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Riflessioni sulla filosofia della religione. Tudor Petcu intervista Francesco Angelone

Riflessioni sulla filosofia della religione. Tudor Petcu intervista Francesco Angelone

Dic 15

 

 

Nota introduttiva: Oggi pubblichiamo un’intervista a Francesco Angelone (Reggio Calabria 11.03.1987). PhD student già abilitato alla professione forense, Angelone collabora con le Cattedre di Diritto Ecclesiastico, Storia del Diritto Medievale e Moderno, Diritto Canonico e Storia del diritto canonico presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Si è laureato in Giurisprudenza con una Tesi in Storia del Diritto Canonico dal titolo Genesi e Sviluppo del Primato papale in Occidente.
È studioso di filosofia della storia e delle religioni, con particolare attenzione per il pensiero di Hegel, Kant e per la storia dei fondamenti della filosofia tedesca. I suoi interessi di ricerca orbitano, inoltre, intorno alle origini storiche, religiose, filosofiche e giuridiche della criminalità organizzata nel mezzogiorno d’Italia. In questa prospettiva, la sua ricerca si sofferma sulla Teoria del Sacrificio secondo René Girard.
È responsabile del sito dirittocanonico.com. Autore di numerose pubblicazioni, si definisce un homo viator sulla linea spazio-temporale che divide l’utopia dal “non senso”.

 
D: Se dovessimo parlare del rapporto tra filosofia e religione, potremmo prendere in considerazione anche l’umanesimo ateo che ha conosciuto un sviluppo importante nell’ultimo secolo. In questo momento mi ricordo di un libro assai importante, scritto da Henri de Lubac, “Il dramma dell’umanesimo ateo”, un libro che ha provato a mostrare anzitutto la dimensione teologica dell’ateismo. Ma, a partire da questo libro, vorrei porre la seguente domanda: come si può spiegare l’umanesimo ateo di cui parlo tramite la filosofia della religione?

R: Per De Lubac, la verità di Dio non è una verità qualunque, una verità fra le altre. Essa è la verità che fonda ogni altra verità e senza la quale ogni verità diventa una verità parziale e incoerente che, se ardisce elevarsi al livello del sapere oggettivo, si deforma in una immagine del non senso e blasfema della verità reale. Né il razionalismo né l’irrazionalismo possono darci una visione adeguata della realtà: “In breve, bisogna prendere sul serio la realtà di Dio. Bisogna riconoscere in tutto il suo valore la trascendenza di Dio“. Non si creda, però, che Dio, una volta rivelatosi nella coscienza, si mantenga come una qualsiasi altra verità di ordine razionale. Lo scandalo della fede è appunto questo: un dovere ogni volta lottare, ogni volta ricominciare; un vedersi sfuggire come nebbia quella certezza che si credeva conquistata una volta per tutte. La filosofia è lo sforzo del pensiero di risalire a quella sorgente perenne, a quel bene infinitamente prezioso verso cui ogni cosa tende. Ma, prima di articolare un qualunque ragionamento, essa muove da quel centro immobile che è in fondo alla coscienza, a quell’idea di Dio che precede ogni altra nostra idea formulata concettualmente, compresa l’idea stessa del divino. Perciò la nostra umanità, per ritrovarsi nel suo senso più profondo, deve preventivamente dire sì a quella scintilla divina che è già entro di essa; deve affermare Dio prima ancora di organizzare ed elaborare qualsiasi ragionamento sulla Sua esistenza.
Per De Lubac non vi è eterogeneità fra lo slancio mistico dell’anima verso Dio e la ricerca razionale del filosofo: entrambi tendono verso un centro fondamentale, un “contenuto latente” dell’anima che si ha quasi paura di turbare.
In fatto di prove dell’esistenza di Dio, la migliore è sempre quella classica: Aliquid est, ergo Deus est. E Dio non è il primo anello di una catena, ma la ragione sufficiente di tutto l’esistente. Bellissime le riflessioni del Nostro sul concetto del divenire e su quello di progresso, bandiera di una modernità che ha smarrito il senso dell’essere.
Per De Lubac, se vi è divenire, se vi è progresso possibile, allora deve anche esserci compimento. Diceva il grande poeta Paul Claudel: “Togliete la fine del mondo (che ne è pure il principio) e non v’è più séguito nelle cose, ma solo il caos che vi getta nella disperazione”. Contro la disperazione del Caos finale, del fallimento assoluto, vi è un punto alfa che è anche il punto omega, e quel punto è Dio, concettualizzabile senza ombra di dubbio con l’idea generante dell’ateismo.

 

D: Alcuni filosofi e teologi cristiani di oggi hanno parlato più volte della crisi attuale del cristianesimo, giacche v’è rifiuto da parte della società contemporanea dei valori cristiani. Prendendo in considerazione questa realtà, come sarebbe capace la filosofia della religione di aiutarci a ritrovare il senso spirituale/religioso dell’esistenza umana?

R: Credo fortemente che più di una crisi attuale del cristianesimo si debba parlare di una crisi universale riguardo ad un concetto di identità spirituale che ogni individuo dovrebbe innatamente sentire. Nell’era della globalizzazzione, il futuro non ha più programmi, manca proprio del sentire, manca della speranza. Mi piace usare come immagine un bilancino, si mettano da una parte le coscienze latenti, l’altruismo per esempio, e dall’altra parte le coscienze del possesso, la frenesia; si nota come quest’ultime spingano la bilancia dell’essere verso il basso, lo annichiliscono. Niente di diverso da cosa sta accadendo al nostro essere individuo nella communitas.
La dottrina dell’origine umana della religione interpreta la religione stessa come un bisogno teoretico conoscitivo dell’anima, o come una necessità derivata dal timore dell’ignoto e dalla paura del futuro che non si sa e non si può prevedere. Il concetto di storia provvidenziale che è insito in ogni cultura religiosa mette al riparo dall’alea, e pacifica rasserenando l’esistenza. È fuor di dubbio il valore conoscitivo di ogni religione, che è sempre e comunque un tentativo di spiegarsi il mondo per dominarlo e dirigerlo. In questo senso ogni religione è una metafisica ontologica della realtà. Adriano Fabris afferma che la filosofia della religione, meglio delle religioni, deve assumersi il compito di orientare le persone nell’epoca dell’indifferenza e dei fondamentalismi. Per essere all’altezza di queste sfide la filosofia della religione deve avere il coraggio di affrontare il problema del senso, inteso come possibilità di relazione degli esseri umani con ciò che li circonda. La filosofia della religione, in senso positivo, si configura pertanto come indagine epistemica sulla validità delle credenze religiose (aspetto ontologico) e come indagine antropologica sulle facoltà umane che portano a questo tipo di credenze (aspetto antropologico). La filosofia della religione ha il compito di sostenere la tesi della legittimità delle credenze religiose e la tesi della capacità religiosa dell’uomo, ma soprattutto ha la delicata funzione di discutere gli argomenti che si oppongono a entrambe queste tesi. In questa prospettiva tale disciplina assume le caratteristiche di una epistemologia religiosa, nella convinzione che alla base della religione non debbano esserci evidenze proposizionali, perché ci sono capacità e facoltà propriamente umane. Il punto irrinunciabile per ogni filosofia della religione è discutere la possibilità di ritenere vere le credenze religiose, dopo aver analizzato criticamente il loro prodursi. Stabilito ciò, resta ancora da indagare il loro contenuto, offrendo un’analisi concettuale delle nozioni teologiche. Essa ha il compito di rendere intelligibile la fede in tutte le sue dimensioni e tra i contenuti intelligibili della fede ci sono anche quelli appartenenti ai praeambula fidei: non si ricorre ad essa per stabilire certezze religiose, ma per accompagnare, esplicitare, fecondare, rafforzare quell’assenso a verità proposizionali di fede già di per sé legittimo e restituire perciò il senso dell’essere dell’uomo, a mio avviso, per castigo divino “viator”.

 

D: Con il suo permesso, mi piacerebbe moltissimo parlare del contributo all’evoluzione della filosofia della religione dato da Mircea Eliade, il cui lavoro ha imposto la sua importanza anche negli Stati Uniti. Egli fu sempre considerato una miniera inesauribile di materiale interessante e, almeno dal mio punto di vista, la sua opera è riscoperta poco a poco in Occidente al giorno d’oggi. Poiché le avevo proposto di parlare del lavoro di Mircea Eliade, le sarei grato se potesse dirmi cosa gliene pare della sua opera più importante, “Storia delle credenze e delle idee religiose“. Non ultimo, quanto importante è per Lei lo studio religioso di Mircea Eliade?

R: Ritengo doveroso affermare che, per meglio comprendere la complessa figura di Mircea Eliade, è necessario soffermarsi su quasi tutte le sue opere, ognuna nella sua diversità collegata da un comune denominatore: una eterna e silenziosa ricerca “per” e “del” ierofante. Per capire il senso dell’opera “Storia delle credenze e delle idee religiose” va inesorabilmente affiancata a questa, come un vero e proprio tassello mancante, un’altra opera dello stesso Eliade, Le Mythe de l’éternel retour. Nell’apertura del saggio, il Maestro scrive: «l’essenziale della mia ricerca riguarda l’immagine che l’uomo delle società arcaiche si è fatto di se stesso e del posto che occupa nel cosmo». Eliade, comparando differenti tradizioni e testi, dimostra la volontà nell’uomo arcaico di tornare a quel tempo primordiale, quando il gesto sacro fu compiuto da dei, eroi o antenati. Gli archetipi, base della cosmogonia, furono rivelati in un Tempo Mitico, metastorico. La loro ripetizione rituale interrompe il tempo storico e riconduce all’illud tempus, il Tempo Mitico. La ripetizione simbolica della cosmogonia rigenera il tempo nella sua totalità. Vede, si potrebbe quasi sospettare che, per Eliade, il tempo non avesse valore se non per la parte animica dell’uomo. Eliade indaga la fenomenologia del sacro attraverso le sue tre manifestazioni, il rito, il mito e il simbolo; proprio su quest’ultimo io credo che le nuove generazioni, i nuovi predicatori, i filosofi perché no, debbano far leva  sotto certi aspetti se si pensa alla tecnologia, ai social network che lo stanno già facendo ma indegnamente, e senza produrre frutti che si conservano nel tempo – perché è soltanto mantenendo la struttura arcaica del simbolo che addirittura il “non senso” e la “diversità dei sensi” diventano sodali di una sola cosa, un unico principio; si pensi per esempio alla “parola”.

 

D: Ho sempre sentito che il giudaismo è la prima religione della ragione, e il giudaismo stesso rappresentando di fatto l’eredita del cristianesimo che è diventato la religione dell’amore, non solo della ragione. Ad ogni modo, crede che tramite il giudaismo possiamo scoprire la funzione razionale della religione?

R: Amore: Auctor Mundi Rex Onnipotens est. Il giudaismo è la fonte, la sorgente della religione della ragione. Il giudaismo ha insegnato all’umanità la religione razionale. Le altre religioni o sono inadeguate nel loro complesso, oppure sono derivate dall’ebraismo. È pur vero che il giudaismo non può essere considerato razionale sotto ogni punto di vista. Esso ha avuto bisogno dell’aiuto della filosofia platonica, e soprattutto di quella kantiana, per liberarsi del tutto dalle sue incongruenze mitologiche e di altro genere. Ma tale aiuto ha reso possibile l’attualizzazione di quello che l’ebraismo è stato sin dall’inizio e di quello che, fondamentalmente, è sempre stato in ogni epoca. La giustificazione della sofferenza, in particolare della sofferenza di Israele, e non la visione di un’era messianica come meta ideale del progresso politico e sociale, conduce per esempio il filosofo Cohen – lo prendiamo a prestito per rispondere alla sua domanda – a trattare della “idea del Messia e dell’umanità” nella Religione della ragione. Secondo lui l’idea di “umanità”, della totalità degli uomini senza distinzioni come quelle tra greci e barbari o tra saggi ed ignoranti, ha la sua genesi storica nella religione, nel monoteismo; il Dio unico è il Dio di tutti gli uomini e di tutte le nazioni. “Per i greci soltanto il greco era un uomo”, nonostante il fatto che lo Stoicismo fosse comunque una dottrina “cosmopolita”, visto che si rivolgeva agli individui e non alle nazioni. L’umanità, unificata nelle sue più alte aspirazioni, non è mai stata e non è unita, ma lo sarà; la sua evoluzione non avrà mai termine; tale evoluzione è il progresso. Lo stato ebraico, visto come uno stato tra gli altri, non sarebbe capace di determinare inequivocabilmente la via dell’unità umana allo stesso modo di quel popolo senza stato che si dedica solo al servizio dell’unico Dio che è il Signore di tutta la terra. È questo il significato dell’elezione di Israele: essere un eterno testimone del puro monoteismo, essere il martire, essere il servo sofferente del Signore. Il mistero della storia ebraica affonda nel messianismo, che richiede una umile sottomissione alla sofferenza, e quindi allo stato nella sua funzione di tutore contro la sofferenza. Israele non ha solo il compito di preservare il vero culto di Dio, ma anche di diffonderlo tra le nazioni: è attraverso la propria sofferenze che Israele acquisisce il diritto di convertirle; il dolore liberamente accettato rende manifesta la dignità storica di colui che soffre. A causa dei profeti e attraverso loro, Israele è diventato il resto o il residuo di se stesso, l’Israele ideale, l’Israele del futuro, cioè il futuro dell’umanità. Il patriottismo dei profeti è nient’altro che Shemà Israel, universalismo.

 

D: Mi ricordo le parole di un teologo ortodosso russo, Sergio Bulgakov, che diceva: “La filosofia della religione è una metafisica concreta”. Come caratterizzerebbe Lei questa affermazione piena di significato?

R: Sia la metafisica generale che la cosmologia, l’assiologia, e la “metafisica”, ricercando il fondamento e il principio primo (dell’ente, del mondo, della persona, dei valori assoluti), alla fine si trovano tutte a discorrere su Dio. Già Aristotele diceva che la metafisica è una scienza divina per due ragioni: “perché è soprattutto possesso della divinità e perché verte circa cose divine… Ora, sembra a tutti che Dio si debba annoverare tra le cause e principi delle cose, e inoltre Dio solo e in modo eminente possiede la sapienza”. Però, oltre che come capitolo conclusivo della metafisica dell’ente, del mondo, dei valori assoluti, Dio merita una trattazione diretta e specifica, che faccia di lui l’oggetto proprio di una disciplina distinta, alla quale si dà generalmente il nome di teologia filosofica oppure di teologia naturale e che Leibniz ha chiamato teodicea. Esistono, pertanto, due attività umane che hanno come oggetto Dio: la religione, che si esprime principalmente nel culto, nell’adorazione, nel sacrificio e nel mito; la metafisica, che cerca di scoprire chi è Dio, quali sono i suoi attributi e le sue operazioni, la filosofia che ne crea l’archetipo tra mente e cuore.

 

 


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