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“Mente e mondo” di John McDowell. La ragione e il suo posto nella natura (3)

“Mente e mondo” di John McDowell. La ragione e il suo posto nella natura (3)

Nov 13

 

Articolo precedente: «Mente e mondo» di John McDowell. La ragione e il suo posto nella natura (2)
Fin dal principio accennavo al fatto che il rapporto tra mente e mondo è un arcano della filosofia sin dai tempi antichi, dunque non posso esimermi dal citare uno dei più grandi pensatori dell’antichità: Platone, che con la speculazione proposta nel Teeteto interseca perfettamente le tematiche mcdowelliane. Abbiamo visto come per McDowell e Kant la sensibilità sia una funzione propria dell’esperire e quindi del conoscere, adesso vedremo con Platone qualcosa di analogo.

Socrate chiede a Teeteto, discepolo di Teodoro, «che cos’è la conoscenza in sé»? [9]. Il passo tra poco riportato, darà prova di una delle ipotesi formulate da Socrate riguardo a che cosa sia conoscenza:

Socr. È verosimile che un uomo così saggio non dica cosa insensata. Seguiamo dunque il suo ragionamento. Non accade talora che, soffiando lo stesso vento, l’uno di noi abbia freddo e l’altro no? E l’uno abbia freddo un poco e l’altro molto?
Teet. Sì certo.
Socr. E allora dimmi, considerandolo in se stesso, quel vento in quel momento, come lo diremmo, freddo o non freddo? O ammetteremmo che per chi è freddo è freddo, per chi no, non è freddo?
Teet. Sì.
Socr. E non anche appare così freddo e non freddo, all’uno e all’altro?
Teet. Sì.
Socr. Ma questo «appare» non è lo stesso che «averne la sensazione»?
Teet. Appunto.
Socr. Dunque rispetto al caldo e a tutti gli esempi di simil genere apparenza e sensazione si equivalgono: quale sente ciascuno, una data cosa, tale è anche codesta cosa per ciacuno.
Teet. Sembra.
Socr. E sensazione, in quanto è conoscenza, si dà sempre di cosa che è; né è soggetta ad errore. [10]

Nel passo trascritto dal dialogo del Teeteto, notiamo come Platone per tramite di Socrate ci dica che, a partire da eventi naturali, i quali danno vita a percezione sensibile – la nostra ricettività, infatti, entra in gioco – si riesca, mediante la ragione, a trasformarli in conoscenza. Una conoscenza che parte dal corpo e dalla sensazione per arrivare alla “percezione” mentale. Vedremo che lo stesso Teeteto, ritenuto ottimo interlocutore da Socrate («Tu hai le doglie, o Teeteto: segno che non sei vuoto, ma pieno» [11]), dirà che:

di codeste cose, o Socrate, noi diremo di conoscere quello solo che realmente vediamo e udiamo: e cioè delle lettere diremo di vedere e di conoscere la forma e il colore, dei suoni diremo di udire e al tempo stesso conoscere l’acutezza e la gravità.

Sappiamo, già dai tempi di Erodoto e Tucidide, come la vista fosse l’organo di senso prediletto per poter affermare di “conoscere” qualcosa. Già la speculazione medico-scientifica attribuiva peculiarità al senso della vista: si tramanda che i Greci credessero che dai bulbi oculari fuoriuscissero fasci di luce che illuminavano le cose e mettevano l’uomo in contatto col mondo. Vediamo nel dettaglio cosa propone Platone:

Socr. Se ci si domandasse «È possibile che uno, il quale sia divenuto un giorno conoscente di qualche cosa e di codesta cosa abbia avuto e tuttavia conservi il ricordo; è possibile che colui, nel momento in cui si ricorda, non conosca ciò appunto di cui si ricorda?» Ma io lo vedo bene, un lungo giro di parole mentre voglio domandare semplicemente questo, se uno che ha imparato una cosa può, ricordandosene, non saperla.
Teet. E com’è possibile, o Socrate? Sarebbe assurdo quello che dici.
Socr. Considera: tu non dici che il vedere è sentire, e che la vista è sensazione?
Teet. Così dico
Socr. Ebbene, chi vide una cosa non è perciò divenuto conoscente della cosa che vide, se stiamo al ragionamento di prima? Dimmi ora, non c’è qualcosa che tu chiami memoria?
Teet. Sì.
Socr. Ed è memoria di qualcosa o di niente?
Teet. Di qualcosa, certo.
Socr. Dunque, di ciò che uno apprese e di ciò di cui ebbe sensazione, di codeste cose è memoria.
Teet. Sì.
Socr. Di quel che vide, se ne ricorda uno qualche volta, non è vero? Se è così, anche se chiude gli occhi se ne ricorda? O facendo così se ne dimentica? Colui che vede, si trova ad essere conoscente di ciò che vede; perché vista, sensazione e conoscenza, siamo d’accordo, che sono la stessa cosa. [12]

Sappiamo che il verbo greco ὁράω, il quale come suo primissimo significato ha “vedere”, è anche un verbo politematico e dunque al perfetto oἶδα assume il significato di “sapere/conoscere”, che può farci comprendere come, nell’antichità, vedere e conoscere costituissero un unicum indissolubile. La stessa celebre frase socratica «So di non sapere» (οἶδα ὅτι ουχ οἶδα) si fonda su questo processo linguistico.

Il punto di connessione tra Teeteto e Mente e mondo sta proprio nel considerare la fondatezza e la necessarietà di entrare in contatto con la realtà, di esperire e formare le basi per la costruzione di edifici concettuali, i quali rappresenteranno la salda connessione tra uomo e mondo, uomo responsabile di ciò che pensa e osserva.

Inoltre, Platone introduce il termine “memoria”: anch’esso fa parte del processo conoscitivo dell’uomo, ne è parte integrante. Vediamo un altro punto di connessione con McDowell e la sua opera, che partono dall’ipotesi di Evans secondo cui la percezione è anzitutto un accadimento che accomuna l’uomo agli animali, riconoscendo che non vi è una fondazione razionale delle nostre credenze, ma solo un nesso causale che non si può giustificare o, al massimo, un fatto compiuto. McDowell, a partire dalle esperienze di colore proposte da Evans, si propone di far comprendere come l’esperienza sensibile sia legata e si fondi sul giudizio razionale. Il nostro vocabolario cromatico abbraccia un certo numero di sfumature, ma noi ne riusciamo a captare sicuramente molte di più.

Quando Evans suggerisce che il nostro repertorio di concetti di colore è più grossolano della nostra abilità di discriminare le sfumature, e dunque è incapace di catturare i particolari dell’esperienza di colore, sta pensando al tipo di capacità concettuali associate a espressioni per colori come «rosso», «verde», o «terra di Siena o bruciato». Tali parole e sintagmi esprimono concetti di fasce dello spettro visibile, mentre Evans pensa che l’esperienza del colore può presentare proprietà corrispondenti a qualcosa di simile a linee dello spettro, senza ampiezza discernibile. [13]

McDowell ci invita a mettere da parte la concezione secondo cui il sistema dei concetti cromatici coincide con il lessico dei nomi e delle sfumature di colori di cui disponiamo. Se ci muoviamo entro questo terreno, ci accorgiamo che il linguaggio umano, essendo limitato, non potrà mai abbracciare la vastità articolata delle nostre percezioni, né tantomeno esprimerla a parole.

Ma, a questo punto, l’autore ci dice che, se non abbiamo concetti che esprimano un dato colore, possiamo sempre crearli: per farlo dobbiamo solo ricorrere alla nostra capacità di vedere e di pensare ciò che vediamo. Non abbiamo una parola per indicare, tra due oggetti o più, il nome del colore che determina le diverse sfumature cromatiche che intercorrono tra essi. Resta però il fatto che sappiamo visivamente distinguerle e dunque fissiamo queste variabili nella nostra mente, attraverso la percezione sensoriale. A questo punto non potremo più dire che ci sia un problema di finezza di grana che andrebbe ad inficiare la percezione: per ogni indeterminatezza sensibile possiamo forgiare un termine nuovo che la determini e la significhi; tutto ciò a partire dall’immagine fissata nella nostra mente dalla memoria.

Per McDowell è necessario chiamare in causa la memoria, poiché solo essa può permettere di inferire dal paradigma concettuale, a cui si riferisce, un’immagine esplicativa di riconoscimento. La memoria, inoltre, introduce il concetto di “ripetibilità” e quindi dona alla percezione una prassi linguistica che, oltre alla fisicità dell’indicare un oggetto – per esempio – porta un contenuto concettuale.

 

Note

[9] Platone, Teeteto, Editori Laterza, Roma-Bari 1999-2002, pag. 15; 146 e6.

[10] Platone, op. cit., pag. 29; 152 b1-c6.

[11] Platone, op. cit., pag. 21; 148 e6-7.

[12] Platone, op. cit., pag 63; 163 d – 164 a7.

[13] J. McDowell, op. cit., pag. 60.

 
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