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Ontologia dell’arte IV (terza parte): Vertigo!

Ontologia dell’arte IV (terza parte): Vertigo!

Feb 11

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Filosofia dell’arte

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John Ferguson è un agente di polizia ormai in pensione. Un suo amico lo prega di pedinare la moglie, Madeleine, perché ne sospetta il tradimento. John rimane affascinato dall’enigmatica donna e quando la salva da un tentato suicidio, scoppia la passione. La tragedia, però, è dietro l’angolo: John soffre di vertigini e per questo motivo non riuscirà a raggiungere Madeleine in cima al campanile da cui si getterà togliendosi la vita. Dopo una lunga elaborazione del lutto, John incontra casualmente Judy, la sosia perfetta di Madeleine. Judy, però, non è la donna sofisticata e misteriosa che John aveva amato in precedenza. È una semplice commessa senza apparenti scheletri nell’armadio. Sebbene l’investigatore sia inconsapevolmente attratto da lei e sebbene Judy sia propensa ad allacciare una relazione, John non riesce ad accettarla sic et simpliciter. Novello Pigmalione decide allora di plasmarla a immagine di Madeleine, accentuando la già notevole somiglianza: le fa tingere i capelli, le regala i suoi abiti e gioielli e la educa nel comportamento.
Naturalmente si tratta della trama di Vertigo La donna che visse due volte (1958) di A. Hitchcock; John è James Stewart e Madeleine/Judy è Kim Novak. La scena in cui James Stewart compie finalmente la trasformazione da Madeleine/Novak a Judy/Novak è tra le più celebri della storia del cinema.

Hitchcock ha un problema difficilissimo da affrontare: deve chiarire allo spettatore – in un’unica scena (!) – una miriade di nessi impliciti. Deve mostrare che James Stewart riconosce finalmente Madeleine in Judy, ma deve anche gettare il sospetto che Madeleine e Judy siano, in realtà, la stessa persona. Deve evidenziare l’angoscia di Judy per l’intollerabile abuso che John sta compiendo sul suo aspetto, ma deve anche dare l’idea che Judy sia un’emanazione di Madeleine nel suo amore per il personaggio interpretato da Stewart. Il coefficiente di difficoltà aumenta dato che un cineasta esperto e smaliziato come Hitchcock non può ammettere elementi extra-cinematografici nella scena: devono essere le immagini stesse a indicare l’insieme di problematiche sopraindicate. Non è sufficiente, per esempio, aggiungere una voce fuori campo in cui Stewart o la Novak esplicitino in maniera diretta la propria posizione. Il genio di Hitchcock sta nell’aver lasciato alla luce – materia prima del cinema – il compito di rendere evidente il significato della scena. La camera d’albergo in cui si svolge la vicenda ha una finestra adiacente ai neon che promuovono l’esistenza della struttura all’esterno. Questa luce, spettrale e fredda, enigmatica e cupa, viene proiettata da Hitchcock sul corpo della Novak nel momento in cui si completa la trasformazione da Madeleine in Judy. Judy diventa così in un sol colpo il fantasma di Madeleine, la realizzazione dei desideri di John, un oggetto di amore e di angoscia. La creazione artistica è sicuramente coadiuvata dalle superbe musiche di Bernard Herrmann, ma viene portata a termine con le sole forze del medium cinematografico: il fatto che il cinema sia anche una riproduzione fotografica (la ‘scrittura della luce’) entra a far parte del significato della scena.
Un significato dalle molteplici diramazioni (il riconoscimento di Judy/Madeleine da parte di John) è espresso da una rappresentazione sensibile in maniera indiretta ed è incorporato saldamente nel medium in cui viene espresso. In queste parole è possibile riconoscere sia una esemplificazione delle idee estetiche kantiane, sia della struttura metaforica, sia della definizione di ‘arte’ fornita da Danto. Ogni elemento che abbiamo affrontato in precedenza rispecchia gli altri, ne mette in luce una sfaccettatura particolare e ci permette di comprendere meglio l’ontologia delle opere d’arte. La spiegazione kantiana sottolinea che le opere d’arte danno forma sensibile a un significato apparentemente inesauribile. La struttura metaforica fa emergere la forma indiretta che assume il significato artistico: le opere d’arte si esprimono necessariamente in maniera obliqua, proprio perché cercano di sintetizzare in una rappresentazione ciò che non può essere riassunto. Allo stesso modo le metafore tentano di agglomerare in un’unica sentenza una rete indefinita di implicazioni: non essendo possibile esporle tutte,le metafore si limitano a suggerirle indirettamente. La formula di Danto – ‘Embodied Meanings’ – è speculare a quella kantiana – ‘idee estetiche’ – [1], ma ci permette di tradurla nel lessico dei media artistici.
L’intrecciarsi di queste posizioni ci ha dato un chiarimento preliminare su cosa sia un’opera d’arte. Il problema è che non è ancora chiaro né se queste condizioni siano sufficienti, né se bastino a riconoscere qualcosa come opera d’arte. Questi temi spinosi saranno affrontati dalla filosofia della storia dell’arte elaborata da Danto in After the End of Art. [2]

Note:

[1] È lo stesso Danto a riconoscerlo: A. C. Danto, “Embodied Meanings, Isotypes, and Aesthetical Ideas”, The Journal of Aesthetics and Art Criticism, 65 (2007), pp. 121-129.

[2] A. C. Danto, Dopo la fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia, trad. it. Nicoletta Poo, Bruno Mondadori, Milano 2008.


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