L’etica stoica IX. Azioni rette
L’etica stoica IX. Azioni rette
Mag 25[ad#Ret Big][ad#Ret Big]
Gli stoici non ammettono passi falsi in nessuna azione, per quanto irrilevante sembri. Pertanto risulta urgente e cruciale indicare quali azioni vadano compiute e quali evitate. In effetti essi, col loro razionalismo immanentista, spingono all’estremo la necessità che le soluzioni argomentate ai problemi morali di secondo livello diano una bussola nella vita extrateorica, laddove si presentano i problemi morali di primo livello. Al filosofo morale infatti non basta costruire, come fa il teoreta, un sistema argomentato ed esauriente: la teoria dev’essere anche e innanzitutto praticabile, utile all’azione.
Pare valga la pena applicare l’etica normativa e la casistica dei ragazzi del Portico. L’azione perfetta in ogni parte infatti si armonizza col logos universale, esprimendo la propria sorgente, l’ethos virtuoso del saggio. L’inconveniente è che l’impegno per il conveniente non dà tregua: non appena si è soddisfatti di avere alzato bene un dito, ecco che tosto si deve farsi scrupoli sul modo più acconcio di abbassarlo.
Il katorthoma, cioè l’azione retta, contiene tutte le proprietà della virtù perché è conforme alla scienza dei beni e dei mali attinta dal logos. Ora, il criterio di correttezza di un’azione è eziologico più che teleologico: anche se non si riesce a compierla perfettamente sino allo scopo, perché sia giudicata retta è sufficiente che all’origine sia causata dall’intenzione alla virtù. Tutte le azioni che non rampollano dalla disposizione interiore (diathesis) alla virtù, concomitante alla retta conoscenza del logos, ma le sono esterne risultano invece inutili se non raggiungono lo scopo. Questo potrebbe essere un buon criterio di distinzione tra praxis e poiesis, azione morale e procedura tecnica.
Inoltre, poiché è chiaro che l’intenzione dell’agente non è mai completamente trasparente a chi è testimone delle sue azioni (secondo Kant neanche l’agente stesso è del tutto autotrasparente), non si può giudicare esteriormente la correttezza dell’azione, cosicché un saggio e uno stolto possono agire allo stesso modo pur se sorretti da disposizioni opposte e un’azione che esternamente può sembrare corretta può in realtà non esserlo perché scaturisce da una disposizione viziosa di uno stolto che sa dissimulare bene, mentre viceversa un’azione che da fuori pare non corretta perché manca lo scopo può in realtà esser retta in quanto ha a monte una disposizione virtuosa.
Purtroppo la maggior parte dell’umanità è composta da stolti, che compiono azioni viziose o peccati (amartemata). Chi è stolto non può assolutamente compiere le azioni rette contrarie a meno di diventare saggio acquisendo la virtù. Ma dire che lo stolto è saggio equivale a dire che lo stolto non è stolto, il che è assurdo. La contraddizione potrebbe essere evitata tollerando un intermedio tra saggezza e pazzia, ma su questo punto gli stoici non transigono e non mediano.
Nonostante lo spiccato internalismo appena visto, che svolge uno dei tratti più rivoluzionari del pensiero socratico nei confronti della tradizione greca, sono disponibili indizi per abdurre la correttezza dell’azione e la virtù dell’agente. Infatti, poiché le disposizioni interiori plasmano il corpo, si può cogliere il carattere morale, l’ethos, dall’aspetto esterno, in particolare dai tratti del volto. Parimenti indicativi sono i sogni: nello stato di sonno, quando le facoltà rappresentativa e passionale dell’anima sono rilassate, i desideri viziosi e le disposizioni a commettere peccati emergono dall’inconscio censurato nella veglia.