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L’etica stoica XVI. Cosmopolitismo

L’etica stoica XVI. Cosmopolitismo

Giu 26

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Secondo gli stoici la dinamicità elastica del logos universale, che individua proprio connettendo, per natura costringe l’uomo ad estendere l’oikeiosis, l’amore conservatore della determinatezza, dal suo io alla famiglia (soprattutto ai genitori ed ai figli), allo stato (massa d’uomini che convivono sotto l’amministrazione di una legge), a tutta la specie umana, costituita da animali appunto comunitari, ed infine all’intero universo.

Particolarmente forte è il legame che unisce tutti gli esseri umani in quanto tali (fondamento etico dell’umanesimo: homo sum: nihil humanum mihi alienum est) a prescindere da differenze sovrastrutturali contingenti, che sono indifferenti in senso tecnico e quindi non devono produrre indifferenza verso l’essenza comune a tutti, cioè la razionalità. Razionale per l’uomo è sottomettersi alla legge che governa il cosmo, così da divenirne cittadino (cosmopolita). Ma condizione necessaria per la circolazione globale della razionalità è il graduale superamento della solitudine individuale nelle varie cerchie della socialità, senza però arrestare l’ascensione ad una di esse, in particolare alla patria di nascita.

La razionalità poi si traduce praticamente nella promozione del bene, della giustizia e della benevolenza, mediante la tradizione (non argomentata) delle regole del comportamento saggio e l’insegnamento formale (argomentato) della scienza. Il sapiente infatti non persegue solo l’apprendimento personale, ma la natura stessa lo spinge a condividere ciò che sa insegnandolo agli altri, secondo una sorta di effetto feedback: poiché il contenuto della scienza è un systema olistico cui non sfugge determinatezza alcuna, colui che lo possiede lo declina praticamente coll’insegnamento e l’esempio a giovamento della società naturale costituita dagli animali comunitari, nei quali il logos giunge alla massima maturazione.

Ora, in generale, nella misura in cui una sola legge vige costantemente ovunque, si può dire che l’intero cosmo è un immenso stato, nel quale non solo non ha senso il particolarismo dei singoli stati, ma neppure l’autoreferenzialità politica della specie umana. In esso infatti hanno diritto di cittadinanza non solo tutti gli uomini, ma tutti gli esseri razionali, dei compresi. La comunità degli dei svolge anzi la funzione di paradigma utopico in quanto città pienamente felice.

In tale comunità cosmica le differenze scompaiono in un egalitarismo senza compromessi, rivoluzionario per la tradizione greca. La nobiltà di nascita per esempio è definita sprezzantemente scoria raschiata via dall’uguaglianza. Giacché non ci sono situazioni contingenti, né per i popoli né per gl’individui, che, per quanto difficoltose, rendano incapaci di virtù, tutti ricevono la vocazione alla saggezza.

È infatti la saggezza, cioè la disposizione interiore dell’anima alla virtù stabile per tutta la vita, non già le circostanze esterne e i ruoli assegnati sulla scena del mondo, ciò che rende veramente liberi e nobili. Per contro, solo i vizi e le passioni, conseguenze dell’ignoranza, rendono veramente schiavi gli stolti. Ne viene che non ci sono giustificazioni naturalistiche o in generale ontologiche per la schiavitù: nessun uomo è per natura schiavo. Ci si può liberare sin da subito dall’unica schiavitù ammissibile, quella morale, convertendosi alla virtù.


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