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Filosofia in viaggio. Un’occasione per il pensiero (3)

Filosofia in viaggio. Un’occasione per il pensiero (3)

Ott 29

 

 

Articolo precedente: Filosofia in viaggio. Un’occasione per il pensiero (2)

 

3. Il viaggio come apprendistato filosofico individuale

 

Se persino l’idea del viaggio è intimamente connessa al desiderio di conoscenza, perché non vedere in esso una “straordinaria occasione per il pensiero“?
La prima direzione a cui ho appena accennato vede nell’uguaglianza vita-viaggio una costante, una legge universale che vale per tutti gli esseri umani.
Tuttavia, se dal valore universale che tale norma sembra assumere iniziamo a considerare l’importanza che la necessità di viaggiare riveste nelle singole vite, vediamo che l’atteggiamento del singolo di fronte a tale prospettiva si modifica in base al suo retaggio, al suo retroterra storico-culturale.

Insomma, per farla breve, il viaggio come concetto può anche essere ritrovato in tutti gli uomini, ma l’esperienza concreta del viaggiare assume dimensioni, conosce sviluppi, provoca effetti che differiscono da persona a persona.
Sarebbe, in effetti, piuttosto ingenuo considerare il trasferimento forzato di un rifugiato siriano alla stessa stregua di una crociera di lusso di una ricca famiglia occidentale tra i fiordi norvegesi.

Per quanto viaggiare possa essere un’esperienza in grado di assumere valori assoluti, l’irrimediabile diversità dei singoli tragitti ci spinge ad introdurre una distinzione in termini di categorie e tipi.
Il viaggio può essere una fuga, una possibilità di svago ed evasione dai ritmi asfissianti della quotidianità o può divenire esso stesso quotidianità. Può essere testimonianza, reportage, memoria, ma anche immagine, suono e colore. Può essere numero, distanza, fatica e dolore.
Qualcosa che dà motivo di pensare. “Una straordinaria occasione per il pensiero”, si è detto, ricordando, per vie traverse, il Kant della Critica del giudizio [3].

Una possibilità, dunque, che si configura come un vero e proprio apprendistato.
Viaggiare, per il filosofo, significa intraprendere un percorso di formazione, divenire il protagonista centrale di un Bildungsroman trasportato nella realtà attuale.
La condicio sine qua non del muoversi filosofico è il desiderio di approcciare il diverso, la sete irresistibile di conoscere l’infinita varietà del mondo. E questo conoscere è, indubbiamente, un apprendere: imparare non solo ad osservare, ma anche a relazionarsi con un diverso modo di interpretare la realtà, facendone esperienza ed elaborando concetti.

Una vera filosofia è sempre in itinere: prodotto temporaneo, mai provvisorio, di un pensiero e di un corpo che si muovono tra le mille sfaccettature della realtà. Per quanto astratta riesca a farsi la speculazione, questa non potrà mai sganciarsi da quel movimento del pensiero che ne permette l’elaborazione. La disciplina filosofica non è altro che continuo esercizio di interrogazione della realtà. Anche il più complesso risvolto dell’ontologia heideggeriana trova le sue radici in un’esperienza, mobile e concreta, dell’io nel mondo.

Banalmente, il filosofo non nasce con un sistema concettuale già formato. Egli apprende quello di cui ha bisogno, insieme ad una mole spropositata di informazioni superflue. Il suo è un apprendimento ‒ ci tengo a ripeterlo ‒ assolutamente mobile e concreto. Lo dimostra la parola stessa ‒ “ap-prendere” ‒ che implica un gesto, una presa, un movimento della mano che tende verso gli oggetti che popolano il mondo.
Oggetti differenti per ambienti ed esperienze altrettanto differenti.

 

Note

[3] Il riferimento è al passaggio in cui Kant definisce l’idea estetica: «[] per idea estetica intendo quella rappresentazione dell’immaginazione che dà occasione di pensare molto, senza che un qualche pensiero determinato, cioè un concetto, possa risultare ad esse adeguato; e che, di conseguenza, nessuna lingua può completamente esprimere e rendere comprensibile» (I. Kant, Critica del giudizio, 1790, Tea, Milano 1995, p. 286).

 

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