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Riscoprire le Humanae Litterae. Il senso dell’umanismo in Heidegger e Sartre (2)

Riscoprire le Humanae Litterae. Il senso dell’umanismo in Heidegger e Sartre (2)

Mag 03

 

Articolo precedente: Riscoprire le Humanae Litterae. Il senso dell’umanismo in Heidegger e Sartre (1)

 

Di abbandono e di contingenza dell’esistenza umana parla, a più riprese, anche Jean-Paul Sartre, il vero destinatario e obiettivo polemico della Lettera sull’umanismo di Heidegger (sebbene questa sia formalmente indirizzata a Jean Beaufret). Se, da un lato, egli sembra ridurre l’idea heideggeriana di abbandono a una semplice conseguenza della non esistenza di Dio, dall’altro aggiunge che per l’uomo vi è la necessità di affidarsi totalmente a ciò che egli stesso ha progettato di essere e di fare. Alla constatazione della condizione di angoscia e di solitudine in cui versa la vita dell’uomo, Sartre aggiunge le nozioni fondamentali di libertà e responsabilità:

Siamo soli, senza scuse. Situazione che mi pare di poter caratterizzare dicendo che l’uomo è condannato a essere libero. Condannato perché non si è creato da solo, e ciò non di meno libero perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto quanto fa [1].

Se l’uomo non si è creato di per sé e si ritrova gettato nel mondo, allora ne consegue che il suo esistere è ben lungi dall’essere necessario e che la sola, erronea, credenza in questa necessità basta a fare dell’individuo un «di troppo». Pensiamo, immediatamente, al protagonista di uno dei più celebri romanzi di Sartre, La nausea: Antoine Roquentin realizza l’imbarazzo e l’inquietudine del vivere e, da questa consapevolezza, prende le mosse per polemizzare con quei personaggi – i porcaccioni – che ritengono la propria posizione nel mondo qualcosa di inevitabile. La realtà è ben diversa: la massa degli esistenti è segnata da una vacuità e da una fragilità di fondo, che impediscono ad essa di agire in previsione di uno scopo ben preciso.

L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è esser lì, semplicemente; gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare, ma non li si può mai dedurre. […] Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutti si mette a fluttuare […] ecco la Nausea, ecco quello che i Porcaccioni tentano di nascondersi con il loro concetto di diritto [diritto di esistere]. Ma che meschina menzogna: nessuno ha diritto; essi sono completamente gratuiti, come gli altri uomini, non arrivano a sentirsi di troppo. E nel loro intimo, segretamente, sono di troppo, cioè amorfi e vacui; tristi [2].

Da riflessioni di questo tipo – che possiamo ritrovare nei lavori successivi al romanzo – passa l’idea che la contingenza dell’esistenza umana possa essere intesa come un fattore decisivo per raggiungere quell’obiettivo che si pone anche Heidegger, seppur sfruttando modalità e attraversando vie leggermente differenti: proporre una rivalutazione semantica della parola “umanismo”.

Più volte, Sartre cerca di porre il suo pensiero al riparo dagli attacchi provenienti da più direzioni, specialmente dall’ortodossia marxista e da quella cattolica, e, proprio per questo motivo, utilizza il termine “umanismo” come attributo fondamentale del suo esistenzialismo ateo. Tuttavia, per Sartre non si tratta semplicemente di porre al centro, di nuovo, l’uomo e la soggettività; egli non vuole riproporre quel “culto dell’umanità” che possiamo trovare nel positivismo e – aggiunge Sartre – nell’umanismo chiuso in se stesso proposto dal fascismo.

E proprio per questo motivo, egli dedica un personale rinnovamento al senso del termine, distinguendo un significato da abbandonare (un significato che porta direttamente al culto dell’umanità, cui abbiamo appena accennato) e uno da seguire. Innanzitutto, Sartre intende confutare la tesi secondo cui l’umanismo sarebbe solamente «una dottrina che considera l’uomo come fine e come valore supremo». Si tratta di una visione che, per un esistenzialista, sfiora l’assurdo, dal momento che l’uomo, semplicemente, non può dare giudizi su se stesso, ancor meno se si tratta di un giudizio tramite cui gli vengono conferite una finalità e una posizione privilegiata nel mondo. Egli, a questo proposito, afferma:

L’esistenzialismo ci dispensa da ogni giudizio di questo genere; l’esistenzialista non prenderà mai l’uomo come fine, perché l’uomo è sempre da fare [3].

Proprio partendo dall’idea che l’uomo consista essenzialmente in ciò che progetta [4] di essere – idea che costituisce una buona parte del sistema teorico sartriano – egli introduce quel senso da privilegiare nell’ottica di una ri-semantizzazione del termine umanismo:

Ma l’umanismo ha un altro senso ed è, in sostanza, questo: l’uomo è costantemente fuori di se stesso; solo progettandosi e perdendosi fuori di sé egli fa esistere l’uomo e, d’altra parte, solo perseguendo fini trascendenti, egli può esistere; l’uomo, essendo questo superamento e non cogliendo gli oggetti che in relazione a questo superamento, è al cuore, al centro di questo superamento. Non c’è altro universo che un universo umano, l’universo della soggettività umana. Questa connessione fra la trascendenza come costituiva dell’uomo – non nel senso che si dà alla parola quando si dice che Dio è trascendente, ma nel senso dell’oltrepassamento – e la soggettività – nel senso che l’uomo non è chiuso in se stesso, ma sempre presente in un universo umano – è quello che noi chiamiamo umanismo esistenzialista [5].

La riflessione di Sartre apre uno scenario teorico che vede l’uomo al centro dell’universo dell’humanitas, la cui caratteristica principale è quella di essere costituito da una rete di relazioni intersoggettive, al cui interno il senso profondo dell’esistenza umana si ricava proprio dall’instaurarsi di una serie di rapporti con l’altro.

Nel complesso, con le riflessioni di Sartre e di Heidegger, ci troviamo di fronte a un impegno comune, pur nella diversità delle conclusioni: ridare vitalità a una parola abbandonata a un senso antiquato e obsoleto, con l’obiettivo di offrire nuove opportunità per il pensiero, per una conoscenza in grado di evitare i pericoli della tecnica e consapevole delle proprie radici.

 

Note:

[1] J.P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, 1945, Mursia Editore, 2007, Milano, p. 41.

[2] J.P. Sartre, La Nausea, 1938, Einaudi, 2011, Torino, p. 177.

[3] J.P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, 1945, Mursia Editore, 2007, Milano, p. 84.

[4] A proposito di un’idea dell’uomo inteso come progetto, interviene anche Heidegger, che, nella lettera del 1946, si discosta da Sartre, pur riprendendone parzialmente la terminologia, e inserisce questa progettualità dell’uomo in funzione della sua teoria del Dasein: «Il progetto del resto, è essenzialmente un progetto gettato. Nel progettare, chi getta non è l’uomo, ma l’essere stesso, il quale destina l’uomo nell’e-sistenza dell’esser-ci come sua essenza. Questo destino avviene come radura dell’essere, e come tale radura esso è. Essa concede la vicinanza all’essere. In questa vicinanza, nella radura del “ci”, l’uomo abita come colui che e-siste, senza essere già oggi capace di esperire espressamente questa dimora e di assumerla» (pp. 66-67).

[5] J.P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia Editore, 2007, Milano, pp. 85-86.

 

Bibliografia di riferimento

  • Sartre J.P., L’essere e il nulla, 1943, Il Saggiatore, 1997, Milano;
  • Sartre J.P., L’esistenzialismo è un umanismo, 1945, Mursia, 2007, Milano;
  • Sartre J.P., La nausea, 1938, Einaudi, 2011, Torino.

 

 


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