L’irrinunciabile uguaglianza del pensiero. Uomo, universo e conoscenza tra scienza e filosofia
L’irrinunciabile uguaglianza del pensiero. Uomo, universo e conoscenza tra scienza e filosofia
Mar 03
Non c’è alcun segno di stupidità o di immaturità nel porsi domande in apparenza banali sul proprio ruolo nel mondo.
La filosofia e la scienza vivono di punti interrogativi che necessitano di essere trasformati in affermazioni; ma se, da un lato, il metodo scientifico, nella sua forma sperimentale perfezionata da Galileo in avanti, ha inteso operare in direzione di dimostrazioni finalizzate alla produzione di leggi che confermassero ipotesi riguardo a dati fenomeni naturali, dall’altro il pensiero filosofico, cercando una risposta alle macro-problematiche della conoscenza, ha finito per moltiplicare, in maniera esponenziale, i punti di domanda.
Credo che una delle molteplici differenze tra scienza e filosofia risieda proprio in questi due movimenti apparentemente opposti: una delimitazione/circoscrizione dei fenomeni naturali in definizioni e un’estensione, potenzialmente infinita, delle ragioni alla base di tali fenomeni. Ciò significa, forse, che la scienza è in grado di garantire risposte più efficaci e credibili di quante ne possa dare la filosofia?
Sarebbe una palese ingenuità credere ad un pregiudizio, ad una banalità simili, oltretutto senza aver prima notato come, al di là delle numerose differenze, gli intenti, gli oggetti e i soggetti dell’indagine scientifica e filosofica, molto spesso, coincidano.
Come spiegare, ad esempio, gli enormi progressi compiuti, nel corso degli ultimi 3-4 secoli, in ambito cosmologico e astronomico? Si può dire, con relativa sicurezza, che lo studio dei fenomeni fisici che governano la vita del pianeta Terra e dell’intero Universo sia stato stimolato dalla profonda necessità di individuare una posizione, di trovare una qualche ragione della presenza dell’uomo. La particolarità della specie uomo consiste nel fatto che essa è l’unica in natura ad interrogarsi sul proprio rapporto con l’incommensurabile vastità dell’Universo.
Dalle teorie di Aristotele e Tolomeo, dalle proposte rivoluzionarie di Niccolò Cusano, Giordano Bruno e Niccolò Copernico, fino all’apice del pensiero moderno con René Descartes, Leibniz, Galileo e Isaac Newton, gli intellettuali hanno speso intere vite – talvolta rischiando di abbandonarle prematuramente – per dare una spiegazione plausibile all’unicità dell’essere umano a partire dalla sua collocazione in un Universo che, con il ripetuto superarsi delle teorie, vede continuamente mutare le sue dinamiche.
Recentemente mi è capitato di leggere uno dei più importanti lavori del professor Stephen W. Hawking [1] e, sebbene capisca poco o nulla di fisica, vi ho intravisto una tensione di carattere gnoseologico, che manca in molti filosofi della contemporaneità.
Interrogandosi sulla possibilità di ottenere una teoria fisica che unisca la relatività di Einstein e la meccanica quantistica, Hawking si pone nella dimensione della mediazione. All’interno di uno studio scientifico sull’origine e sui “movimenti” dell’Universo, si è quasi obbligati a confrontarsi con il paradosso [2]: Hawking non intende risolverlo, ma lo assume e ricerca in esso elementi di continuità che potrebbero permettere di elaborare una teoria unificata, che concili le forze che muovono l’infinitamente grande (relatività) e l’infinitamente piccolo (fisica quantistica).
Non potendo entrare nello specifico delle ipotesi e delle formule fisiche, ciò che mi preme sottolineare è l’approccio teorico di un professore di fisica di Cambridge che prima di tutto è uno scienziato.
Sottolineando l’irriducibile incertezza della conoscenza umana, Hawking inizia e conclude il suo ampio discorso con un avviso che ogni scienziato o filosofo particolarmente avventato dovrebbe tenere in considerazione: ogni teoria, proposta in un dato momento storico, poiché è potenzialmente confutabile e superabile da teorie successive, non può mai corrispondere a verità assoluta.
Lo si può chiamare relativismo; io credo, piuttosto, che questa affermazione non sia altro che la riproposizione di un modus cogitandi che filosofi e scienziati dei secoli passati padroneggiavano alla perfezione e che, con l’avvento della scienza contemporanea, è andato, in un certo qual modo, perdendosi. Confrontandosi con la nozione di infinito – il cui significato va oltre la sua notevole rilevanza in ambito matematico – molti, in passato, hanno compreso come la realtà non sia altro che una continua vicissitudine, un alternarsi e un susseguirsi di eventi, forme, individui e teorie.
Giordano Bruno ne ha tratto l’occasione perfetta per elaborare il suo concetto di amore, inteso come un’eroica tensione verso l’infinito [3], cioè Dio; Cartesio ha ricercato in essa dei punti fermi tramite la misurazione matematica di tutto ciò che, essendo materia, costituisce res extensa; Newton ha scoperto che in tale flusso esiste una forza a cui ogni cosa è sottoposta: la gravità.
Insomma, nella varietà delle soluzioni, filosofi, matematici e fisici hanno cercato di interrogarsi sulla posizione dell’uomo in una realtà che è fatta di misure, estensioni, forze, specie, generi; ma questa indagine non ha mai voluto fissare un dato fenomeno naturale nella staticità di una definizione che valesse per sempre. Ciò è accaduto solamente nel momento in cui la scienza ha scoperto di poter trarre, dai propri progressi, una certa utilità: quando la lente d’ingrandimento dello scienziato si sposta dalle domande fondamentali alle singole finalità pratiche, la scienza decade nella tecnica.
Il filosofo tedesco, padre della fenomenologia, Edmund Husserl [4] con La crisi delle scienze europee, e il suo allievo più famoso e discusso, Martin Heidegger, sono stati probabilmente i primi filosofi nel ‘900 ad aver denunciato la deriva tecnica della scienza contemporanea: le affermazioni contenute nelle loro opere hanno favorito l’emergere progressivo di una presa di coscienza riguardo a questa involuzione del sapere scientifico. È anche grazie alla forza di tali convinzioni che, da diversi anni, sembra potersi registrare un’inversione di tendenza: confrontandosi con la «realtà storica che circonda l’uomo in quanto e-sistenza» [5], la scienza pare aver ritrovato quelle domande e quei principi che, oggi, assumono una notevole rilevanza etica e sociale.
Da questo punto di vista, l’opera di Hawking mette in evidenza la tensione intellettuale che governa il pensiero di un uomo tanto caro alla propria vita da essere riuscito a trarre, dalle indicibili sofferenze, la consapevolezza di quanto sia importante avere sempre presente il valore precipuo dell’uomo. Partendo da tale valore, il filosofo e lo scienziato devono percorrere la strada che porta alla conoscenza: essi prendono due vie parallele che, per le leggi della geometria, non si potranno mai incontrare, ma chissà che, ancora una volta, la forza sorprendente del paradosso non abbia il sopravvento sulle fuggevoli certezze dell’uomo, e che si possa così restituire eguale dignità alle discipline scientifiche e a quelle umanistiche. D’altra parte, possiamo trovare in entrambe quella capacità tipicamente umana che è l’interpretazione dell’ambiente circostante – una capacità di cui non possiamo fare a meno, se vogliamo dare effettivamente un senso compiuto alle nostre azioni.
Note
[1] S.W. Hawking, Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, 1988, Rizzoli, Milano, 1990.
[2] L’introduzione del concetto di spazio-tempo ha determinato il proliferare, in letteratura e non solo, di casi di “paradosso temporale”.
[3] G. Bruno, Eroici furori, 1585, Laterza, Bari, 2007.
[4] E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, 1959, Il Saggiatore, Milano, 2008.
[5] M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, 1946, Adelphi, Milano, 2013.
Bibliografia di riferimento
- Bruno G., Eroici furori, 1585, Laterza, Bari, 2007.
- Cusano N., La dotta ignoranza, 1440, Città Nuova, Roma, 1991.
- Galilei G., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, 1632, Rizzoli, Milano, 2008.
- Hawking S.W., Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, 1988, Rizzoli, Milano, 1990.
- Hawking S.W., La teoria del tutto. Origine e destino dell’universo, 1996, Rizzoli, Milano, 2015.
- Heidegger M., La questione della tecnica, 1953, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976.
- Heidegger M., Lettera sull’umanismo, 1946, Adelphi, Milano, 2013.
- Husserl E., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, 1959, Il Saggiatore, Milano, 2008.
- Newton I., Principi matematici della filosofia naturale, 1687, Utet, Torino, 1997.
«[…] il metodo scientifico, nella sua forma sperimentale perfezionata da Galileo in avanti, ha inteso operare in direzione di dimostrazioni finalizzate alla produzione di leggi che confermassero ipotesi riguardo a dati fenomeni naturali […]»
Ma insomma, se ne può discutere. Sicuramente il termine dimostrazione è adoperato con scarso riguardo al significato che gli viene usualmente attribuito in un contesto filosofico, nel quale una dimostrazione è una istanza di pensiero deduttivo. Se il fine è la “produzione di leggi” (mm, anche qui si potrebbe discutere sulla scelta dei termini), mi aspetterei un processo induttivo.
«Interrogandosi sulla possibilità di ottenere una teoria fisica che unisca la relatività di Einstein e la meccanica quantistica, Hawking si pone nella dimensione della mediazione. All’interno di uno studio scientifico sull’origine e sui “movimenti” dell’Universo, si è quasi obbligati a confrontarsi con il paradosso [2]: Hawking non intende risolverlo, ma lo assume e ricerca in esso elementi di continuità che potrebbero permettere di elaborare una teoria unificata, che concili le forze che muovono l’infinitamente grande (relatività) e l’infinitamente piccolo (fisica quantistica).»
Incominciamo dalla fine: “infinitamente” ed “infinito” hanno un significato in ambito filosofico e scientifico molto preciso. Se nella lingua di tutti giorni adoperare “infinitamente” al posto di “molto“ è una iperbole abbastanza comune, quando ci si muove in un contesto filosofico bisognerebbe fare maggiore attenzione.
Abbiamo quindi due teorie: la relatività generale, che descrive il comportamento dell’universo a grandi scale, e la fisica quantistica, che ne descrive il comportamento a piccole scale. Queste due teorie non vanno d’accordo: più che ad un paradosso ci troviamo di fronte ad una contraddizione: se è vera l’una non può essere vera l’altra. Bel guaio.
Innanzitutto, la ringrazio per la risposta e mi scuso per il ritardo con cui sto scrivendo questa replica.
Lei ha giustamente fatto notare delle imprecisioni a livello terminologico a cui io, in tutta onestà, non avevo pensato. E per queste precisazioni non posso che esserle grato.
Un discorso che cerchi di conciliare queste due “anime” del pensiero moderno non può fare a meno di porre grande attenzione nell’utilizzo di termini precisi che non lascino spazio ad ambiguità semantiche.
D’altra parte, credo che le sue annotazioni, per quanto puntuali e apprezzate, finiscano per deviare l’attenzione dal punto fondamentale dell’articolo, il cui obiettivo era quello di mettere in luce come un certo modo di intendere la relazione individuo-mondo (un certo modo di elaborare una visione del mondo, una Weltanschauung), tipico di quei pensatori del XVI e XVII secolo, sia stato, almeno parzialmente, dimenticato da molti filosofi contemporanei (e non solo da quei filosofi analitici che spesso costituiscono un bersaglio sin troppo facile). E come abbia potuto ritrovare segnali di un simile atteggiamento nell’opera di uno scienziato come Hawking.
Pertanto, ritengo che la parte conclusiva della sua risposta sia quella più pertinente al discorso.
In primo luogo, ci tengo a chiarire che il punto terminologicamente problematico dell’ “infinitamente grande” – “infinitamente piccolo” è dovuto ad una riproposizione letterale delle parole utilizzate da Hawking stesso. Personalmente, in un discorso di questo genere, avrei preferito parlare di “assolutamente grande” o “assolutamente piccolo”.
L’ultima sua osservazione – quella che considero più importante e, al tempo stesso, problematica – fa leva su di una contraddizione di partenza che, se confermata, renderebbe vano l’intero lavoro di Hawking.
Guardi, per quel poco che so di fisica (reminiscenze del liceo e letture occasionali di testi divulgativi dello stesso Hawking e di Heisenberg), le posso dire che vi è tutto un filone di studi incentrato sul tentativo di tenere insieme aspetti della meccanica quantistica e della relatività generale. Pensi alla teoria delle stringhe.
E’ una buona teoria? Vale la pena sviluppare riflessioni a partire da un simile assunto?
Un filosofo può intervenire, a posteriori, valutando le potenzialità gnoseologiche e la coerenza teorica e metodoloica di una teoria, ma, quando si ha a che fare con teorie in fase di sviluppo, credo che ci si debba limitare ad osservare dall’esterno il lavoro degli specialisti.
Questo è un articolo davvero interessante e ben fatto.