Emanazione e Trinità. Analisi dell’esegesi eckhartiana di Genesi 1.1 (2)
Emanazione e Trinità. Analisi dell’esegesi eckhartiana di Genesi 1.1 (2)
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2. Coordinate generali
Innanzitutto una premessa generale sui temi che andremo a rinvenire, scandagliati da Eckhart nella sua esegesi, cioè emanazione e Trinità. Partirò dal secondo, per le seguenti ragioni: uno, ho intenzione di lasciare la filosofia per ultima e, due, spiegando il secondo tema segue necessariamente che debba esserci un focus sul primo, almeno se guardiamo alla storia. Il dogma trinitario, precisato nel Concilio di Nicea del 325 e poi nel Credo niceno-costantinopolitano, afferma che unica è la sostanza di Dio, ma comune a tre persone: Dio Padre, Gesù Cristo e lo Spirito Santo. Tre persone, una sola e medesima la sostanza. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica [1] viene specificato:
Il mistero della Santissima Trinità è il mistero centrale della fede e della vita cristiana. È il mistero di Dio in se stesso
e ancora:
La Trinità è un mistero della fede in senso stretto, uno dei “misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se non sono divinamente rivelati” [2].
Per la formulazione di questo dogma, la Chiesa cattolica ha dovuto ricorrere a una terminologia mutuata dal lessico filosofico, per esempio utilizzando la nozione di “sostanza” per designare l’unità dell’Essere divino, la nozione di “persona” o “ipostasi” per designare di volta in volta il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, e la nozione di “relazione” per designare il rapporto che viene a crearsi tra le tre Persone in riferimento l’una all’altra. Già nel termine “ipostasi” possiamo notare un’ascendenza di tipo plotiniano (non a caso è anche il riferimento più importante per la dottrina dell’emanazione neoplatonica) ripresa, tra gli altri, da Agostino, che però va oltre e distingue tra esse, nosse e velle dell’uomo, il quale, creato ad immagine e somiglianza divina [3], rispecchia i medesimi tre aspetti appartenenti alla Trinità: Padre (Esse), Figlio (nosse), Spirito Santo (velle). Ora, come era anche mio intento, dallo svisceramento del concetto del dogma trinitario si è giunti a toccare anche il tema dell’emanazione, la risposta della filosofia neoplatonica alla concezione trinitaria cristiana, su cui ora farò un altrettanto breve, ma necessario, excursus.
Plotino [4], padre del neoplatonismo, elabora una dottrina secondo cui occorre ammettere un Uno, al di sopra di un Intelletto, di cui espressioni trascendenti sono le Idee, dalle quali discende l’Anima del Mondo, principio vitale del mondo stesso. Uno, Intelletto e Anima sono ipostasi, ossia realtà sussistenti. Dall’Uno vengono generati gli stati inferiori, e l’Intelletto, seconda ipostasi, viene da lui emanato, potremmo dire, per auto-contemplazione. Propriamente però non si tratta di un’auto-contemplazione ma di una sorta di fuoriuscita dell’Uno da sé, un necessario ed eterno traboccare dell’Uno che emana l’Intelletto. L’Anima, infine, terza ipostasi, procede dall’Intelletto. Punto più basso dell’emanazione dall’Uno è la materia, quel molteplice che, per il filosofo, va fuggito. «Fuggi tutte le cose!» dice il motto plotiniano, che in un certo qual modo potrebbe anche rispecchiare la dottrina eckhartiana del Grunt, se la si può paragonare a una ricerca dell’Uno in sé, alla ricerca di un luogo privilegiato, l’anima umana, nel quale l’Uno possa darsi. Ma senza costringere a viva forza Eckhart a ricondurre il luogo di bacio tra Dio e l’uomo a una concezione plotiniana, o semplicemente neoplatonica (e mi riferisco principalmente a Proclo [5], che tuttavia critica Plotino, soprattutto per quanto riguarda la dottrina dell’anima indiscesa) vediamo cosa dice nello specifico Plotino al riguardo:
Allorché il nostro discorso verte sulle realtà eterne, non intendiamo certo parlare di nascita nel tempo. Quando attribuiamo ad esse, certamente a parole, la nascita, è per assegnare ad esse una causa e un ordine. In realtà, dobbiamo riconoscere che ciò che nasce di lassù, nasce senza che Egli si sia mosso, perché, se qualcosa nascesse solo dopo un suo movimento, il generato sarebbe terzo dopo di Lui e il suo movimento, e non secondo. È dunque necessario, se c’è un secondo dopo di Lui, che esso esista senza che Egli si muova, né che lo desideri, né che lo voglia, né che si compia un movimento qualsiasi. In che maniera dunque, e che cosa dobbiamo pensare del Primo, se Egli resta immobile? Un irradiamento che si diffonde da Lui, da Lui che resta immobile, com’è nel Sole la luce che gli splende tutt’intorno; un irradiamento che si rinnova eternamente, mentre Egli resta immobile. Tutti gli esseri, finché sussistono, producono necessariamente dal fondo della loro essenza, intorno a sé e fuori di sé, una certa esistenza, congiunta alla loro attuale virtù, che è come una immagine degli archetipi dai quali è nata: il fuoco effonde da sé il suo calore, e la neve non conserva il freddo soltanto dentro di sé; un’ottima prova di ciò che stiamo dicendo la danno le sostanze odorose, dalle quali, finché sono efficienti, deriva qualcosa tutto intorno, di cui gode chi gli sta vicino.
Tutti gli esseri, giunti a maturità, generano: ciò che è eternamente perfetto genera sempre e in eterno; ma genera qualcosa di inferiore a sé. E che dobbiamo dire del Perfettissimo? Nulla da Lui può nascere se non ciò che è il più grande dopo di Lui; ma il più grande dopo di Lui, e il secondo, è l’Intelligenza: e l’Intelligenza contempla l’Uno e ha bisogno soltanto di Lui, mentre l’Uno non ha bisogno dell’Intelligenza. E poi: ciò che viene generato da chi è superiore all’Intelligenza è Intelligenza, e l’Intelligenza è superiore a tutte le cose, poiché le altre cose vengono dopo di lei; e l’Anima, a sua volta, è, diciamo così, il pensiero e l’atto dell’Intelligenza, come l’Intelligenza è il pensiero e l’atto dell’Uno.
Il pensiero dell’Anima, però, in quanto è immagine dell’Intelligenza, è alquanto oscuro e deve perciò guardare all’Intelligenza, come l’Intelligenza, per essere Intelligenza, deve guardare all’Uno. E l’Intelligenza vede l’Uno senza esserne separata, perché è subito dopo l’Uno e non c’è nulla fra lei e l’Uno, come non c’è nulla fra l’Intelligenza e l’Anima. Ogni cosa, infatti, tende al suo genitore e lo ama, soprattutto quando genitore e generato sono soli; ma quando il genitore è anche il sommo Bene, il generato è necessariamente unito a Lui sì da esserne separato soltanto per alterità [6].
Anche se non riconduciamo a viva forza la dottrina del Grunt a Plotino, è comunque necessario almeno accennare in questa sede al debito neoplatonico che Eckhart ha contratto. Dico ciò in quanto per il magister domenicano Dio è soprattutto l’Uno [7] e pensiero, dal quale scaturisce l’essere. È quest’ultimo tema, la coincidenza tra essere e pensiero in Dio, molto affrontato dall’Ordine domenicano, e dibattuto in particolar modo da Alberto Magno e Tommaso, appartenenti entrambi alla cosiddetta “Scuola domenicana tedesca” e tra le principali fonti di Eckhart. Come Alberto e Tommaso prima di lui, Eckhart, ricordiamo, ha avuto la cattedra di magister theologiae a Parigi riservata ai domenicani stranieri delle province e, come Tommaso, è andato a Parigi ad insegnare teologia per ben due volte. Sia Tommaso che Alberto avevano risposto affermativamente alla Quaestio. Eckhart, perciò, la affronta anch’egli (Quaestio I, nelle Quaestiones Parisienses [8]) andando però a sconfinare in qualcosa di ancora diverso:
Affermo innanzitutto che il pensare è più elevato dell’essere ed è di un’altra condizione. Infatti tutti diciamo che l’opera della natura è opera di un’intelligenza. Perciò tutto quel che muove è intelligente o si riporta a un essere intelligente, dal quale viene diretto nel suo movimento. Perciò le cose che hanno intelletto sono più perfette di quelle che non lo hanno […] Dunque il pensare è più elevato dell’essere. Nondimeno alcuni dicono che essere, vivere, pensare possono esser considerati in un duplice modo: nel primo in se stessi, e in questo caso l’essere è il primo, il secondo il vivere, il terzo il conoscere; oppure in rapporto a chi ne partecipa, e allora il primo è pensare, il secondo il vivere, il terzo l’essere. Io invece penso proprio il contrario. Infatti “in principio era il Verbo” (Gv 1, 1), che riguarda completamente l’intelletto, per cui il pensare occupa il primo posto nella gerarchia delle perfezioni, e poi viene l’ente o l’essere. In secondo luogo sostengo che il pensare e ciò che riguarda l’intelletto siano di un’altra condizione rispetto a quella dell’essere stesso. Nel terzo libro della Metafisica si dice che nelle matematiche non c’è il fine né il bene, giacché ente e bene sono lo stesso. Nel libro sesto della Metafisica, si dice anche che bene e male sono nelle cose, mentre vero e falso sono nell’anima. Perciò in quell’opera si dice che il vero, che è nell’anima, non è un ente, come non è ente l’accidentale, perché non ha una causa, come lì si afferma. Dunque l’ente nell’anima, in quanto è nell’anima, non è un ente, non ha valore di ente e così passa nell’opposto dell’essere. Allo stesso modo l’immagine, in quanto tale, è un non-ente, giacché, quanto più consideri la sua entità, tanto più togli dalla conoscenza della cosa, di cui è immagine. Similmente, come ho detto altre volte, se la specie che è nell’anima avesse valore di ente, tramite essa non si conoscerebbe la realtà che rappresenta. Infatti, se avesse valore di ente, porterebbe alla conoscenza di sé e ci allontanerebbe dalla conoscenza della realtà che rappresenta […] In terzo luogo sostengo che […] la nostra scienza differisce da quella di Dio, perché la scienza di Dio è causa delle cose, mentre la nostra è causata da quelle. Perciò, mentre la nostra scienza è sottoposta all’ente da cui è causata, anche l’ente è sottoposto alla scienza di Dio; di conseguenza tutto quel che è in Dio è al di sopra dell’essere stesso ed è tutto pensiero. Da ciò dimostro che in Dio non c’è l’ente né l’essere […] Così affermo anche che a Dio non conviene l’essere né che egli è, ma è qualcosa di più alto dell’ente […] Questo ha voluto dire quando disse: “Io sono quello che sono” (Es 3, 14) [9].
In realtà, per Alain de Libera, l’Uno eckhartiano non è quello neoplatonico, bensì ha il sigillo aristotelico, in quanto, secondo la sua interpretazione (di cui forse possiamo rinvenire le basi anche nel contenuto della Quaestio qui sopra riportata), Eckhart concepisce l’Uno più come essere aristotelico, che non come l’Uno procliano, infinitamente al di là e al di sopra dell’essere [10]. Ma, rispetto a questo genere di lettura, che non condivido, viene da Alessandra Beccarisi sottolineato che:
In realtà, l’Uno di cui parla Eckhart di aristotelico ha soltanto la convertibilità [con l’essere, N.d.R.], ma per il resto può essere ascritto alla tradizione neoplatonica […] fondativo e causativo rispetto al molteplice, caratteristiche che sicuramente non aveva l’Uno di Aristotele [11].
Che l’Uno eckhartiano, Dio, sia più simile all’Uno procliano di quanto non sembri, viene dimostrato dal fatto che, per Eckhart, se noi giungiamo all’essere giungiamo solo alla prima delle cose create, non a Dio che, in quanto intelletto, è increato e principio dell’essere [12]. C’è da dire, poi, che in molti passi [13] Eckhart ricorre all’auctoritas del Liber de Causis procliano, che mette in atto una sorta di commistione fra una causalità creazionista e una emanazionista neoplatonica e fino al 1268 era stato considerato opera di Aristotele. Questo per dire che anche l’interpretazione di Alain de Libera ha un suo fondamento, seppur opinabile.
Note
[1] Disponibile anche a questo link: http://www.vatican.va/archive/ITA0014/_INDEX.HTM.
[2] Concilio Vaticano I, Cost. dogm. Dei Filius, c. 4: DS 3015, cit. nel Catechismo della Chiesa Cattolica.
[3] Vedi Genesi 1, 26.
[4] Licopoli, 203/205-Minturno, 270, padre del neoplatonismo.
[5] Costantinopoli, 412-Atene, 485, ha sistematizzato il neoplatonismo.
[6] Plotino, Enneadi, V, 1,6, Rusconi, Milano 1992, pp. 803-805.
[7] Cfr. Manuale di Filosofia Medievale on-line, a cura dell’Università di Siena, Facoltà di Lettere e Filosofia, disponibile alla voce “Eckhart” a questo link: http://www3.unisi.it/ricerca/prog/fil-med-online/autori/htm/eckhart.htm.
[8] 1302-1303, nel periodo in cui è magister actu regens in teologia, a Parigi per la prima volta.
[9] Traduzione italiana di M. Vannini, in: Meister Eckhart, Antologia, La Nuova Italia, Firenze 1992, p. 20.
[10] Cfr. Alain de Libera, Uno, unione e unità in Meister Eckhart: dall’Uno trascendentale all’Uno trascendente, in V. Melchiorre (a cura di), L’Uno e i molti, Vita e Pensiero, Milano 1990, pp. 249-82.
[11] Alessandra Beccarisi, Eckhart, Carocci ed., Roma 2012, p. 57.
[12] Cfr. Alessandra Beccarisi, cit., pp. 69-71.
[13] Ad esempio nella già citate Quaestiones Parisienses.
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