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Nel cuore del metodo galileiano c’è la poesia dell’Ariosto

Nel cuore del metodo galileiano c’è la poesia dell’Ariosto

Dic 06

 

 

Oggi pubblichiamo il primo articolo di Massimo Mandelli. Massimo, da sempre dedito agli studi filosofici, inizia la sua collaborazione esaminando l’influenza, non solo letteraria, ma anche metodologica e concettuale, di Ariosto su Galilei. Ringraziandolo per il contributo, gli diamo il benvenuto tra i collaboratori del blog.

 

È risaputo che Galileo Galilei ebbe una convinta predilezione per la poesia di Ludovico Ariosto, autore del poema Orlando Furioso, che si manifestò anche, per prova contraria, nella partigiana e poco generosa critica all’arte poetica del suo ‘rivale’ (perlomeno come tale fu percepito dai contemporanei) Torquato Tasso, autore della Gerusalemme liberata.

Non per nulla delle ottave ariostesche si ricordò Bonaventura Cavalieri allorché poté finalmente leggere un esemplare fresco di stampa del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo che Galilei, dopo un accidentato percorso, aveva editato nel 1632, esattamente cento anni dopo la definitiva edizione (la terza) dell’Orlando Furioso. Così il geniale pensatore della Geometria degli indivisibili partecipava al Maestro le sue fresche impressioni di lettura:

Lo viddi, anzi lo devorai, per dir così con li occhi: et invero sento in me, in più volte ch’ho ripreso la lettura di quello, l’effetto che mi ricordo avere esperimentato nel leggere il Furioso, che dovunque io dia principio a leggere, non posso ritrovarne il fine (Lettera del 22 marzo 1632).

Non era osservazione da poco, visto che si rilevava l’inaudita forma di un trattato scientifico che non aveva una struttura lineare, tutta protesa a una logica dimostrativa, bensì una struttura circolare, quale quella complessa del poema ariostesco, basato com’era sulla presenza di più personaggi e più azioni che si intersecano e divergono fra loro condizionandosi e definendosi a vicenda. L’aura ariostesca, messa in luce da Cavalieri, fu certamente il frutto di una consapevole scelta di Galilei, giustificata, tra l’altro, dalla sua convenienza con l’intento anche divulgativo dell’opera, unitamente alla necessità di ‘leggerezza’ argomentativa finalizzata ad aggirare i divieti della censura ecclesiastica. Ma, detto ciò, solitamente si tralascia di aggiungere che una forma così inconsueta, adottata per trattare addirittura della costituzione dell’universo, doveva avere una sua più radicale ragione di coerenza intesa come necessaria inerenza al contenuto da esprimere e cioè al problema sostanziale ch’era in campo: quello che ricorda Erwin Panofsky, in Galileo critico delle arti, quando scrive della concezione della circolarità quale paradigma della cultura e delle arti rinascimentali, capace di meglio rappresentare la realtà nella sua caotica complessità e nel suo desiderio di ordine.

Il poema di Ariosto in questo è esemplare: come ogni circonferenza che si rispetti non comincia e non finisce; esso racchiude la complessità, ma pare non esaurirne mai la sovrabbondanza. Perciò un senso di precario equilibrio e di estraneità della materia pervade il poema: è la datità della realtà che urge e preme e che si può solo osservare, descrivere, interpretare, ma non possedere. La poesia per Ariosto non comprende il mondo, non lo riflette come fosse uno specchio, essa piuttosto è l’espressione del paradosso che per poter riprodurre in modo oggettivo la realtà occorre un soggetto che la osservi, che ne parli, che la canti facendosi carico di essa ed anche della sua impossibile estraneità. Così, liberatosi dalla costrizione di essere scimmia della datità, e dal gravoso dovere di imprigionarla nel proprio io speculare, prende agio l’immaginazione quale facoltà di inchiesta e conoscenza del reale, di cui indaga le possibilità, lasciando che le finzioni dicano, se le possiedono, le loro verità.

Galilei non ha mai scritto un trattato sul metodo e forse, accanto ad altre motivazioni, se ne sentiva esonerato perché conosceva a memoria le ottave del Furioso, dalle quali poteva ben ricavare il metodo ipotetico-sperimentale: quello che getta sulla realtà libere ipotesi immaginative dal sapore dell’irreale, quali quella che un pezzo di piombo cade verso terra con la stessa velocità di una piuma, o quella di una terra così grave che gira a pazza velocità per l’universo, o, ancora, quella di un linguaggio matematico-quantitativo che certamente nulla aveva in comune con le sensazioni percettive. Tutto ciò era possibile e sensato perché v’era nella poesia ariostesca l’avverbio ‘forse’, fonte della sua geniale ironia e segno di rinuncia ad un punto di vista onnisciente, ad una presunzione di specularità che avrebbe depotenziato qualsiasi evasione immaginativa. Un ‘forse’, dunque, che non solo rimandava alla umile necessità dell’osservazione diretta (sperimentale), ma anche alla consapevolezza del limite dell’umano, della relatività del suo sguardo e all’inesauribile gioco interpretativo fra finzione e verità che diede inizio alla età moderna. Galilei immaginò, in un esperimento ideale nella cabina di una nave, descritto nel suo Dialogo, la concreta situazione in cui si esprimeva il fondamentale principio della relatività dei moti e la sua descrizione letteraria ha la stessa ‘illusione’ realistica, nella nettezza del disegno e nella attenzione ai particolari, che hanno i versi di Ariosto, il quale si avvaleva solitamente di tale accorgimento per rendere verosimile l’inverosimile. Cosicché nella pittura poetica e letteraria, la logica della rappresentazione veniva a coincidere con quella della realtà (l’esperimento ideale ‘era come’, stava ‘al posto di’) e i loro limiti apparvero, a priori, impossibili da stabilire. Un problema filosofico, questo, che nella sua fondante interrogazione si ritrova in primo piano nelle riflessioni novecentesche, non per nulla inaugurate dal Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein, il quale, detto in sintesi, affermerà che la ‘mondità’ del mondo è semplicemente e solamente la sua traducibilità.

Forse fu proprio questa traduzione dai versi ariosteschi in un nuovo e più potente linguaggio conoscitivo ciò che frullò per il capo a Galilei sul finire del 1609, quando puntò il suo cannocchiale nella tersa notte di Padova verso la luna e vide lo stesso astro descritto quasi un secolo prima dal suo poeta. Egli nella meraviglia della scoperta prese quindi su di sé la missione che un tempo fu del paladino Astolfo: il quale s’era recato sulla luna per ritrovare il senno perduto d’Orlando; Galilei vi andò per riportare sulla terra il senno perduto dall’umanità.

 

Bibliografia

Galileo Galilei, Scritti letterari, a cura di Alberto Chiara, Le Monnier, Firenze 1943.

Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, edizione critica a cura di Ottavio Besomi e Mario Helbing, 2 voll., Editrice Antenore, Padova 1998.

Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, prefazione e note di Lanfranco Caretti, Einaudi, Torino 1966.

Erwin Panofsky, Galileo critico delle arti, Cluva, Venezia 1985.

Michele Camerota, Galileo Galilei e la cultura scientifica nell’età della controriforma, Salerno editrice, Roma 2004.

Michele Catalano, Vita di Ludovico Ariosto, L.S. Olschki, Ginevra 1930-31.

Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1964.

 

 


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