Temi e protagonisti della filosofia

La logica stoica. III. Canonica

La logica stoica. III. Canonica

Gen 05

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Per gli stoici, la fondazione della conoscenza è sensistico-empirista come per gli epicurei, ma gli sviluppi sono assai più ricchi e problematici. L’uomo nasce anche cognitivamente nudo: l’anima è priva di rappresentazioni innate o a priori, alla stregua di una tabula rasa.

I caratteri scritti su questa tavoletta sono le sensazioni. La sensazione (aisthesis) è un’impronta registrata passivamente dagli organi di senso, da cui passa all’anima sotto forma di rappresentazione (phantasia). Le rappresentazioni, oltre che dagli oggetti esterni, sono prodotte anche dagli stati interni dell’anima (per esempio la virtù o il vizio).

La rappresentazione è dunque un’impressione sull’anima (typosis en psychei) analoga allo stampo (typos) del sigillo di un anello sulla cera. Zenone, preoccupato di non distanziarsi sin dall’inizio dalla fisica (di non far saltare il ponte tra conoscenza e realtà), parla letteralmente di impronta materiale; un basso e un alto rilievo, parafrasa Cleante. Crisippo, più smaliziato e disposto a mitigare il materialismo in nome della tenuta argomentativa, concepisce, contro Cleante, l’impronta zenoniana come una metafora per cambiamento qualitativo o alterazione (heteroiosis) dell’anima. Infatti, egli ragiona, è assurdo che l’anima, essa stessa corporea, contenga e sia affetta da più corpi differenti nello stesso tempo (per esempio un triangolo, una circonferenza e un quadrato quando vede una fetta di torta in un vassoio sul tavolo, la golosona) o, peggio ancora, che assuma tante forme quante sono quelle delle rappresentazioni impresse. Quindi, sebbene l’anima sia materiale, le rappresentazioni devono essere non mere impronte estese ma alterazioni qualitative, cosicché il corpo dell’anima, unificato dall’egemonico, possa raccoglierle insieme contemporaneamente pur nella loro molteplicità similmente a come l’aria è percorsa e alterata da molteplici suoni accavallati.

La sensazione e la relativa rappresentazione non dipendono da noi ma dall’oggetto fisico realmente esterno (hyparchon) che colpisce i nostri sensi e rispetto al quale siamo quindi passivi. L’attivo assenso (synkatathesis) interiore dipende invece da noi nella misura in cui può liberamente essere accordato o meno alle rappresentazioni da parte del logos albergante nella nostra anima. Gli idealisti smorzino l’entusiasmo. L’assenso infatti è vincolato, rispetto al contenuto rappresentazionale, non alla spontaneità di un io che costituisca in certa misura il dato mediante le sue strutture sintetiche a priori bensì all’evidenza oggettiva della rappresentazione, cioè alla sua corrispondenza a posteriori coll’oggetto. Ne viene che l’assenso è in gran parte involontario, dipendendo per il contenuto totalmente dall’oggetto che produce la sensazione subita. La parte volontaria, eticamente prioritaria ma ontologicamente accessoria, ha sede nel giudizio, che si declina come assenso, dissenso o sospensione (epoche), cioè rinvio dell’assenso o del dissenso. Si è nel vero assentendo all’evidenza e dissentendo dalla non-evidenza, nel falso dissentendo dall’evidenza e assentendo alla non-evidenza. Non si può insomma far altro che prendere atto dell’oggettività se non si vuole dichiarare gratuitamente il falso: la libertà dell’assenso è assolutamente derivata, un aut-aut stritolato dalla realtà, senza aperture sulla possibilità nel caso si scelga l’eventualità trasgressiva (uolentem fata ducunt, nolentem trahunt).

Qualora l’assenso sia dato a una rappresentazione con credenziali corrispondentistiche (assenso al senso), si ha l’apprensione (katalepsis), consistente nell’afferrare, nel tenere in pugno l’oggetto a monte di sensazione e rappresentazione, le quali dunque hanno alterato la soggettività anziché l’oggettività. Grazie alla catalessi l’oggetto si configura come comprensibile (traduzione ciceroniana di “katalepton”): proprio quello e non un altro. Ecco dunque che la rappresentazione cui abbiamo assentito perché conforme alla realtà, chiara ed evidente come un’impronta precisa, diventa rappresentazione comprensiva, idonea a recepirsi ossia catalettica (phantasia kataleptike; conceptus, Begriff, diranno poi hoi barbaroi), il criterio di verità o di giudizio delle cose ricercato nella canonica. La rappresentazione acatalettica, per contro, non è conforme alla realtà. Ma ad un certo punto del loro travagliato sviluppo teoretico, sollecitati dalle critiche scettiche, gli stoici condannano anche le rappresentazioni catalettiche assentite in circostanze non fededegne, accettando come criterio di verità solo le rappresentazioni catalettiche che non abbiano nulla contro di sé, che s’impongano cioè con forza come evidenti perché non contraddette da quelle divergenti. Il fine Crisippo poi distingue vari gradi di evidenza. Il criterio di verità stoico è perciò, in fin dei conti, evidentemente, l’evidenza.

Il termine “catalessi” viene dal solito paragone zenoniano della mano: aperta colle dita distese sta per la rappresentazione in generale, colle dita un po’ chiuse per l’assenso, il pugno rappresenta appunto la catalessi e la stretta ferrea del pugno destro colla mano sinistra la scienza completa riservata al saggio (il nostro eroe), definita dagli stoici una rappresentazione catalettica o un abito immutabile a cogliere tali rappresentazioni, accompagnate da ragionamento, che sarà sviluppato in sede di dialettica.


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