù invece, in quanto attuazione della razionalità e del bene, ha valore assoluto.
L”aretolatria” degli stoici li porta ad equiparare la qualità di vita degli uomini virtuosi perché buoni, cioè l’intensità della loro felicità, a quella degli dei. La differenza è solo quantitativa: gli dei sono più longevi, ma anche un solo nobile istante di virtuosa felicità – sostiene Crisippo – vale quanto l’eterna beatitudine di Zeus. L’esaltazione della virtù, multiforme quanto l’attribuzione di qualità eccelse a Dio nella tradizione musulmana, la caratterizza come:
- bene, in quanto ci conduce per la retta via;
- piacevole, in quanto oggetto di apprezzamento;
- pregevolissima, in quanto dotata di valore ineguagliabile;
- interessante, in quanto degna di viva attenzione;
- lodevole, in quanto è essa che bisogna approvare e additare pubblicamente;
- bella, in quanto attrae coloro che la desiderano (il vizio invece fa arrossire);
- giovevole, in quanto promuove chi s’impegna a vivere bene (eu zen);
- utile nel bisogno, in quanto è nelle circostanze difficili che prova la sua efficacia;
- preferita, in quanto sorgente di tutto ciò che è degno di essere preferito;
- necessaria, perché in sua assenza si è disperati;
- benefica, in quanto il saldo tra costi spesi per ottenerla e benefici arrecati una volta ottenutala è sempre positivo;
- autosufficiente, in quanto basta a quanti la posseggono;
- non bisognosa di nulla, in quanto non affetta da mancanza alcuna;
- sufficiente, in quanto strumento d’utilità universale nella vita, in presenza del quale il bene e la felicità si realizzano.