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“Mente e mondo” di John McDowell. La ragione e il suo posto nella natura (7)

“Mente e mondo” di John McDowell. La ragione e il suo posto nella natura (7)

Dic 11

 
Articolo precedente: «Mente e mondo» di John McDowell. La ragione e il suo posto nella natura (6)

 
La visione mcdowelliana di “mondo umano” e “ambiente animale”, non è un unicum nella filosofia; possiamo rintracciare un simile tessuto antropologico riferendoci a Gadamer:

Voglio prendere in prestito da Gadamer un‘interessante descrizione della differenza tra il modo puramente animale di vivere in un ambiente e quello umano di vivere nel mondo. Per i miei scopi, ciò che è rilevante in essa è che mostra in dettaglio come possiamo ammettere ciò che è comune tra esseri umani e bruti, pur mantenendo la differenza che la tesi kantiana ci impone di riconoscere. Nelle creature meramente animali, la capacità di sentire è al servizio di una maniera di vita strutturata esclusivamente dagli imperativi biologici immediati. Questo non implica che la loro vita si riduca alla lotta per la sopravvivenza individuale e della specie. Ci sono imperativi biologici immediati che hanno al massimo una connessione indiretta con la sopravvivenza e la riproduzione: per esempio, l‘istinto del gioco, che si ritrova in molti animali. Ma senza arrivare a una tesi così restrittiva, possiamo riconoscere che la vita puramente animale è organizzata da fini tali che il loro controllo del comportamento dell‘animale in un dato momento è il prodotto immediato di forze biologiche. Un semplice animale non soppesa ragioni per decidere cosa fare. Ora, la tesi di Gadamer è questa: una vita strutturata solo in questo modo non ha luogo nel mondo, ma solo in un ambiente. Per una creatura la cui vita ha solo questo tipo di forma, il contesto in cui vive non può essere altro che una sequenza di problemi e di opportunità, configurati come tali dagli imperativi biologici. [22]

Gadamer, nel suo Verità e metodo, scrive:

Avere un mondo significa rapportarsi al mondo. Il rapportarsi al mondo, però, richiede che si sia staccati da ciò che nel mondo ci viene incontro al punto da poterselo rappresentare come esso è. Questo potere è insieme avere-mondo e avere-linguaggio. Il concetto di mondo viene così a distinguersi da quello di mondo-ambiente [Umwelt] che può applicarsi a qualunque essere esistente nel mondo. [23]

Gli animali si rapportano a un ambiente perché dominati da istinti, vivono la realtà ambientale circostante come “opportunità” o pericolo, ma non come un evento o situazione concettualmente definiti; sembrano, dunque, incapaci di sollevarsi dalla mondanità e dai bisogni, vissuti quasi come imperativi biologici, che li vincolano al soddisfacimento immediato e spontaneo, senza alcuna implicazione razionale, ignorando, inoltre, i rapporti di causalità tra le cose.

Gli uomini si discostano dalla vita animale in quanto soggetti dotati di interiorità e, soprattutto, della categoria spontanea dell’intelletto. Vivono in un mondo, rapportandosi con esso, e non in un ambiente dato. Inoltre, soltanto gli uomini possono scollarsi dai bisogni e necessità meramente biologiche per concretizzare la loro stessa essenza: l’agire e, soprattutto, l’agire libero, consapevole e responsabile.

Lo stesso Marx dirà che una vita umana può ritenersi tale solo se attiva; sappiamo che per il filosofo il lavoro rappresenti la stessa essenza dell’uomo, quell’aliquid che coincide con la sua stessa differenza specifica. Se la vita produttiva è dichiaratamente umana, può spaziare nel mondo intero. Tutto ciò entra in collisione con il concetto di vita animale. Per Gadamer, così come per Marx, la vita puramente ferina consiste nell’avere a che fare con opportunità o pericoli, con bisogni meramente biologici e predicati che l’ambiente descrive e fornisce.

Come sappiamo, però, Marx è quel filosofo che analizza la progressiva e disarmante disumanizzazione dell’uomo in quanto schiavo del salario e alienato dal prodotto del suo stesso lavoro. L’attività dell’uomo, che dovrebbe coincidere con la sua stessa creatività, si è invece ridotta alla condizione animale di esclusivo soddisfacimento di bisogni primari e primitivi. Le vite degli individui, in questo modo, sono soltanto accidentalmente umane.

In Marx, come in Gadamer, il punto non sta nell’esaltazione della vita umana in quanto tale, in quanto “più agevole”; piuttosto nella sua libertà. Se non si può possedere il mondo, acquisendo possibilità comportamentali e concettuali che rendano liberi e attuabili l’agire e l’azione dei sensi, si vivrà il mondo come il posto in cui capita di essere, di vivere – utilizzando una terminologia heideggeriana – inautenticamente anziché vivere una vita autentica, consapevole di essere liberi dal dovere essere utili.

In un modo di vita puramente animale, vivere non è nient‘altro che reagire a una sequenza di bisogni biologici. Quando Gadamer descrive l‘opposto come un «orientamento libero e distaccato», il tema dell‘emancipazione dal bisogno nella genesi del comportamento può suggerire l‘idea della teoreticità. E certamente, se c‘è qualcosa che è assente in ogni concezione sensata del modo di vita puramente animale è l‘atteggiamento contemplativo disinteressato nei confronti del mondo in generale, o di qualcosa di particolare in esso. Ma il punto non è affatto che, per mezzo della spontaneità, le attività della vita vengono a includere non solo l‘agire ma anche il teorizzare. La mancanza di libertà caratteristica della vita puramente animale non è un asservimento al pratico in quanto opposto al teoretico, ma un asservimento agli imperativi biologici immediati. L‘emancipazione nell‘«orientamento libero e distaccato» porta sulla scena l‘azione corporea intenzionale non meno di quanto vi porti l‘attività teoretica. La concezione di soggettività pienamente dispiegata che è qui in gioco non è affatto quella di un simile genere di cosa: non è l‘immagine, a stento intelligibile, di un essere che osserva e pensa, ma non agisce nel mondo che osserva e su cui pensa. La spiegazione di Gadamer sul modo in cui una vita puramente animale, vissuta in un ambiente, differisce da una vita propriamente umana, vissuta nel mondo, coincide in maniera impressionante con parte di ciò che Marx dice nel suo Manoscritto del 1844 sul lavoro alienato. Questa convergenza dovrebbe aiutare a esorcizzare l’idea dell’osservatore passivo. Per Marx, naturalmente, una vita propriamente umana non può essere se non attiva: implica l’approvazione produttiva della «natura, il mondo sensibile esteriore». Se l’attività produttiva è propriamente umana, può in linea di principio spaziare liberamente sul mondo. Questo contrasta con la vita puramente animale. […] Marx lamenta in maniera memorabile la disumanizzazione dell’umanità nella schiavitù del salario. La parte della vita umana che dovrebbe essere quella più espressiva, l’attività produttiva, è ridotta alla condizione di vita puramente animale, di soddisfazione di bisogni puramente biologici. […] Marx dice che l’uomo è l’unico che produce «secondo le leggi della bellezza». [24]

 

Note

[22] J. McDowell, op. cit., pag. 124-125.

[23] H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, pag 503.

[24] J. McDowell, op. cit., pag. 127-129.

 

Bibilografia

  • Aristotele, Etica Nicomachea, Editori Laterza, Roma-Bari 1999;
  • H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983;
  • I. Kant, Critica della ragion pura, Bompiani, Milano 2004;
  • J. McDowell, Mente e Mondo, Einaudi, Torino 1999;
  • Platone, Teeteto, Editori Laterza, Roma-Bari 1999-2002;
  • L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Mondadori, Milano 1999.

 
Articolo iniziale: «Mente e mondo» di John McDowell. La ragione e il suo posto nella natura (1)
 


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