Note su Chora di Jacques Derrida
Note su Chora di Jacques Derrida
Feb 02
Oggi pubblichiamo il primo articolo di Alessandro Guardascione. Laureando magistrale con una tesi su Jacques Derrida, studia la filosofia francese del Novecento e s’interessa di estetica, fenomenologia, decostruzione, scienze cognitive e del rapporto tra le tradizioni analitica e continentale. Alessandro inizia la sua collaborazione indagando l’interpretazione derridiana della chōra platonica. Ringraziandolo per il contributo, gli diamo il benvenuto tra i collaboratori del blog.
Chōra, innominabile.
Derrida affronta più volte la tematica della chōra platonica [1] ma l’unico scritto interamente dedicato alla questione è Chōra [2]. Attraverso questo lungo saggio, si tratterà di comprendere perché chōra segna i limiti della nominazione situandosi piuttosto come innominabile del discorso. Anzitutto, il nome “chōra” compare nella cosmogonia che si narra del Timeo allorquando Platone, nella parte centrale del dialogo, aggiunge alle due specie che compongono il cosmo, e cioè l’intellegibile, (il modello, il padre), e il sensibile, (l’immagine del modello, il figlio) un terzo genere, appunto chōra. Chōra quindi sfida la distinzione oppositiva di intellegibile-sensibile che caratterizza il pensiero metafisico, e facendo ciò sfida inoltre il principio logico del tertium non datur. Infatti non è né sensibile né intellegibile, ma appartiene ad un «terzo genere» (triton ghenos, 48e, 52a) [3], è quindi il terzo. In questo senso Derrida parla di una logica [4] non binaria, non classica, che è necessario adottare allorché si voglia rendere giustizia della concettualità di chōra. Chōra non si lascia comprendere in una logica dell’esclusione, del né né, e nemmeno in una dell’inclusione, dell’et et. Completamente irriducibile al genere dell’intellegibile e a quello del sensibile, genera quell’”imbarazzo” di cui è vittima Platone che tenta invano di nominarla attraverso una fluttuazione fra i due generi cercando di mostrarne la differenza. Chōra è estranea all’ordine del paradigma e all’ordine del mimema, è «invisibile», ma «partecipa» aporeticamente all’intellegibile. Il discorso su chōra discenderebbe quindi da un logos bastardo, corrotto, ed infatti il luogo che Platone indica per la sua annunciazione è il sogno (52b). Per questo motivo Derrida non fa che misurare la legittimità dell’opposizione logos/mythos in un discorso sopra chōra. Tale discorso non fa che evadere un’impostazione categoriale, chōra, piuttosto, come “luogo” (una delle traduzioni di chōra) istituendo, e cioè dando luogo all’opposizione fra logos e mythos, si situa al di là dell’opposizione stessa. L’innominabilità di chōra è data proprio dalla sua posizione nei confronti e del logos e del mythos. L’oscillazione in cui si ritrova il nome di chōra, non sarà allora soltanto quella di intellegibile e sensibile, ma anche quella di logos e mythos.
Introduciamo ora la discussione relativa alle interpretazioni della chōra platonica. L’ermeneutica e la retorica che hanno tentato di tradurre chōra, come rileva Derrida, non hanno interrogato gli stessi strumenti di cui si servivano nell’intercettazione del significato del terzo genere. A Derrida interessa comprendere il limite per il quale questi strumenti retorici divengono operatori e non tematici. Strumenti come metafore e immagini, appartenendo al dominio dell’opposizione sensibile/intellegibile, non avrebbero potuto rendere conto del significato di chōra come terzo genere, eppure Platone nel Timeo presenta numerose traduzioni. Seppure triton ghenos, chōra sarebbe determinata, per esempio, in quanto a differenza sessuale, come “madre”, “nutrice”. Annullata allora la valenza metaforica del discorso su chōra, Derrida passa in rassegna le svariate traduzioni della chōra fatte da Platone: si dovrebbe parlare propriamente di chōra come “madre”, “nutrice”, “ricettacolo”, “porta-impronta”, “oro”. Eppure, visto che chōra non può essere tradotta da tutta una metaforica, allo stesso tempo chōra stessa eccederebbe anche il discorso che tenta di designarla per mezzo del suo senso proprio. Se non vi può essere traduzione metaforica di chōra non può esservi neppure un senso proprio. Quindi il “luogo”, (appunto una traduzione “non sinonimica” di chōra) che pone le opposizioni, non sarebbe esso stesso posto in opposizione, come, secondo la logica del fondamento, il fondato è di un genere od ordine differente rispetto a ciò che fonda. In tal modo chōra, come scrive Derrida, «non apparterrebbe più all’orizzonte del senso, né del senso come senso dell’essere» [5]. Questo non significa che il discorso su chōra sia un non-senso, infatti se lo fosse, sarebbe pur sempre un discorso preso dall’opposizione senso/non-senso. Non-metaforico eppure “metaforico”, Derrida lascia il nome di chōra «al riparo da qualsiasi traduzione» [6], che già avviene nella stessa lingua greca, internamente, con Platone stesso nel Timeo, ed esternamente, dalla lingua greca alla francese, e qui all’italiana. Ogni traduzione viene come sospesa e presa nella sua sospensione, nessuna è sicura, l’atomo di senso di chōra e la sua tessitura tropica si fanno prendere dalla nominazione con resistenze. Non si discuterà allora né della parola giusta per chōra né di chōra, essa stessa, al di là dei «giri e le circonlocuzioni della retorica» [7]. Infatti già il nome “chōra”, è un nome “ingiusto” per essa stessa. Eppure non si può sfuggire alla tropica utilizzata nell’interpretazione di chōra e all’anacronismo teleologico che cerca di determinarla secondo gli strumenti della retorica. Derrida esamina proprio la tropica e l’anacronismo, e pone chōra «al di là del suo nome» come anacronia dell’essere perché precede la realtà stessa dell’essere superando la distinzione intellegibile-sensibile. Ogni interpretazione opera un arricchimento della significazione di chōra, cercando di dare una forma a ciò che si sottrae alla forma. La lettura di Derrida della chōra platonica sarà una rilettura del dispositivo concettuale ed ermeneutico del discorso di Platone; doppiare il dialogo platonico servendosi degli schemata, cioè «le forme che informano» [8] la chōra senza però appartenere alla chōra «essa stessa». Chōra, quindi, non si lascerebbe determinare né esaurire, e tuttavia la chōra non ne fornisce il «supporto d’un sostrato»: chōra non sarebbe né il “soggetto” né il subjectile. La chōra si comprenderebbe rispetto alla sua inaccessibilità, nell’impossibilità della sua nominazione, amorfa e virginea. La questione dell’essenza di chōra è affrontata allorché vengono presi in considerazioni i nomi di dechomenon e di chōra, (ricettacolo e luogo) che non designerebbero né un eidos né un’immagine di un eidos poiché l’essere della chōra, – se è ammesso questa espressione – è piuttosto ciò che non è, «questo-non-essere» che «non può che annunciarsi» secondo le modalità antropomorfe dell’attivo e del passivo, del dare e del ricevere. Eppure, chōra non sarebbe da pensare in quest’ordine antropomorfo, oppositivo, non sarebbe pensabile nell’ordine della cosa, non c’è infatti la chōra, – «ciò che c’è là non è» – il discorso, in altre parole, non si lascia ridurre al “logos ontologico” del Timeo, articolato sul valore della presenza e sull’opposizione sensibile/intellegibile.
La significazione del nome chōra, per esservi, deve fondarsi su di un essente determinato. Ora dire “la chōra” o “chōra” significherebbe sempre dire un nome. Un nome che sarebbe un nome proprio. Ma non vi è un essente determinato che può far da referente a chora, essa stessa, se non il gioco delle figure tropiche del Timeo che tentano di descriverla. Ed infatti, “chōra” sarebbe un nome di donna in quanto Platone comparerebbe la chōra ad una madre o ad una nutrice; ciò si accorderebbe anche con il valore di ricettacolo, altra traduzione che appare nel dialogo platonico. La serie concettuale delle traduzioni, infatti, implicherebbe, per mezzo della concettualità della donna, una qualche ricettività intrinseca. Ma vi è in questo un antropomorfismo che ricondurrebbe ciò che è il terzo genere al di qua dell’opposizione intellegibile/sensibile, che ricondurrebbe chora al di qua della differenza uomo/donna. Piuttosto, il non-essere di chōra non dovrebbe avere alcun referente, per questo Derrida scrive: «C’è chōra, ma la chōra non esiste» [9]. La femminilità della madre non potrà esserle propriamente attribuita, non c’è dimensione del proprio per chōra. In ciò chōra si «lascia prestare le proprietà (di ciò) che riceve. Non deve ricevere, deve non ricevere ciò che riceve» [10], qui Derrida riconosce che a chōra si è attribuito uno nome soltanto per «chiamarla allo stesso modo». Possiamo scrivere quindi e servirci di una generica X per indicare chōra. Chōra non sarebbe «nient’altro che la somma o il processo di quanto giunge ad inscriversi «su» di lei, circa il suo soggetto, persino il suo soggetto, ma non è il soggetto o il supporto presente di tutte queste interpretazioni, sebbene, nondimeno, non si riduce ad esse. Semplicemente questo eccesso non è niente, niente che sia e si dica ontologicamente.» [11]. A causa dell’impossibilità di far fronte alla chōra platonica attraverso un discorso logico, Derrida segue la strada della logica del mitico di Vernant. Prima di ciò il Nostro indaga l’opposizione logos/mythos per mezzo della dialettica speculativa hegeliana. Il mitema viene superato nel filosofema, la filosofia diviene «seria» solo per mezzo della sicura via della logica: «disvelamento» del concetto assopito nel «sonno mitologico». Il ricorso al mitema è solamente dettato dall’«impotenza» (Unvermögen) all’espressione del pensiero puro, il mito può essere al massimo una forma esteriore di presentazione del pensiero puro, qui vengono letti dei passi da Symbolik und Mytologie der Alten Völker, besonders der Griechen e Der Wert Platons liegt aber nicht in den Mythen. La distinzione fra serio e non-serio ripercorsa da Hegel è tracciata dietro sino ad Aristotele, il preservatore della serietà filosofica. Per Hegel, sulla scorta di Aristotele, il mito non è degno di occupazione. Derrida individua un duplice rapporto di Hegel col mito, è sia segno di impotenza filosofica di espressione sia allo stesso tempo anche potenza “dialettica e soprattutto didattica”, due caratteristiche che vengono riconosciute in Platone stesso, e però comunque resta questo: che il mito, «come forma discorsiva» è subordinato al contenuto del concetto. Questa disamina sul valore del mito in Hegel permette a Derrida di mostrare che il discorso su chōra, in quanto non si riduce al logos, non può ridursi nemmeno al mito se questo è pensato come subordinato del logos stesso. Quindi, chora, non avendo senso o essenza non può essere iscritta nel dominio di un contenuto concettuale che renda possibile un tema filosofico.
Rilevamento di chōra nel Timeo.
Troviamo in Chōra la lettura della cosmogonia enciclopedica del Timeo che offre Derrida. Questa ci servirà per comprendere come la “natura” di chōra permei il dialogo platonico e si confonda con i nomi che cercano di tradurla. Il progetto platonico di un’ontologia generale che si propone di esaurire il discorso sugli enti disponibili per mezzo della bipartizione del genere sensibile, visibile, e di quello intellegibile, invisibile, è ridiscusso allorquando viene introdotto il discorso su chōra. Chōra introduce “uno spazio apparentemente vuoto” occupato da ciò che non è né sensibile né intellegibile, apre cioè a quello che Derrida chiama un abisso o chiasmo; scrive infatti il Nostro:
Ciò che essa ricoprirebbe allora, chiudendo la bocca spalancata del discorso quasi interdetto su chōra, non sarebbe forse soltanto l’abisso fra l’intellegibile ed il sensibile, tra l’essere ed il niente, l’essere ed il meno essere, né persino forse fra l’essere e l’essente, né persino ancora tra logos e mythos, ma tra tutte queste coppie e un altro che non sarebbe persino più il loro altro. [12]
L’alterità radicale di chōra immette uno scarto abissale fra i due generi metafisici, come fra l’opposizione logos/mythos. Nominando un altro irriducibile, appunto il terzo genere, si indicherebbe piuttosto un luogo in «cui tutto verrebbe nello stesso tempo a prendere posizione ed a riflettersi» [13]. Il discorso su chōra ricalcherebbe secondo Derrida la stessa “natura” di chōra, sarebbe regolato da una myse en abyme, un differire ed un regresso che descriverebbe tutta la complessità e la difficoltà di un discorso su chōra stessa. La lettura che fa Derrida del Timeo non è sopra l’intenzione di Platone e neppure al di là della sua intenzione, il Nostro intende piuttosto seguire i suggerimenti delle analogie nel dialogo. La logica rinvenuta nel dialogo permetterebbe il tema della myse en abyme su chōra come dialogo in quanto chōra presenta un carattere abissale. Nella rilevazione analogica che fa Derrida indichiamo alcuni punti: 1) chōra, come «condizione del sito» – nel senso di luogo – non ha niente «in proprio» come per i guardiani della città in apertura del Timeo; 2) chōra, e cioè la madre che non può riconoscere come propri i suoi figli sul modello del governo platonico; 2.1) chōra, come nutrice, ancora un «segno supplementare d’espropriazione»; 3) chōra, in analogia con i vagli, i setacci, che servono per selezionare il grano o i semi; 4) chōra, nel senso dei dispositivi che formano in segreto i matrimoni con i migliori accostamenti, senza casualità; 5) chōra, triton ghenos, discorso sulla razza che Socrate riporta sinteticamente da un’altra conversazione: i figli dei buoni sono portati in un luogo (chōra) per essere allevati e scelti, cioè ancora per assegnargli un posto (chōran). In più, sempre nell’ordine di un discorso analogico con chōra, alle discendenze o razze che si enumerano nel Timeo (poiētikon ghenos, mimētikon ethnos, tōn sophistōn ghenos) viene aggiunta quella a cui appartiene Socrate che finge di appartenere al genere di coloro che simulano l’appartenenza ad un luogo e ad una comunità [14]. In questo senso, Socrate finge di appartenere ad un non-luogo; dice ciò per indicare il luogo dal quale si può prender luogo. In tal modo, Socrate si esclude dall’appartenenza al luogo proprio, cioè dall’abitazione e quindi dallo spazio politico dell’agora. Quindi chōra è già occupata da qualcuno, in questo senso da Socrate, già investita, ma si distingue da ciò che vi è in essa, per questo motivo Derrida la distingue dal concetto di vuoto geometrico o, heideggerianamente, dall’extensio della res extensa [15].
Socrate, come chōra, ragionamento analogico, «si cancella» dagli altri generi facendo finta di appartenervi, e nella sua cancellazione funziona come «ricettacolo di tutto», «pronto e preparato», a ricevere. Qui Derrida si interroga sul valore di dechomai, con la ricettività di chōra. Tutta l’interpretazione di chōra gioca con i valori di dechomai, e Socrate viene letto attraverso i valori di questo verbo: «ricevere o accettare (un deposito, una retribuzione, un regalo) accogliere, raccogliere, veder attendere, per esempio il dono di ospitalità, esserne il destinatario» [16], valori che vengono rintracciati nel sistema economico o aneconomico del debito e del dono. La differenza fra Socrate e chōra è rintracciata però nel valore di pandechēs, chōra è “al di là del debito”. Questo al di là funziona da surplus nella significazione di chōra. Ciò non è interrogato da Derrida che si limita a mettere il problema en abyme nelle traduzioni e analogie di chōra. Finito con la figura di Socrate, il Nostro inizia un’indagine sui mitemi nel Timeo. Platone ricerca l’idean tōn eikotōn mythōn che permette una certa paidia. Se tale paidia è possibile, fra i miti e la forma verosimile, è perché, ontologicamente, nel sistema platonico, il sensibile è immagine del paradeigma intellegibile. Questo il motivo per cui il discorso su chōra “eccede” o “precede” la coppia mythos–logos, seppure Derrida riconosce possa sembrare appartenere soltanto al discorso mitologico. Questo a causa del valore onirico che richiama Platone nel Timeo quando introduce chōra e del tipo di logos bastardo che sembra essere necessario per comprenderla.
Poiché chōra eccede la dimensione ontologica, perché non appartiene né al sensibile, all’immagine e al divenire, né all’intellegibile, e allora al paradigma e all’eternità, il discorso su chōra è detto, quindi, da Derrida come a-logico e a-cronico, e anacronico, in ciò è estraneo alla mito-logica. Eppure il Timeo si compone di finzioni mitiche, in queste, secondo Derrida, si può rilevare l’effetto generato da chōra di un abisso del discorso che non riesce a dar conto di questo nome e si perde nelle maglie dei significati. Questo abisso che frantumerebbe il testo sarebbe, a detta del Nostro, in azione già dall’inizio del dialogo, prima ancora che venga introdotta chōra stessa. In questo, l’operazione di Derrida è una lettura che vuole dimostrare la myse en abyme del dialogo del Timeo. La dimostrazione consiste nel mostrare il differimento di racconti verso altri racconti. Sappiamo che il racconto del sacerdote egiziano sulla fanciullezza dei Greci è riportato da Crizia, che lo riporta a sua volta da un racconto che Solone aveva fatto a suo nonno Crizia, dal quale aveva avuto notizia quando era fanciullo. Questa catena di relazioni di relazioni orali verte sulla funzione mitopoietica, il sacerdote egiziano contrassegnava i Greci come fanciulli perché questi si servivano di “miti infantili” per la genealogia delle loro città e per la memoria più in generale. La mitopoietica è su motivi tipomorfici perché soltanto grazie alla scrittura, che funziona similmente al mito, è possibile registrare gli avvenimenti non più presenti. Soltanto grazie alla scrittura dell’altro, è possibile conservare la memoria. La scrittura permette la memoria, e sarebbe la possibilità stessa della sua alterazione, infatti la memoria di una città sarebbe “alterata” due volte: da chi ricorda e da chi scrive il ricordo – qui il caso di un altro che deve conservare il ricordo che, di contro, sarebbe andato perso con la morte di chi ricorda. Nel caso degli egiziani, questi hanno memoria scritta della storia dei greci che i greci non hanno sebbene ritengano i greci un popolo superiore in ogni sorta di qualità. Nel Timeo, che funziona da “luogo che riceve tutto”, questi racconti sono poi indirizzati a Socrate, che a sua volta riceve tutto. Quindi, Derrida, indagando la mitopioetica dai motivi tipomorfici, non fa altro che indagare associativamente il rapporto memoria-scrittura che comunica con il valore o i valori dell’ekmagheion, impronta, altra traduzione di chōra. E infatti il Nostro riflette sulla possibilità del racconto di Crizia (26b-c), sul ricordare il racconto stesso. Crizia prese conoscenza del racconto del sacerdote da piccolo, dal nonno Crizia. Egli ricorda bene ciò perché è l’infanzia il momento migliore della scrittura nella tavola di cera, immagine della memoria naturale. Allo stesso modo funziona chōra, sostanza vergine, in cui tutto prende forma, che riceve tutto senza essere determinata da alcunché. Ancora una volta un discorso, quello sulla memoria-scrittura, sembra rappresentare un altro discorso, la memoria è in rapporto analogico con il discorso su chōra, ci troviamo di fronte delle omologie: «Ogni racconto è dunque il ricettacolo di un altro» [17], e Derrida non dimentica di ricordare che il valore di ricettacolo è il valore più rimarcato nel discorso su chōra. Si ha l’impressione che nel Timeo appaia sempre chōra senza mai trovarla, non appartenendo come oggetto ad alcun racconto sembra non far parte né del discorso vero né del verosimile, né del logico né del mitologico. I movimenti che Derrida individua come finzioni testuali che compongono «il testo» sono schematizzati e mostrati nella loro correlazione e inclusività: F1 (finzione 1) e cioè il Timeo, F2, il discorso del giorno precedente sulla Politeia, F3, il riassunto di Socrate su F2, F4 discorso di Crizia su un racconto del giorno precedente, racconto ek palaias ekoēs (20d), F5 racconto nel racconto F4 di Crizia circa Crizia, suo nonno, che aveva discorso con Solone, F6 racconto di Solone che aveva avuto un colloqui con il sacerdote edizione, il quale, F7, parla dell’origine di Atene in base alle scritture che tenevano gli egiziani. Quest’ultimo racconto su Atene, ma primo, come segnala Derrida, se si segue l’ordine degli eventi, fa pensare agli ateniesi e ad Atene come destinatari del discorso, «produttori o ispiratori, gli informatori» [18]. Fra tutta queste serie di simulacri sembra che si possa parlare anche di un evento reale nel momento in cui Crizia ( F4 > F5 > F6 > F7 ) dà la possibilità di arrivare a parlare di un’impresa, «la più grande di tutte» (pantōn de hen meghiston) (20e). Su questa, Socrate è interessato a sentire una storia vera e non una favola. Derrida nota che Crizia, allontanandosi sempre più dal discorso presente al discorso raccontato o ricordato, magari da un altro, fa si che il detto mitico diventi un discorso “senza padre legittimo”, proprio come succede per chōra. Il discorso infatti sarà «orfano e bastardo», cosa che «si distingue dal logos filosofico che, come è detto nel Fedro, deve avere un padre responsabile, un padre che risponda – per lui e di lui.» [19]. Soltanto dopo ciò viene finalmente introdotto il discorso su chōra. Chōra, nutrice (49a); a 50d viene detto che conviene compararla ad una madre ma senza che questo voglia dire essere inserito nella coppia madre/padre – gli esempi del Timeo sono sul padre come paradigma e sul figlio come divenire sensibile – essa è sempre terzo genere (48e). Ciò fa dire a Derrida che triton ghenos non appartiene all’ordine del ghenos, si tratterebbe piuttosto di una singolarità. Il Nostro infatti la designa come «la spaziatura che conserva un rapporto asimmetrico con tutto ciò che, «in essa», a fianco oltre essa, sembra far coppia con essa» [20]. Ciò da cui prendono posto i significati del sensibile e dell’intellegibile. Per di più, poiché chōra non genera alcunché, non può essere inscritta nella tradizione antropo-teologica, quindi viene designata anche come «pre-originaria, anteriore ed esterna ad ogni generazione. […] Anteriore non significa alcuna anteriorità temporale» [21]. Chōra, quindi, sfiderebbe la logica metafisica, della concettualità oppositiva strutturata sulla coppia intellegibile/sensibile, e più in generale sfiderebbe la stessa filosofia, che, nel tentativo di nominarla, cerca di riappropriarla nel proprio logos senza riuscirci; in questo chōra resta l’altro assolutamente irriducibile.
Note
[1] Altri lavori in cui si tratta specificatamente chōra sono Comment ne pas parler (1986), Fede e sapere (1995), Chōra L Works (1997). Per una ricerca approfondita cfr. Regazzoni, S. (2008). Nel nome di Chōra: da Derrida a Platone e al di là., Genova, Il Melangolo.
[2] Chōra in Derrida, J., & Garritano, F. Dalmasso, G. (2005). Il segreto del nome, Milano, Jaca Book.
[3] Chōra, p. 45.
[4] Bisogna cioè adottare una «logica diversa dalla logica del logos» come riporta Derrida da un passo di Vernant di Ragioni del mito, questo viene detto perché il problema del rapporto logos/mythos scaturirà dalla stessa indagine sul problema platonico.
[5] Ivi, p. 50.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, p. 51.
[8] Ivi, p. 52.
[9] Ivi, p. 55.
[10] Ibidem.
[11] Ivi, p. 57.
[12] Ivi, p. 61.
[13] Ivi, p. 62.
[14] Ivi, p. 65.
[15] Ivi, p. 67.
[16] Ivi, p. 68.
[17] Ivi, p. 74.
[18] Ivi, p. 81.
[19] Ivi, p. 82.
[20] Ivi, p. 83.
[21] Ibidem.