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L’etica stoica III. Beni e mali

L’etica stoica III. Beni e mali

Apr 27

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Come abbiamo già visto in logica, il bene (to agathon) ed il male (to kakon) rientrano tra le nozioni comuni (koinai ennoiai). Il criterio di distinzione e valutazione dei beni e dei mali degli stoici è fornito dall’istinto di autoconservazione, derivante a sua volta dall’oikeiosis quale fondamento biologico dell’intera etica. Tale istinto valuta dunque come bene ciò che preserva e aumenta l’essere, cioè il giovevole, e come male ciò che lo danneggia e diminuisce, cioè il nocivo.

Il giovevole si differenzia comunque a seconda del regno cui appartiene ciascun essere vivente. In particolare, visto che l’uomo possiede una natura razionale superiore a quella meramente animale, ciò che giova a lui come individuo e come specie sarà lo stesso che giova alla razionalità universale.

La conseguenza tratta dai nostri filosofi è radicale: solo i beni della ragione sono propriamente beni morali, tali da rendere l’uomo commisurato alla sua essenza ontologica, al suo dover essere, buono quindi virtuoso, quindi felice, mentre tutto ciò che è contrario alla promozione della razionalità è senz’alto male morale, che rende l’uomo cattivo, quindi vizioso, quindi infelice. Corollario di questo manicheismo etico è che i medesimi impulsi e azioni rappresentanti dei beni per un animale, per esempio cibarsi più del necessario per accumulare grasso utile a sopravvivere nei periodi difficili ma a scapito degli individui deboli del branco, diventano mali per l’uomo che non sa resistere loro sottomettendoli al controllo del logos. Solo nell’accordo con la ragione universale l’uomo è in accordo con e si appropria di sé stesso.

Ora, anteporre il bene del tutto al proprio particolare significa essere virtuosi, mentre accentrarsi sul proprio corpo ignorando l’economia del tutto o pretendendo assurdamente che il cosmo sia al servizio dei propri frivoli bisogni significa essere viziosi: bene è solo la virtù, male è solo il vizio. Per l’esattezza, gli stoici definiscono il bene “utilità (opheleia) o non altro dall’utilità”: direttamente “utilità” sono la virtù (arete), cioè un certo modo (pos echon) dell’egemonico, e l’azione nobile (spoudaia praxis), cioè un’attività secondo virtù (energeia tis kat’areten); “non altro dall’utilità”, cioè qualcosa d’indirettamente legato all’utilità, sono l’uomo nobile e l’amico. Da ciò gli stoici inferiscono poi che “bene” si dice secondo tre significati (semainomena): la virtù, cioè la fonte per cui mezzo o da cui si ricava utilità; le azioni secondo virtù, in base a cui accade di ricavare utilità; ciò che in generale è utile, cioè l’insieme di virtù, azioni virtuose, uomini nobili, amici, dei e demoni nobili.

Inoltre, a detta di Ecatone e Crisippo e com’era normale per i greci, il bene è identico al bello (to kalon), anzi solo il bello è anche buono. Non si sopravvaluti però la portata estetica di questa immediata identificazione: il bello non è altro che la virtù e ciò che partecipa della virtù (to metechon aretes). Ecco il ragionamento, alquanto circolare e tautologico: ogni bene è bello e “bello” ha la stessa valenza di “bene” perché gli è eguale (ison); giacché è bene è bello, ma è bello, dunque è anche bene.


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