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Arriano, Manuale di Epitteto (9)

Arriano, Manuale di Epitteto (9)

Mar 02

Brano precedente: Arriano, Manuale di Epitteto (8)

 

34. Quando cogli la rappresentazione di un piacere, come in occasione delle altre bada di non concederle di rapirti; che la cosa ti aspetti, invece, e prenditi un rinvio. Poi poni mente ad entrambi questi lassi di tempo, quello in cui godrai del piacere e quello in cui, dopo averne goduto, ti pentirai e rimprovererai te stesso; e a questi lassi contrapponi ciò: come, astenendoti, gioirai ed elogierai te stesso. Se dunque ti pare il momento adatto per attaccare l’opera, attento, ché la sua dolcezza e la sua seduzione non ti sconfiggano, ma contrapponi ciò: quanto è meglio vedersi consapevoli di aver colto proprio questa vittoria!

35. Quando fai qualche azione avendo riconosciuto che è da farsi, non rifuggire dall’essere osservato mentre la compi, anche se la massa dovesse prendere qualche posizione alternativa alla tua su di essa. Ecco, se non agisci rettamente, rifuggi dall’opera stessa; se invece agisci rettamente, perché hai paura di coloro che biasimeranno non rettamente?

36. Come i giudizi «è giorno» ed «è notte» hanno grande valore per il disgiuntivo ma disvalore per la congiunzione, così anche lo scegliere la porzione maggiore avrà grande valore per il corpo ma disvalore per custodire la comunione come si deve in un banchetto. Quando quindi mangi con qualcun altro, rammenta non solo di guardare al valore delle vivande per il corpo, ma anche di custodire quello che si deve al commensale.

37. Se assumi qualche ruolo al di sopra delle tue capacità, fai brutta figura in quello ed anche tralasci di espletare ciò di cui eri capace.

38. Come nel passeggiare fai attenzione a non avventurarti su un chiodo o storcerti il piede, così fai attenzione anche a non danneggiare l’egeminico che ti è proprio. E se custodiremo questo in occasione di ciascuna opera, attaccheremo ciascuna più sicuramente.

39. Misura del possesso per ciascuno è il corpo, come il piede lo è della calzatura. Ebbene, se starai in osservanza di questo, custodirai la misura; se invece sorpassi, non resta di necessità altro che esser portato a forza come in un precipizio; come anche per la calzatura, se sorpassi quel cho occorre al piede, vien ad esserci una calzatura dorata, poi una purpurea, poi una ricamata: ecco, una volta superata la misura, non c’è alcun limite.

40. Le donne, già dai quattordici anni, son chiamate ‘signore’ dagli uomini. Ecco quindi che, vedendo che per loro non c’è null’altro, ma solo giacere con gli uomini, cominciano ad imbellettarsi ed in questo contengono tutte le speranze. Vale quindi la pena avere a cuore che sentano di esser stimante per null’altro che nel mostrarsi costumate e pudiche.

41. È segno di assenza di qualità naturali impegnare troppo tempo nelle cose del corpo come allenarsi molto, mangiare molto, bere molto, defecare molto, fare sesso; ma queste son da farsi in margine: tutta l’attenzione sia invece per la mente.

 

Traduzione latina di Angelo Poliziano (1479)

L. QUOMODO RESISTENDUM VOLUPTATI.

[34] Cum voluptatis cuiuspiam imaginationem capis, quemadmodum in ceteris, serva te ipsum ne ab ea corripiaris, sed excipiat te res ipsa atque aliquod tute spatium cape. Tum utrumque tempus animo voluta, et quo voluptate potieris et quo iam potitus poenitentia afficieris, teque ipsum tute increpabis. Eis vero oppone quantopere, si abstinueris, gaudebis, teque ipsum tute laudabis. Quod si res postulare videtur ut rem aggrediaris, cave ne suis te blandimentis atque illecebris superet. Tum oppone quanto melius sit huius certaminis victoriam tibi ipsi conscire.

LI. AGENDUM BONUM PROPTER SE IPSUM, RELIQUIS NEGLECTIS, AC PRIMO DE IUSTITIA.

[35] Cum iudicaris faciendam tibi rem, idque facias, ne da operam quo minus te facientem alii videant, etiamsi aliud quippiam ea de re multi sint opinaturi. ‹Si enim non recte facis, ipsum opus fugiendum est;› si recte, ne metue increpaturos non recte. [36] Ut enim hoc, «aut dies aut nox est», adversus disiunctum magnam habet dignitatem, adversus autem coniugatum indignitatem, sic et maiorem partem eligere magnam erga corpus dignitatem habet, ad servandam autem quam in convivio communionem oportet indignitatem habet. Si quando igitur cum aliquo convivaris, memento ne ad eorum quae apposita sunt dignitatem adversus corpus aspicias, sed adversus quoque animum qualem decet convivam te serva.

LII. QUOD NON BONUM SIMPLICITER, SED QUOD NOBIS FACIAT, ELIGENDUM.

[37] Si personam induisti supra tuas vires, neque eam sustines et quod implere potueras omisisti.

LIII. QUOMODO ANIMUM VEL AB IRRATIONALIBUS AFFECTIBUS VEL A SUO PERVERSO IUDICIO SERVEMUS.

[38] Inter deambulandum quemadmodum caves ne clavum calces aut pedem distorqueas, ita cave ne quod in te ipso dominatur offendas; et hoc si in quavis re servemus, tutius illam aggrediemur.

LIV. DE EORUM QUAE AD CORPUS PERTINEANT POSSESSIONE.

[39] Modus possessionis unicuique corpus est, velut pes calcei. Si in hoc ergo consistas, modum servabis; si excedas, in praeceps feraris necesse est. Velut in calceo, si supra pedem extendas, fit aureus calceus, deinde purpureus, ‹deinde punctabundus›. Nullus enim terminus est, ubi modum semel excesseris.

LV. DE OFFICIO ET CURA ERGA UXOREM.

[40] Mulieres statim a decimoquarto anno dominae vocantur. [Simpl. p. 127, 17-28] His enim viri ob concubitum blandiuntur: virorum ergo culpa sibi deinceps nimis placent. Monendae igitur sunt fore ut apud nos in honore sint nihil ob aliud, nisi si modestae sint et virum revereantur.

LVI. DE DEGENERIS SIGNO DEQUE NIMIO CORPORIS CULTU.

[41] Degeneris signum est insistere iis quae corporis sunt, ut plurimo exercitio, plurimo corporis cultui. [Simpl. p. 127, 42-48] Sed et consensus cuiusdam supervacanei signum est. Quibus enim gaudemus, cum iisdem consentimus. Oportet igitur nimiam corporis curam velut ab re esse arbitrari; maxime vero curam eius habere, quod ipso utitur corpore.

 

Traduzione italiana di Giacomo Leopardi (1825)

Se tu avrai concetta la immaginazione di alcuna voluttà, guarda che cotale impressione non ti trasporti, ma fa, per modo di dire, che la cosa aspetti, e impetra da te medesimo un poco d’indugio. Poi mettiti davanti agli occhi l’uno e l’altro tempo; quando tu ti godrai questa voluttà, e quando goduta che tu l’abbi, tu te ne pentirai e rampognerai teco medesimo; e a rincontro metti il piacere che sei per provare se tu te ne sarai astenuto, e le lodi che ne riceverai da te stesso. E se egli ti parrà tempo opportuno da venire a quel cotal fatto, poni cura di non lasciarti vincere da quella piacevolezza e da quelle lusinghe e da quel dolce della cosa, e metti a rincontro quanto ei ti saprà meglio se tu sarai consapevole a te medesimo di aver vinto tu questa così fatta vittoria.

Quando farai cosa che tu abbi considerato e giudicato di dover fare, non volerti nascondere che gli altri non ti veggano a farla, se bene il più delle persone fossero per interpretare il fatto sinistramente. Perciocchè o tu fai male, ed egli si vuole anzi fuggire il fatto medesimo; o fai bene, e che timore hai tu di quelli che ti riprenderanno a torto?

Siccome il dire: o egli è dì o vero è notte, quanto al senso disgiuntivo, afferma e ha gran forza, ma pigliato congiuntamente, tutto al contrario; per simile il prendersi la maggior porzione della vivanda, quanto al proprio corpo, sta bene ed è molto acconcio, ma quanto a quella comunione che vuolsi osservare nei conviti, sconviene e non è a proposito. Per tanto quando tu sarai a mangiare con qualche altro, ricórdati di non guardar solo a quella convenienza che avranno le vivande colla utilità e col piacere del tuo corpo, ma eziandio a quella che debbe osservarsi rispetto al convitatore.

Se tu prenderai a fare una persona da più che non comportano le tue forze, primieramente tu riuscirai con poco onore in questa figura, poi tu avrai lasciato indietro quella che avresti potuto sostenere compiutamente.

Siccome, andando per le vie, tu hai l’occhio a non calpestare un chiodo e a non ti storcere un piede, così abbi cura di non far pregiudizio alla parte principale di te medesimo. E se altrettanto osserveremo in ciascuno atto, noi faremo ogni cosa più sicuramente.

Misura dello avere si è a ciascheduno il proprio corpo, siccome della scarpa il piede. Per tanto se tu ti conterrai dentro ai termini di quel che è richiesto alla tua persona, tu serberai la misura, ma se tu gli passerai, di necessità da quell’ora innanzi andrai senza fine precipitando come per un dirupato. Non altrimenti che nella scarpa se tu passi più avanti di quello che si appartiene all’uso del piede, la scarpa ti diventa prima dorata, appresso di porpora, poi ricamata, gioiellata. Perocchè di là dalla misura non ci ha limite alcuno.

Le donne insino dalla età di quattordici anni incominciano a esser chiamate dagli uomini con titolo di signore. Sicchè vedendo che esse niun altro pregio hanno, ma solo sono pregiate rispetto all’usar cogli uomini carnalmente, dánnosi ad acconciarsi e ornarsi, e a riporre ogni loro speranza in cotale studio. Per tanto vuolsi por cura di far che elle si avveggano di non essere avute in pregio se non se in quanto si dimostrino costumate, vereconde e caste.

L’essere lungamente occupato dintorno ai servigi del corpo, come dire agli esercizi della persona, al mangiare, al bere, alle necessità naturali, alle carnalità, è segno di piccola indole. Queste cose si deono fare come per transito, e tutto lo studio si dee porre intorno alla mente.

 

Brano seguente: Arriano, Manuale di Epitteto (10)

 

 


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