Temi e protagonisti della filosofia

“L’idiota” e la morale nietzschiana: il principe Myskin e “L’anticristo” (1)

“L’idiota” e la morale nietzschiana: il principe Myskin e “L’anticristo” (1)

Apr 22

 

Oggi pubblichiamo il primo articolo di Giulia Bugada. Diplomatasi in architettura, si è accostata alla filosofia grazie a Kant e i suoi interessi si sono poi rivolti alla fenomenologia, all’estetica, all’etica e alla filosofia della religione, laureandosi in filosofia estetica presso L’Università degli studi di Milano, ove sta attualmente conseguendo la laurea magistrale in scienze filosofiche. Giulia inizia la sua collaborazione individuando affinità e differenze tra le filosofie di Dostoevskij e Nietzsche. Ringraziandola per il contributo, le diamo il benvenuto tra i collaboratori del blog.

 

 

Non è indebito cercare di instaurare un dialogo tra Fëdor Michajlovič Dostoevskij ed il più giovane Friedrich Nietzsche, che conobbe, seppur tardivamente, i romanzi del primo rimanendone fortemente coinvolto. L’accostamento di un pensatore dalla religiosità intensa, anche se critica, all’annunciatore entusiasta dell’anticristo smette di sorprendere nel momento in cui entriamo in contatto con le rispettive opere, grazie alle quali noi stessi possiamo comprendere pienamente ciò che Nietzsche ha chiamato l’istinto dell’affinità.

In un periodo che preannunciava grandissimi cambiamenti ed instabilità intellettuale, pochi anni separano la nascita dello scrittore russo nel 1821 da quella del pensatore tedesco nel 1844, ma certo è che, pur non essendosi mai incontrati personalmente, questi abbiano condiviso molto di più che il periodo storico. La moltiplicazione di giochi e maschere che muovono la radicalità dei romanzi di Dostoevskij si congiunge al tormento dell’immoralismo nietzschiano, stagliandosi sul teatro offerto da un’epoca nervosa ed insoddisfatta.

È Nietzsche a presentarci questo sentimento conforme nel 1886, in quella prima prefazione ad Aurora che tanto ricorda il sottosuolo dostoevskijano [1].

In questo libro troviamo all’opera “un essere sotterraneo”, uno che perfora, scava, scalza di sottoterra. Posto che si abbia occhi per un tale lavoro in profondità, lo si vedrà avanzare lentamente, cautamente, delicatamente implacabile, senza che si tradisca troppo la pena che ogni lunga privazione di luce e d’aria comporta; lo si potrebbe dire perfino contento del suo oscuro lavoro. Non sembra forse che una fede gli sia di guida e una consolazione lo compensi? Vuole forse avere la sua propria lunga tenebra, il suo mondo incomprensibile, occulto, enigmatico, perché avrà anche il suo mattino, la sua liberazione, la sua aurora?… Certamente tornerà indietro: non chiedetegli cosa cerca là sotto, ve lo dirà lui stesso, questo apparente Trofonio ad essere sotterraneo, quando sarà “ridiventato uomo”. Si disimpara completamente a tacere, quando si è stati così a lungo, come lui, una talpa, un solo… [2]

L’eco inconfondibile riporta il lettore a respirare l’aria di Memorie del sottosuolo, opera conosciuta da Nietzsche lo stesso anno, e ad essere interpretata sembra precisamente la condizione spirituale del protagonista. Quest’anima inquieta che, inesorabilmente, si spinge avanti sbrogliando impietosamente le proprie contraddizioni è forse anche il motore che muove la ricerca dei due autori. Ecco che il nostro tentativo di comprenderli non parte tanto dal nichilismo proprio dell’epoca, quanto da questo sentimento di insoddisfazione nei confronti del soggetto, non più in grado di rispondere adeguatamente al mondo, ma solo alla descrizione che la religione, la scienza o la filosofia ne consegnano.

Dostoevskij e Nietzsche testimoniano la consapevolezza dell’epoca di un uomo che fa esperienza di un tutto disinteressato nei suoi confronti. Nietzsche-Zarathustra sente parlare un indovino che, come in una lucida e straziante illuminazione, afferma: «Vidi una grande tristezza invadere gli uomini. I migliori si stancarono delle loro opere […] E da tutti i colli riecheggiava: “Tutto è vano, tutto è indifferente, tutto è già stato!”» [3], ma per i nostri autori non è il mondo a dover essere addomesticato dall’uomo, come è invece accaduto nelle epoche precedenti, quanto quell’uomo ad essere insufficiente e a dover dunque intraprendere un cambiamento per poter rispondere in modo adeguato a questa nuova realtà.

Concentrandosi sulla dimensione etica il nostro elaborato si propone di affiancarsi a due personaggi che non solo come pensatori, ma soprattutto come uomini, hanno provato a raggiungere questo nuovo stadio antropologico. Seguiremo solo alcune delle tappe fondamentali d’un viaggio spirituale durato, in entrambi i casi, una vita, scegliendo quelle che ci paiono più significative rispetto ai nostri obbiettivi e così analizzando quei punti di svolta che permettono di tracciare un percorso parallelo. Campioni contro l’ingenuità, costoro indagano e mostrano le ipocrisie, o le illusioni, dell’orizzonte morale vigente dirigendo un’analisi acuta, e spesso addirittura affilata, verso la tradizione, senza alcun timore riverenziale nei confronti dell’auctoritas e dunque confrontandosi inevitabilmente con il cristianesimo.

Se la strada percorsa da Nietzsche è ben tratteggiata dalla storia di Zarathustra, avvocato della vita e di tutto ciò che rappresenta, riuscito nell’intento di rinascita nell’anticristo, a rappresentare il percorso battuto da Dostoevskij è invece il principe Myskin, protagonista de L’idiota, romanzo edito nel 1868 in cui l’intento esplicito è quello di rappresentare una natura umana positivamente buona, di porre letterariamente un Cristo del XIX secolo sul panorama della modernità russa.

Si delinea dunque una feconda dinamica, esemplificata da un paradossale gioco di parole in cui ad essere protagonisti indiscussi e a fornire l’occasione per l’indagine sono proprio Cristo, nelle vesti del principe, e l’anticristo, come orgogliosa conquista di Zarathustra.

La struttura del nostro elaborato si viene dunque a costituire su un doppio parallelismo, quello che intercorre tra il percorso di Dostoevskij e quello di Nietzsche, e quello che intercorre tra gli autori e i rispettivi personaggi.

In seguito ad un breve inquadramento storico tenteremo di comprendere la situazione di partenza, identificata per entrambi nell’esperienza della crisi, ma vissuta ed espressa in modo necessariamente diverso. Per Dostoevskij il mezzo comunicativo sarà l’arte letteraria e dunque strumento d’indagine sarà il filtro del narratore che, creando realtà funzionali alla ricerca, entra nel problema in modo graduale, senza essere costretto ad uno scontro subitaneo con la realtà. Nietzsche invece, godendo dell’immediatezza della filosofia già abituata a tali oggetti, giungerà subito nel vivo del problema, delineando una crisi certamente sentita come più radicale. Naturalmente due diversi tipi di nichilismo non scaturiscono solo dal fatto che l’uno è un romanziere e l’altro un filosofo ma da presupposti di partenza contenutisticamente lontani, che tuttavia scaturiscono dall’opera e sottendono alla sua struttura. Questo è il motivo per cui particolare attenzione è stata dedicata alla modalità di ricerca dei rispettivi autori.

La prima parte dell’elaborato è volta a sottolineare come l’esperienza della crisi sia vissuta in modo personale, la seconda vuole invece mettere in luce come questa porti ad una necessaria ricerca teoretica rispetto alle prospettive di senso vigenti in cui la stella guida è costituita dal dubbio.

Il nostro tentativo, in questa seconda parte, sarà dunque quello di accostarci alle rispettive indagini passando dall’analisi della prima prospettiva di senso immediatamente accessibile, il sé, fino a giungere a quella consegnata dalla sedimentazione di una morale tradizionale, il cristianesimo. Infine proveremo a giungere alla chiave di volta di entrambi i percorsi, costituita della svolta etica in cui il discorso si riporta sul piano ontologico dell’esperienza personale, tant’è che se etimologicamente crisi significa scelta è forse proprio da questa che potrà sorgere chi saprà nuovamente misurarsi con la realtà.

Se il primo compito che ci proponiamo nell’affrontare questo dialogo sotterraneo, intessuto di affinità e distanze, è proprio evidenziare l’aspetto personale ontologico, il secondo obbiettivo è quello di capire come in quest’ottica tali pensieri possano interagire, in modo da fornirci una chiave interpretativa nel rispecchiarsi di due autori stretti da una ancor viva empatica sensibilità.

1. Il problema della morale nell’epoca del Nichilismo: la crisi

1.1 L’annuncio di uno spirito distruttivo

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento si assiste ad una rivoluzione dell’epistemologia in generale, coincidente con la crisi della scienza insieme ad alcuni suoi concetti di fondo. La dissoluzione delle certezze viene vissuta come il segno di una crisi dello spirito occidentale nella sua complessità.

Nella cultura filosofica si abbandona la visione razionalistica, illuministica e positivistica, che si proponeva di vedere le cose così come stanno, per approdare ad una di tipo idealista o nichilista. Se con idealismo indichiamo la consapevolezza, acquisita in modo graduale, che la realtà non è indipendente dal soggetto pensante, con nichilismo intendiamo l’arbitrarietà totale o parziale della stessa.

Il termine nichilismo è indissolubilmente legato al nome di Friedrich Nietzsche: è egli ad insinuare il dubbio anche nel pensiero filosofico e, in particolare, nella riflessione morale approdando alla crisi delle certezze metafisiche che avevano fino ad allora costituito il pensiero occidentale. È grazie alla filosofia del martello [4] che Nietzsche individua l’origine umana, troppo umana [5], delle credenze che di volta in volta hanno costituito la tradizione, cominciando con l’idea di Dio e dell’origine razionale del mondo. Nel suo percorso Nietzsche non può far altro che scontrarsi con il cristianesimo: se infatti la tradizione cristiana ci consegna un’idea di morale positiva e garantita da una sua valenza sovrasensibile divina, Nietzsche la individua al termine di un cammino evolutivo.

A Nietzsche attribuiamo il merito di aver teorizzato e articolato il nichilismo postmoderno, tuttavia dobbiamo riconoscere come il tema della crisi, intesa sotto il segno dei valori morali e del problema di Dio, non fosse una novità.

Un esempio di ciò che sarà la successiva reazione alle filosofie dei grandi principi unificatori è l’opera di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, che si distaccherà dal sistema e dalla forma della totalizzazione precedentemente in uso. Ad accomunare l’autore con la filosofia postmoderna sono in primo luogo gli elementi della crisi. Dostoevskij stesso si dichiarava tormentato dal problema di Dio, inteso come senso o non senso ultimo dell’essere. La riflessione dell’autore si risolve primariamente nel rifiuto di un sistema unico. «La verità sul mondo, secondo Dostoevskij, non è separabile dalla verità della persona» [6], afferma Bachtin, così per l’autore le prospettive diventano molteplici e personali e si verifica «quella fusione, così caratteristica di Dostoevskij, di vita personale e concezione del mondo, di ogni più intima esperienza di vita e dell’idea» [7].

Il Romanzo polifonico di Dostoevskij comporta conseguenze anche dal punto di vista delle forme del pensiero estetico. Queste, precedentemente modellate su una visione artistica monologica [8], si orientano con l’autore ad una struttura del mondo incredibilmente più complessa, e saranno in grado di volgersi alla coscienza umana e alla forma dialogica dell’essere. È così che Dostoevskij riesce a fare di questi elementi, tipicamente indagati dalla filosofia, oggetto di rappresentazione artistica.

L’estetica del linguaggio presente sia in Dostoevskij che in Nietzsche ha come sfondo la quasi ossessiva ricerca della verità, nella sua valenza morale, e delle sue conseguenze. Per entrambi centrale appare la condannabilità della non presa di coscienza e l’accusa della cecità che è sinonimo di prigionia.

I personaggi di Dostoevskij paiono consapevoli del carattere solo illusorio di un presunto sentirsi al di là del bene e del male [9] e del fatto che il male trionferà esattamente nel momento in cui viene negato; a questo tende il valore del continuo domandare del principe Myskin ne L’idiota e ancor più quello delle sue riflessioni: la loro candida cadenza e l’irradiazione di calma e consapevolezza ci fanno subito intuire come l’autore creda in, e voglia dimostrare, un’estetica del bene; tale bene, coincidente con il bello, troverà nel corso del romanzo continue conferme esplicite nelle parole del principe. In un certo senso questo ci appare in totale contrasto con il claustrofobico discorso nietzschiano che in un primo momento si evidenzia solo sotto il segno di uno spirito distruttivo. La forza impetuosa di Nietzsche in contrapposizione alla serenità irradiata dal principe, il principe nella sua forza simbolica e non (non ancora per Nietzsche) corrotta di verità in contrapposizione con lo spirito distruttore del fanciullo eracliteo. Il principe Myskin è quindi forza svelatrice, è un bene umile volto al capire, chiarire e scoprire una verità del tutto indipendente e divina, il fanciullo giocondo descritto da Nietzsche è invece forza distruttrice (e creatrice) di una verità del tutto umana.

1.2 Il Nichilismo per Fëdor Michajlovič Dostoevskij e per Friedrich Nietzsche

Ad introdurci nella concezione di nichilismo di Dostoevskij è l’opera polifonica dell’autore. Mediante questo stile composito Dostoevskij organizza più voci all’interno del romanzo. Ogni voce, corrispondente ad un personaggio, si distingue da quella dell’autore, tant’è che il personaggio non è l’oggetto della parola dello scrittore quanto il soggetto della sua propria parola. I diversi protagonisti diventano vere e proprie voci incarnate portatrici di idee e questa polifonia diventa il simbolo dell’assenza di un qualunque tentativo di unificazione della realtà: «Così, la libertà del personaggio è un momento del disegno dell’autore. La parola del personaggio è creata dall’autore, ma creata in modo che essa può fino all’ultimo dispiegare la sua interna logica e autonomia come parola altrui, come parola del personaggio stesso» [10], afferma Bachtin, L’esito è dunque l’autonomia. Il personaggio è, rispetto alla voce dell’autore, una alterità: è una coscienza che vive all’interno del territorio narrativo secondo una propria logica. Conseguenza primaria sarà la responsabilità totale di una coscienza per se stessa. È soprattutto questo carattere a rendere i personaggi fortemente realistici e capaci di incarnare altresì la tragicità dell’essere e la crisi del soggetto; divenendo così insostituibili testimoni dell’epoca essi sorreggono il peso della verità richiamando la stessa filosofia alla riflessione [11].

La questione del nichilismo in Dostoevskij si concretizza primariamente nella crisi del soggetto nel momento in cui interagisce con la tragicità dell’esistenza. La crisi si pone soprattutto nei termini di una relazione con il mondo esterno: realtà che non si esaurisce o si lascia catturare da un’unica prospettiva. Il nichilismo si può identificare all’inizio con questa domanda nei confronti del senso ultimo e il rifiuto dell’unico sistema totalizzante appare precisamente come una prima risposta.

La stessa domanda è all’origine dell’indagine genealogica nietzschiana sulle prospettive di senso. Parimenti personale appare la presentazione di Nietzsche del nichilismo che arriva immediatamente ad una deriva più radicale.

In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della “storia del mondo”: ma tutto ciò durò solo un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. [12]

Con questa agghiacciante favola Nietzsche ci scaraventa nel suo non-sistema nichilista, ove ogni intelletto appare “misero, spettrale e fugace” [13] ed ogni verità temporanea ed umana. Una volta che gli esseri sono morti, muore con loro la presunta verità e «non sarà avvenuto nulla di notevole» [14]. Così si scaglia contro la presunzione umana, soprattutto quella del filosofo, di essere al centro dell’universo arrivando ad affermare che se solo potessimo intenderci con la zanzara scopriremmo che anche lei si sente il «centro fluttuante dell’universo» [15].

Come ogni aspetto della filosofia nietzschiana anche il termine stesso ‘nichilismo’ non si esaurisce in un’unica interpretazione, mutando, nello sviluppo del suo pensiero e della nostra lettura, diversi significati e gradi interpretativi. È un concetto complesso che in una prima accezione si identifica con una sorta di volontà di nulla, ovvero con il chiudere gli occhi dell’uomo davanti alla non-forma del mondo reale. Questo è l’atteggiamento tipico del filosofo (nella sua massima espressione di Platone) e del religioso (nella sua massima espressione di Cristiano) che inventano prospettive di senso per poter abitare una realtà dionisiaca. Incapaci di vivere in un mondo privo di punti di riferimento gli uomini creano questa menzogne vitali causate da una sorta di ansia di certezza. Di queste verità, spiega Nietzsche prendendo l’esempio del cristianesimo, l’uomo dovrà però rendere conto. Il post-cristiano, smettendo di credere in Dio, soffrirà ancora di più la crisi data dallo smascheramento di questo, ed ecco che in una seconda definizione il nichilismo diventa l’elemento pregnante incarnato nell’uomo moderno che non crede più ad un senso metafisico delle cose o ad una validità indipendente dei valori, finendo per avvertire di fronte all’esistenza lo sgomento del nulla. Tali accezioni di nichilismo paiono addirittura opposte, distinguendo nettamente l’atteggiamento di coloro che rifuggono il mondo reale mediante la continua creazione di valori di volta in volta sostituibili e l’atteggiamento di colui che, avendo smascherato l’arbitrarietà delle proprie credenze «abbia il presentimento che l’uomo stia sospeso sui suoi sogni su qualcosa di spietato, avido, insaziabile e, per così dire, sul dorso di una tigre» [16] provando l’horror vacui del nichilismo moderno. Questo senso di terrore e sgomento, e soprattutto la solitudine derivante dall’incapacità di comunicarlo senza essere derisi, è ben esemplificato dalla drammatizzazione che Nietzsche ne effettua in uno dei passi più significativi de La gaia scienza, il racconto dell’uomo folle:

Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere le lanterne la mattina? Dello strepitio che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli déi si decompongono. [17]

Esistono diversi gradi di nichilismo, ma nella sua più estrema e radicale accezione questo coincide con il superamento di sé stesso in ciò che Nietzsche definisce come nichilismo estatico e che, ponendosi alla stregua della volontà di potenza, è capace di vivere nella insensatezza caotica del mondo. Anche il momento della crisi appare allora solo come un momento da oltrepassare, uno stato intermedio patologico. Una negazione della vita che getta le basi per la sua suprema accettazione.

Mediante l’analisi dei personaggi nell’opera di Dostoevskij osserviamo come, anche in questo caso, ci troviamo davanti ad un nichilismo complesso. La crisi si identifica con il momento attivo della domanda e non come una statica presa di consapevolezza della tragicità dell’esistenza, ma anche il percorso descritto da questo autore può articolarsi in più sfaccettature.

Ne L’idiota i personaggi che incarnano il nichilismo stagliano sulla scena le possibili derive della crisi del soggetto. Ogni personaggio viene travolto dalla tragicità dell’esistenza e dalla domanda sul senso ultimo, ma mai i percorsi si sovrappongono approdando invece a situazioni e tipi di nichilismo completamente diversi (in conformità con la struttura del romanzo polifonico). La contrapposizione più evidente sarà segnata dal percorso del Principe Myskin che, unico, conserverà durante tutto il proprio percorso l’interesse e l’apertura nei confronti della verità. L’evidente distanza presente tra questi e gli altri personaggi è frutto dell’intenzione dell’autore: nel tracciare la figura del Principe Myskin, Dostoevskij vuole rappresentare un uomo completamente buono, un Cristo del diciannovesimo secolo. Nel romanzo questi appare come totalmente altrove rispetto agli altri personaggi, ma verrà davvero riconosciuto come splendore solo dal personaggio di Nastas’ja Filippovna, che pure ne rappresenta la massima antitesi.

Il carattere del nichilismo, che emerge dal romanzo, sembra concentrato a prima vista sulla forza distruttrice del fenomeno stesso. Si sviluppa in riferimento al gesto eversivo ed autodistruttivo che indica la perdita della stabilità morale fondata sulla ragione. Un esempio di incarnazione dei tratti nichilisti in questa prima accezione è Parfen Rogozin, che ce ne mostra la potenza distruttiva mediante la sua passionale impulsività. Egli è il primo incontro del Principe Myskin durante il suo viaggio di ritorno dalla Svizzera a Pietroburgo. Nelle prime pagine del romanzo i due vengono descritti in modo parallelo mettendo subito in evidenza le forti differenze, che vengono ulteriormente confermate dall’inizio del loro dialogo. Il carattere iracondo e nervoso di Rogozin è subito evidente e ancor più sottolineato dalla presenza del Principe, dal quale comunque resterà affascinato. I movimenti di questo personaggio paiono rispondere solo alla sua volontà che, sperimentando gli opposti, annulla la distinzione tra bene e male, tra verità e non verità. Si sente un’eco dell’oltreuomo descritto da Nietzsche [18] che pare in Rogozin culminare nella distruzione di sé e degli altri. Quella esercitata da questo personaggio è una libertà che permette l’affermazione di sé oltre le leggi morali e anzi nella profanazione di queste (anche se in altre parti del romanzo proprio questo suo essere al di là di ogni morale senza consapevolezza sembrerà ciò che lo rende prigioniero).

Secondariamente possiamo identificare una sovrapposizione del male al nulla, il male sembra collegabile al non essere. Il nichilismo è incontro con il male perché incontro con il nulla. Questo incontro si manifesta in diversi modi: nella crudeltà, nella disgregazione della personalità e nell’autodistruzione. Il caso più evidente è rappresentato dal momento della fatidica scelta di Nastas’ja Filippovna di sposare Rogozin nel pieno della consapevolezza del significato di tale scelta. Il comportamento di Nastas’ja, così come quello di Rogozin, può essere inteso come innesco di un processo inarrestabile quasi di nientificazione dell’io, ma in questo è anche possibile scorgere una paradossale esperienza dell’essere.

Così come per Nietzsche l’oltreuomo rappresenta l’apertura al superamento della crisi nichilista, in modo totalmente diverso ne L’idiota è il principe Myskin ad occupare questo ruolo. Myskin vive la tragicità dell’esistenza senza mai chiudere la sua apertura alla ricerca di Dio, non cedendo ad un nichilismo dei valori e rimanendo buono in modo spontaneo e disinteressato. Sperimenta fino in fondo il peso dell’esistere ed è ossessionato della domanda intorno al dolore circostante [19]. Incarna l’idea cristiana di un bene modesto, ma che non vuole rassegnarsi ad una prospettiva di mancanza di senso.

1.3 L’inizio della ricerca e le sue modalità

Ad accomunare i due autori concorre certamente la persuasività delle loro forme espressive, l’idea incarnata di Dostoevskij e la forza rappresentativa di Nietzsche si dirigono verso la delineazione di un pensiero fattosi storia del tutto umana. Il concretizzarsi di una voce per l’uno, o il personaggio che si fa palcoscenico della manifestazione dell’idea per l’altro [20], sono esempi di come la forza della parola accorra in aiuto al concetto e la letteratura in soccorso alla filosofia. Mediante la lettura delle loro opere giungiamo a questi autori, il cui spirito di ricerca viene oggettivato nelle stesse, dandoci così la possibilità di instaurare con essi un empatico dialogo e di superare ogni divisione.

In Dostoevskij ritroviamo un autore capace di far nascere nuove sfumature significative della parola e che, grazie alla presentazione di un’intenzione dialogica del discorso, riesce a distaccarsi dalla mera funzione figurativa. L’oggetto principale della sua rappresentazione è allora la parola stessa come elemento ricco di significati riportati alla luce dalle relazioni logiche creative che nascono con il dialogo. Al termine del suo saggio sulla poetica dell’autore Bachtin afferma che «le opere di Dostoevskij sono una parola sulla parola, una parola rivolta alla parola. La parola raffigurata si incontra con la parola raffigurante allo stesso livello e a pari diritti» [21], e ancora: «come risultato di questo incontro si rivelano e vengono in primo piano i nuovi aspetti e le nuove funzioni della parola» [22].

Nietzsche, per giungere ad un archetipo spirito vitale e allo smascheramento delle menzogne che si interpongono tra noi e questo, ha bisogno di trovare un nuovo mezzo espressivo, una nuova lingua, dato che quelle esistenti (il linguaggio filosofico così come quello scientifico) rispondono ai signori delle culture costituite e ai valori da essi riconosciuti. Per la creazione di questa sua nuova modalità espressiva egli sperimenterà una grande varietà di generi letterari [23].

Il Nietzsche scrittore è un viandante che approccia e tenta vie diverse da quelle della scrittura filosofica fino ad allora adottata, e la sua scrittura è caratterizzata dalla temporaneità delle affermazioni, dall’ambiguità degli enunciati e dall’inquietudine della domanda. Egli pare mosso da un’intenzione linguistica che si indirizza verso nuovi orizzonti e spazi inesplorati. Naturalmente privilegiati saranno quei modi espressivi che paiono adatti a rompere gli schemi dogmatici della razionalità positivistica e ben rappresentino il carattere propriamente nietzschiano della sperimentazione.

Sta sorgendo una nuova stirpe di filosofi: oso battezzarla con un nome non esente da pericoli. Così come io li vado divinando […] questi filosofi dell’avvenire vorrebbero avere il diritto, forse anche il torto, di essere chiamati tentatori. Questo stesso nome è infine soltanto un tentativo e, se si vuole, una tentazione. [24]

Tra tutte le forme espressive appare importante quella dell’aforisma, grazie al quale Nietzsche riesce ad esprimere la sua filosofia non sistematica in linea con la sua idea di verità possibile solo se temporanea [25]. Nietzsche definisce propriamente l’età moderna come epoca degli esperimenti e attraverso la sua appassionata ricerca vuole portare alla luce un uomo dallo spirito ricco, forte e consapevole.

La letteratura può dunque essere un valido supporto alla filosofia, ma anche se da questo punto di vista Nietzsche e Dostoevskij si incontrano, totalmente opposte saranno le conclusioni raggiunte. Se da un lato le idee astratte incarnate nel romanzo di Dostoevskij anticipano alcuni elementi ricorrenti in Nietzsche (in particolare ne L’idiota vi è l’esemplificazione di alcuni concetti di partenza per la ricerca di entrambi gli autori, tant’è che Nietzsche stesso si riconosce in essi), dall’altro lato, calando nella realtà umana, letteraria, le idee di Nietzsche, Dostoevskij le sta già confutando rendendole insostenibili. Elemento di interesse è come la confutazione non sia tanto filosofica quanto pratica e al termine di un percorso di vita rappresentato letterariamente. L’esempio più significativo è quello dell’oltreuomo: per Nietzsche è la via dell’uomo del futuro mentre per Dostoevskij appare una via impossibile da praticare perché la pretesa di oltrepassare i limiti imposti dalla legge morale della natura umana non è una strada realmente percorribile, ma solo illusoria.

Entrambi gli autori riscoprono nella rappresentazione simbolica una risorsa feconda per potersi volgere al problema della verità che segue lo shock della crisi.

L’accezione simbolica e metaforica del viandante raggiunge un alto grado d’espressione in Così parlò Zarathustra, un libro per tutti e per nessuno. Questo testo ci appare quasi probante per diversi motivi: l’opera contiene tutte le idee dell’autore ma la crisi, e la possibile apertura al suo superamento, appaiono in modo dirompente e frastornante, tanto che una lettura isolata lo farebbe apparire quasi come un libro profetico. La percezione è quella di un’idea dettata da una sorta di voce oracolare [26]. Questa percezione, particolarmente calcata in Zarathustra, è altresì presente in buona parte dell’opera nietzschiana anche grazie all’ausilio di aforismi e racconti simbolici.

In Ecce homo è Nietzsche stesso ad affrontare direttamente l’argomento:

E ora racconterò la storia dello Zarathustra […] Camminavo in quel giorno lungo il lago di Silvaplana attraverso i boschi; presso una possente roccia che si levava in figura di piramide, vicino a Surlei, mi arrestai. Ed ecco che giunse a me quel pensiero […] L’inverno seguente vivevo vicino a Genova, in quell’insenatura graziosa e quieta di Rapallo, intagliata fra Chiavari e il promontorio di Portofino, non ero nel miglior stato di salute; l’inverno freddo e oltremodo piovoso; […] Ciononostante e quasi a riprova del mio principio secondo cui tutto ciò che è decisivo nasce «nonostante tutto», il mio Zarathustra nacque proprio in quell’inverno e in quelle sfavorevoli circostanze. [27]

Nietzsche sottolinea come sia il pensiero a giungere e successivamente arriverà ad affermare come questo manifestarsi degli stessi pensieri portò l’intera opera a compiersi quasi da sola [28]; unico atto compiuto dall’autore pare quello di essersi posto nella condizione favorevole all’ascolto di ciò che a lui spontaneamente si è poi presentato. La portata filosofica è chiarita poco dopo, quando Nietzsche affronta il tema più generale dell’ispirazione affermando in conclusione che «tutto si offre come l’espressione più vicina, più giusta, più semplice» [29]. La sua creazione filosofica è allora avvenuta in modo totalmente involontario, tanto che l’autore afferma di non aver mai avuto scelta [30].

L’altro elemento importante da sottolineare è la centralità dell’ascolto: evidente appare il rapporto diretto che si instaura tra il fenomeno del giungere involontario e le modalità dell’ascolto stesso [31], ascolto a sua volta indissolubilmente stretto ad un altro linguaggio caro all’autore: quello della musica. Se è proprio all’insegna della musica che nasce l’opera nietzschiana, essa si distacca completamente dalla composizione musicale: come già accennato, il momento attivo dell’azione non è costituito dalla creazione di un progetto, quanto dalla creazione di uno stato di disposizione all’ascolto.

L’opera di Nietzsche pone particolare attenzione al carattere melodico e musicale della presentazione dell’idea, fino a creare volutamente un tipo di sinfonia polifonica e un tipo di rappresentazione per immagini policromatica. Come il romanzo di Dostoevskij, l’opera nietzschiana non si accontenta di rappresentare un lineare percorso narrativo: nello Zarathustra ritroviamo stridenti inversioni di marcia e inquieti cambiamenti di tono, grazie ai quali quasi violentemente la nostra lettura diviene più partecipe ed attiva, facendoci sentire tutt’uno con il flusso di pensieri dello stesso Nietzsche-Zarathustra.

E così anche a noi si parano davanti la nausea e il nero livido sul volto del pastore addormentato cui il serpente era entrato strisciando nelle fauci, vediamo il verde dello schifo, e subito dopo la luce da lui irradiata in seguito al decisivo morso che, staccando la testa al serpente, sancisce il suo aderire senza riserve alla vita. Lo sentiamo ridere e siamo abbagliati dai rossi e dai gialli della radicale accettazione nell’idea dell’eterno ritorno fino a gioire con lui di questo epico inno alla forza vitale [32]. Seguiamo passo per passo la metamorfosi dell’uomo che attraversa il nichilismo come si attraversa un fiume su rocce in continuo movimento, lo vediamo nel momento in cui scopre la morte di Dio e osserviamo coloro che son incapaci di vivere in un mondo privo di punti di riferimento sostituire il Dio smascherato con un qualunque altro valore allo stesso modo fideistico. Ci accostiamo agli spiriti più forti e attaccati alla vita mentre abbracciano coraggiosamente la forma medusea della realtà, e ancora vediamo la differenza tra coloro che vivono questo momento di totale sgomento in modo passivo (sperimentando impotenti un declino della propria energia vitale) e coloro che invece, forti e animati da una fame insaziabile, crescono nella potenza del loro spirito. Distruggendo ogni residua credenza nella verità, il nichilismo diventa estremo creando lo spazio a nuove possibilità, e la distruzione diventa creazione sempre rinnovata [33].

I toni severi con cui Zarathustra ci presenta ciò che odia si intrecciano con la cadenza lenta e sfumata dei momenti del sogno. Le invettive e i giudizi sono presentati in modo secco e crudele e vi sono continui paradossali salti tra riferimenti al passato e immagini del futuro. Zarathustra non è compositore di suoni e voci, ma piuttosto spazio aperto in cui essi si raccolgono e manifestano, non è solo personaggio ma anche scena in cui si compongono molteplici configurazioni. È spazio mobile che quasi senza identità, se non con quella determinante dell’accettazione dell’eterno ritorno, resiste alla classificazione.

Forse in questo possiamo intravedere l’indebolimento del soggetto e, dunque, un distruggersi di quella lunga stratificazione di problemi sedimentati intorno alla figura dello stesso e del suo rapporto da un lato con il mondo esterno e dall’altro con Dio; allora tutto il sapere filosofico volto al e costituito sul tentativo di chiarire queste relazioni cade. La filosofia di Dioniso vede nella continua trasformazione dell’uomo e delle cose un altissimo grado di godimento, ma il dionisiaco non è soltanto questa potenza di creare e distruggere altro, è anche la capacità di creare e distruggere sé stesso; la potenza di annullarsi come soggetto è ciò che Zarathustra ama nell’uomo, e ciò che invece Dostoevskij vuole rappresentare come negativo nel delineare le figure di Rogozin o Nastas’ja.

Zarathustra ha conseguenze filosofiche sconvolgenti pur senza esprimersi in modo filosofico. Così come Dostoevskij, Nietzsche non attacca frontalmente la questione perché questo significherebbe ricadere in prospettive definite da terminologie scolastiche dogmatiche. Egli cerca contrariamente di raccontare come gli sia stato possibile uscire da questa ragnatela e vivere nella sua assenza; risposta a tale esigenza viene ritrovata nel gioco in grado di fare e disfare valori come castelli di sabbia (senza troppa passione nel farli e senza troppa sofferenza nel disfarli), giocando appunto con tutto ciò che fino ad allora era stato considerato sacro. Questa capacità non dipende dall’ausilio di una forza logica ed intellettuale quanto dal godere di una grande salute in un senso completamente pratico, tant’è che ne La gaia scienza questa grande salute viene identificata come uno spirito di piena esuberanza, ingenuo e possente.

In questo modo avviene la demolizione delle false verità per Nietzsche; similmente anche il principe Myskin appare spontaneamente e indiscretamente volto alla distruzione delle barriere psicologiche che i personaggi innalzano per non guardare in faccia il vero motivo che scatena in loro il dolore [34]. Quello raccontato da Dostoevskij è un personaggio talmente vicino alla propria semplice natura da poter evidenziare aspetti quali la coscienza umana o la vera faccia dell’essere nella sua dimensione dialogica.

Ne L’idiota il percorso morale è tracciato da due elementi fondamentali: il personaggio e il dialogo. Come già accennato, i personaggi rappresentano un particolare punto di vista sul mondo e su se stessi, ed è proprio questa loro netta distinzione a rendere il dialogo tra loro tanto interessante e fecondo: le relazioni dialogiche che si instaurano sono un movimento tra diverse prospettive inesauribili. Le voci nel riconoscersi come diverse sanciscono la propria identità, le idee veicolate dai personaggi, lontane dal volersi assoggettare o rendersi uguali, si fanno un aiuto per le altre, aiuto che si identifica in questa diversità. In Dostoevskij riscontriamo poca differenziazione linguistica, ma nel romanzo polifonico la questione non sta tanto nella presenza di determinati stili di linguaggio quanto sotto quale angolo dialogico essi sono messi a confronto o in contrasto nell’opera [35].

I rapporti dialogici sono oggetto della metalinguistica, ed è proprio in questo loro essere extralinguistici che ne avvertiamo la portata filosofica. Bachtin afferma: «i rapporti dialogici sono assolutamente impossibili senza rapporti logici e semantico-oggettuali, ma non si confondono con essi, bensì hanno la loro propria specificità» [36]. I rapporti logici e semantico-oggettuali, per divenire dialogici, devono incarnarsi ed entrare così a far parte di un’altra sfera dell’essere: devono diventare parola, cioè enunciazione, e avere un autore, cioè un personaggio che si faccia campo della loro manifestazione. Ognuno di questi dialoghi è costituito in ultima analisi da due voci (nel senso di due posizioni diverse), e queste si possono identificare in due personaggi, in due gruppi di personaggi o addirittura in un unico monologo. Comunque si manifesti, il dialogo ha un profondo significato di principio che sta nello scontro-incontro tra due posizioni diverse e trova il suo pregio nel non giungere mai all’affermazione ultima dogmatica. La coscienza del personaggio è in Dostoevskij completamente dialogizzata e quindi sempre in movimento. Una sola voce non può che rimanere ferma, due voci sono il minimo per il movimento della vita e quindi il minimo per l’indagine.

Sembra che, come Nietzsche, Dostoevskij abbia creato un nuovo linguaggio che è primariamente linguaggio in movimento e dunque ben si adatta al percorso di ricerca. Ne L’idiota questo elemento della ricerca appare al di là dell’intreccio narrativo: il dialogo tra Myskin e Rogozin è un dialogo tra due uomini non dettato dalla rivalità, anche se è questa ad averli posti l’uno di fronte all’altro, e lo stesso vale per il dialogo tra Aglaja e Nastas’ja. Il nucleo di questi dialoghi si rivolge semplicemente alla morale, la dinamica è sempre quella dell’uomo di fronte all’altro uomo nel senso di una contrapposizione dell’io all’altro.

Un esempio è facilmente riscontrabile nel personaggio di Nastas’ja Filippovna: Nastas’ja si scinde tra la voce che la riconosce colpevole e perduta, e quella che la giustifica ed accetta. Nei suoi discorsi in modo alternato continua a prevalere l’una o l’altra voce, ma il dibattito non termina mai completamente. Gli altri personaggi fungono o meno da rinforzo di questo suo dialogo interiore [37].

Giunta nell’appartamento di Gavrila per conoscere la futura suocera, Nastas’ja, venendo biasimata, per ripicca si comporta in modo altero e maleducato e solo la voce del principe la porta a mutare bruscamente tono e a baciare umilmente la mano della madre di Gavrila precedentemente ingiuriata. Sentir parlare il principe Myskin la richiama alla sua seconda voce.

“E voi, non avete vergogna? Siete forse quale vi siete dimostrata ora? Non è possibile!” Esclamò improvvisamente il principe, e un rimprovero profondo risuonò nella sua voce.
Nastas’ja Filippovna si stupì, sorrise, ma come se volesse nascondere qualche cosa sotto quel sorriso […], si avvicinò a Nina Aleksandrovna, le prese la mano e se la portò alle labbra.
“Egli ha indovinato; in realtà, sono tutta diversa da quella che ho finto di essere”. [38]

L’altra parte del dialogo interiore di Nastas’ja è rappresentato da Rogozin; questa appare in lei più conscia, andare da lui, e alla fine sceglierlo, significa incarnare totalmente la prima voce. In linea con quanto già detto, la ricerca di Nastas’ja della verità su se stessa appare ciclica ed in continuo movimento.

Il principe Myskin è ricettacolo intorno a cui ruota il discorso morale verso la verità; gli elementi che scandiscono questa ricerca sono la domanda, che spesso sancisce l’inizio della riflessione stessa, la schiettezza disarmante di alcune sue considerazioni, le sue intuizioni [39] e i monologhi che hanno carattere d’esplorazione e, partendo da qualcosa di insignificante, traggono spunto per l’esposizione concettuale.

Particolare interesse è dedicato al tema della morte e alla paura della stessa, che certo appare intrecciata con il bisogno morale della ricerca del senso ultimo. Nel romanzo la morte appare essenziale motivo di riflessione soprattutto quando è certa, ma anche in questo frangente vi può essere una differenza: la morte è lieve e serena se siamo circondati dalla bellezza della carità e della compassione, è invece inevitabilmente disgraziata, fredda e soprattutto intrisa di rassegnato terrore se vissuta nella solitudine. A spiegarci tale dinamica è proprio il principe attraverso due racconti fatti nell’arco di poche pagine: il racconto dell’uomo prigioniero e condannato a morte cui solo all’ultimo momento viene concessa la grazia [40] (storia che ricalca la vicenda vissuta in prima persona da Dostoevskij [41]), e il racconto della miserabile Marie malata di tisi [42]. Queste due storie hanno in comune l’inevitabilità della morte dei protagonisti, ma mantengono un’irriducibile differenza. La morte di Marie è forse ancora più certa di quella del prigioniero, ma il suo abbandonarsi è tanto consapevole quanto privo di affanni o preoccupazioni:

Le vecchie cacciavano via i ragazzi, ma questi accorrevano ugualmente, non fosse che per un momento, e gridavano dalla finestra: “Bonjour, notre bonne Marie”. E Marie, non appena li sentiva o li vedeva, si sforzava, nonostante le proteste delle vecchie, di sollevarsi su un gomito per poterli salutare e ringraziare con un cenno di testa. […] Grazie a loro, vi assicuro, ella morì quasi felice. [43]

Contrariamente gli istanti che precedono l’esecuzione del condannato, circondato da spettatori impassibili, sono inquieti ed isterici. Privo di speranza, egli tuttavia è crudelmente incapace di smettere di ragionare sul cosa farebbe se la sua vita potesse continuare. Un dialogo interiore nervoso, ancora in continuo movimento e che si dirige comunque vitalmente verso la ricerca.

In conclusione possiamo affermare che la struttura della modalità espositiva di entrambi gli autori abbia già molto da dire in merito alle filosofie che guidano le loro ricerche. Una visione del mondo è così già in parte presentata nel metodo dialogico di Dostoevskij, come in quello storico genealogico di Nietzsche, che non accetta l’esistenza di realtà statiche o immutabili e che crede che ogni cosa sia esito di un processo da ricostruire. Il metodo nietzschiano, in particolare, assume la forma di una chimica delle idee e dei sentimenti impegnata nel far scaturire ogni atteggiamento dal suo opposto e metterne a nudo le matrici umane. Massimo oggetto verso cui si orienta questa critica è inevitabilmente Dio: egli è la personificazione di tutte le varie certezze metafisiche e dunque considerato la più antica delle bugie vitali.

 

Note

[1] Cfr. F. M. Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, Einaudi, Torino 1994.

[2] F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, Adelphi, Milano 1996, p. 3.

[3] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 1976, p. 139.

[4] Cfr. F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello, Adelphi, Azzate 2013.

[5] Cfr. F. Nietzsche, Umano, troppo umano, 2 voll., Adelphi, Azzate 2013.

[6] M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 2002, p. 103.

[7] Ivi, pp. 103-104.

[8] All’interno del romanzo monologico la voce dei personaggi risponde all’ideologia dell’autore e dunque non possiede un punto di vista assiologico sulla realtà. Tale approccio priverebbe il romanzo della propria autonoma capacità di senso e della possibilità d’esser portatore di ragioni di verità.

[9] In riferimento al saggio filosofico Nietzschiano Al di là del bene e del male, preludio di una filosofia dell’avvenire (1886), in cui l’autore teorizza la possibilità, e anzi l’auspicabilità, di un uomo-filosofo del futuro non più soggetto ai vacui ed insignificanti valori morali. In questo testo espone, in termini diretti, i temi che segnano la sua maturità filosofica fino all’estremo mettere in dubbio la validità stessa di una qualunque morale.

[10] M. Bachtin, cit., p. 89.

[11] Cfr. ivi, capp. I e II.

[12] F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, a c. di Sossio Giametta, Rizzoli, Trento 2012, p. 169.

[13] Ibidem.

[14] Ibidem.

[15] Ibidem.

[16] Ivi, p. 171.

[17] F. Nietzsche, La gaia scienza e idilli di Messina, libro terzo, Adelphi, Milano 2013, p. 162.

[18] L’Oltreuomo può ricordare Rogozin solo nella misura in cui egli pare emanciparsi dalla morale, ma senza la fondamentale fase della presa di coscienza della morte di Dio e della capacità di reggere un mondo senza certezze.

[19] Nel romanzo il Principe Myskin continua ingenuamente e quasi in modo indiscreto a fare domande per cercare di capire il dolore altrui mettendo a nudo la verità.

[20] In riferimento particolare a Così parlò Zarathustra, un libro per tutti e per nessuno. Come successivamente approfondito, di Zarathustra noi non sappiamo nulla; lo conosciamo già nel pieno dell’azione. Sono i concetti filosofici a giungere a lui ed è lui che si fa luogo di manifestazione per questi.

[21] M. Bachtin, cit., pp. 351-352.

[22] Ibidem.

[23] Dal saggio, al trattato, alla lezione, alla sentenza, al motto di spirito fino agli aforismi. La molteplicità dei generi letterari riflette un pensiero che si beffa della pesante costruzione argomentativa logica caratteristica di un sapere dogmatico.

[24] F. Nietzsche, Frammenti postumi, IV: Estate-autunno 1873-Fine 1874, a c. di Mario Carpitella e Federico Gerratana, Adelphi, Azzate 2005, p. 188.

[25] Cfr. K. Löwith, Nietzsche e l’eterno ritorno, Laterza, Bari 2010, p. 11.

[26] Naturalmente ad una lettura integrale dell’opera dell’autore tale impressione svanisce, e le affermazioni così nette e taglienti in Così parlo Zarathustra sono ricondotte al termine di un percorso filosofico lungo ed approfondito. Ne ritroviamo anticipazioni sia nelle opere precedenti dell’autore che in alcuni filosofi, musicisti, letterati a lui antecedenti, tra cui appunto Dostoevskij.

[27] F. Nietzsche, Ecce homo, come si diventa ciò che si è, Adelphi, Milano 2014, pp. 94-96 (corsivo mio).

[28] Ivi, p. 97.

[29] Ivi, p. 99.

[30] Cfr. ibidem.

[31] L’ascolto è elemento pregnante d’ogni tipo di rivelazione (in questo caso di quella filosofica), ma in particolare di quella cristiana. Questo è emblematico nella misura in cui l’ascolto che dà inizio all’opera nietzschiana è volto proprio alla confutazione del cristianesimo stesso.

[32] Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, un libro per tutti e per nessuno, cit., pp. 183-184.

[33] Cfr. ivi, pp. 43-45.

[34] Stiamo ovviamente parlando di due piani di verità diversi. Il principe è immerso nella vita terrena, Nietzsche si muove tra i concetti. Le false verità che il principe vuole smascherare sono il semplice chiudere gli occhi dei personaggi dinnanzi al dolore, menzogne anch’esse vitali ma della vita di tutti i giorni. Nietzsche parla di menzogne vitali radicate nell’animo umano e dunque di tutt’altra portata.

[35] Cfr. M. Bachtin, cit., p. 236.

[36] Ivi, p. 238.

[37] Cfr. ivi, pp. 338-339.

[38] F. Dostoevskij, L’idiota, Garzanti, Milano 1983, p. 146.

[39] Un esempio di tali intuizioni e della capacità di leggere gli altri personaggi è riscontrabile all’inizio del romanzo. Il principe si trova ancora nello studio del Generale Epancin, quando gli viene chiesto se secondo la sua opinione Rogozin (ch’egli aveva incontrato solo una volta, poco prima) avrebbe sposato Nastas’ja e lui risponde che sì la avrebbe sposata, ma poi sarebbe stato capace di ucciderla. Risolvendo così, in un primo momento di intuizione, l’intero esito del romanzo. O ancora, poco dopo, quando gli si chiede di analizzare i visi della Generalessa e delle sue figlie e lui tratteggia il carattere simbolico della loro bellezza, mettendo subito in luce la differenza che vi è tra questi e quello di Nastas’ja. (cfr. ivi, pp. 17-100).

[40] Ivi, pp. 25-27.

[41] In riferimento ad una lettera personale dell’autore, scritta al fratello Michail dalla fortezza di Pietroburgo di Pietro e Paolo il 1849, in cui egli racconta in prima persona la storia narrata dal principe nel romanzo.

[42] F. Dostoevskij, L’idiota, cit., pp. 83-95.

[43] Ivi, p. 91.

 

Articolo seguente: L’idiota” e la morale nietzschiana: il principe Myskin e “L’anticristo” (2)

 

 


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