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“L’idiota” e la morale nietzschiana: il principe Myskin e “L’anticristo” (2)

“L’idiota” e la morale nietzschiana: il principe Myskin e “L’anticristo” (2)

Lug 27

 

 

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2. La possibilità della morale: La coscienza e il Dio cristiano

2.1 La coscienza per Fëdor Michajlovič Dostoevskij e per Friedrich Nietzsche

Imprescindibile è, per entrambi gli autori, la ricerca rispetto al sé come primo punto di riferimento. Dostoevskij si inserirà nell’ottica kantiana [43] dell’esistenza dell’io, come coscienza morale, possibile solo se garantita da una valenza sovrasensibile di valori identificati con un Dio che se ne fa garante. Nietzsche invece porrà l’inizio della ricerca prima di tale presupposto, mettendo la coscienza al centro della sua indagine genealogica ma non dandone per assodato la valenza etica che invece pervade ed è supporto fondamentale della tesi presentata ne L’idiota.

Come sempre per Nietzsche i concetti non sono immediati nell’interpretazione, e l’analisi della coscienza, essendo al centro del discorso morale, diviene ancor più complicata e allo stesso tempo ricca di significati. L’autore pare a volte contraddirsi o correggersi, presentandoci una travolgente valanga di concetti, che nella struttura sembra rispecchiare la natura del dionisiaco; tuttavia una conoscenza completa permette non solo di carpirne la coerenza intrinseca, ma anche di comprendere la circolarità che ci fa raggiungere, concentrandoci su un elemento particolare, sfumature di significato sempre nuove.

La domanda principale, da cui muove la sua analisi è se esista davvero un accesso immediato alla coscienza, successivamente si interrogherà sull’utilità della stessa per l’uomo e sul come avvenga, e cosa giustifichi, la sua particolare invenzione (se di invenzione si tratta). Prima di ricostruire una descrizione completa del concetto di coscienza per Nietzsche, vogliamo effettuare alcune considerazioni preliminari.

Un elemento che occorre mettere in evidenza è come il discorso sulla coscienza sia, in Nietzsche, intrecciato al discorso sulla conoscenza. Subito è chiaro che l’esistenza o meno di questa sia legata ai concetti di verità ed inganno. Già Eraclito parlava di coscienza in termini di profondità; ebbene, questo gioco di superficie e fondo pare essere colto magistralmente anche da Nietzsche, e anzi messo in primo piano nella sua indagine rispetto all’io. Nel saggio filosofico Al di là del bene e del male Nietzsche, riferendosi a questo tema, afferma: “Tutto ciò che è profondo ama la maschera; […] Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: ancor più, intorno ad ogni spirito profondo cresce in continuazione una maschera, grazie all’interpretazione costantemente falsa, e cioè piatta, di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita, che da lui si esprime [45].

Anche per Dostoevskij, per giungere alla verità, si passa dalla definizione di coscienza, ma è esattamente in questo frammento che si cela la differenza sostanziale alla base delle due riflessioni: in Nietzsche la dicotomia tra profondità e superficialità, tra vero e falso, non si snoda tanto in un’antitesi quanto nell’intreccio inscindibile esistente tra i due concetti: quando si dice verità, si dice anche menzogna. Contrariamente, per Dostoevskij, tali elementi sono antitetici e non sovrapponibili se non dialetticamente, e questo è precisamente reso possibile dall’esistenza certa di Dio.

Secondariamente, riferendoci all’opera Su verità e menzogna in senso extramorale [46], possiamo evidenziare il legame che stringe il concetto di verità e quello di linguaggio; dall’ipotesi nietzschiana sulla nascita del linguaggio deriva la scoperta della coscienza in chiave semiotica. La sua nascita ha motivo di utilità e la identifica in una funzione particolare. All’interno di questo saggio Nietzsche spiega come la parola provenga da uno stimolo nervoso causato da qualcosa di esterno che il soggetto percepisce, tale stimolo produrrebbe un’immagine mentale (prima metafora), che viene identificata dall’individuo in un suono (seconda metafora), segnando così, a partire da questo collegamento, la nascita del linguaggio. La conseguenza diretta della nascita del linguaggio è la nascita del concetto di verità e di quello di menzogna che, al di fuori del piano unicamente linguistico, perdono motivo di esistere. Il linguaggio arriva a designare universalmente le cose, ed è in questa universalizzazione che, per la prima volta, sorge il contrasto tra il vero e il falso [47]. “Se io formulo la definizione del mammifero e poi, vedendo un cammello, dichiaro: «Ecco un mammifero», in tal modo metto bensì in luce una verità, ma questa è di valore limitato, voglio dire che essa è in tutto e per tutto antropomorfica e in essa non vi è un solo punto che sia «vero in sé», reale e universalmente valido a prescindere dall’uomo” [48], afferma Nietzsche. In quest’ottica la coscienza appare come fenomeno metaforico che sorge all’interno del linguaggio.

L’intelletto, come il mezzo per la conservazione dell’individuo, dispiega le sue forze principali nella finzione, giacché questa costituisce il mezzo che permette agli individui più deboli, meno robusti, di conservarsi, essendo loro negata la lotta per l’esistenza da combattersi con le corna e con le zanne aguzze degli animali feroci. Nell’uomo quest’arte della finzione giunge al culmine. [49]

Importanza determinante è data proprio all’utilità di questa finzione. Prima ci dimentichiamo della nascita della verità, dovuta unicamente al linguaggio comunicativo, allora ci convinciamo dell’esistenza della cosa in sé. Perdiamo memoria del fatto che questa è stata creata da un’astuzia dell’intelletto utile alla vita, in primo luogo perché permette la comunicazione, ma ancor più perché l’impulso alla creazione di verità volge a designare punti di riferimento che rendono sostenibile la realtà. L’idea che la coscienza abbia un’utilità molto si allontana dalla gratuità caratteristica di una coscienza nella sua valenza morale. La funzione comunicativa appare fortemente sottolineata anche ne L’idiota, ma la differenza è che per Nietzsche se questa imprescindibile utilità dovesse cadere svanirebbe, con il suo uso, anche la coscienza stessa.

Abbiamo così chiarito la relazione causale che per Nietzsche sussiste tra utilità, linguaggio, verità e coscienza. Per Dostoevskij grazie alla coscienza possiamo avvicinarci alla verità, per Nietzsche la verità, finanche quella coscienza, è creata dall’astuzia della stessa che si dirige alla vita. Nel testo di Dostoevskij la coscienza è dialogica, si manifesta e si muove verso la verità grazie al linguaggio, per Nietzsche il linguaggio è un passaggio fondamentale nella creazione della verità stessa.

Un’altra considerazione necessaria è come, anche se in Nietzsche in modo radicale e in Dostoevskij in modo solamente dialettico, per entrambi la distinzione tra realtà e menzogna sia relativa. Ne L’idiota i toni sono meno marcati e non hanno accezione ontologica, ma facendo riferimento al carattere dialettico della coscienza possiamo affermare che sia proprio questo a permettere l’incontro senza negazione degli opposti. Questa dinamica è certo resa possibile dalla struttura polifonica del testo che, come afferma Bachtin, riguarda primariamente il genere del romanzo [50] e che non si esaurisce negli schemi grammaticali del discorso diretto e indiretto, in quanto i modi di introdurre, organizzare ed evidenziare l’idea sono multiformi [51]. Un primo esempio sta nella forma stessa del romanzo che permette la compresenza senza contraddizione di diverse visioni del mondo, tutte vere e che identificandosi nei personaggi tendono verso l’unica verità di un senso universale, in cui troveranno la propria legittimazione. Più nello specifico possiamo fare l’esempio del principe: egli continuamente si pone domande sulla verità, indagando nella realtà il suo perché, senza però mai mettere in discussione il suo garante. Zarathustra, nel celebre passo “Il convalescente”, affermerà: “Come è bello che esistano parole e suoni: parole e suoni non sono forse arcobaleni e ponti apparenti tra cose eternamente disgiunte?” [52].

Poste queste premesse possiamo cercare di capire quali siano le caratteristiche che delineano la fisionomia della coscienza per Nietzsche. Mediante l’analisi genealogica ne è stata definita l’origine: l’umano genera le verità che permettono la vita. Tra queste vi è la verità della consapevolezza ed in particolare della consapevolezza del sé che si identifica con la coscienza, ma questa per Nietzsche non è che una camera, una cella, una fessura dalla quale spiare la moltitudine antica e radicale dell’essere, il divenire inesauribile del dionisiaco, il tigresco su cui noi non abbiamo alcuna possibilità di controllo. La coscienza è solo un sogno che sta all’apollineo come il divenire sta al dionisiaco.

A questa volontà di illusione, di semplificazione, di maschera, di mantello, insomma di superficie – giacché ogni superficie è un mantello – si contrappone quella sublime tendenza dell’uomo della coscienza, che prende e vuole prendere le cose nella loro profondità molteplicità e radicalità, quella specie di crudeltà della coscienza […]. Sono parole belle luccicanti, tintinnanti pompose: onestà, amore della verità, amore della sapienza, sacrificio per la conoscenza, eroismo del vero – c’è qualcosa in esse che fa gonfiare d’orgoglio. Ma noi eremiti e marmotte ci siamo persuasi da un pezzo, in tutta la segretezza della nostra coscienza di eremiti, che anche questo venerabile sfarzo di parole, fa parte dell’abbigliamento. [53]

In questo frammento Nietzsche ci mostra l’altra faccia della coscienza, l’altro impulso incancellabile radicato nell’uomo: la ricerca della verità [54]. La coscienza è sì, in una prima accezione, utile alla creazione di punti di riferimento vitali, ma essa lavora incessantemente anche su un altro piano, più a fondo e più crudelmente. Per farci aprire gli occhi e riscuoterci dal torpore ovattato in cui prima ci ha relegato, la coscienza inizia, inesorabilmente, a tormentare la fessura, allargandola per spiare l’abisso che non serve alla vita, ma che l’uomo agogna insaziabilmente. È in questo modo che riaffiora quella verità che l’uomo aveva così opportunamente dimenticato garantendosi una vita felice.

Solo quando l’uomo dimentica quel primitivo mondo di metafore, solo quando la massa originaria di immagini – che sgorgano con ardente fluidità dalla primordiale facoltà della fantasia umana – si indurisce e irrigidisce, solo quando si crede, con una fede invincibile, che questo sole, questa finestra, questo tavolo siano verità in sé: in breve, solo quando l’uomo dimentica se stesso in quanto soggetto, e precisamente in quanto soggetto artisticamente creativo, solo allora egli può vivere con una certa calma, sicurezza e coerenza. Se egli potesse uscire soltanto per un attimo dalle mura segregatrici di questa fede, la sua “autocoscienza” si dissolverebbe allora d’un tratto. [55]

Una delle conseguenze più determinanti del pensiero nietzschiano è il prospettivismo: ne La volontà di potenza egli affermerà: “contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni dicendo «ci sono tali fatti», io direi: no, appunto i fatti non esistono, esistono solo interpretazioni” [56]. Ogni istinto cattura il mondo secondo una determinata prospettiva: ne La genealogia della morale, Nietzsche si chiede infatti se possa esistere qualcosa come un occhio puro [57] e risponde negativamente: l’occhio si costituisce sempre in relazione a ciò che vede e il vedere è sempre prospettico.

Anche ne L’idiota il mondo è catturato in modo personale dai diversi personaggi, in relazione al loro percorso e alle loro caratteristiche, ma in questo caso, presupponendo sullo sfondo una realtà universalmente valida, è più appropriato parlare di soggettivismo. I personaggi vivono in modo soggettivo una verità vera in modo indipendente, mentre la verità di Nietzsche si riduce esattamente a questo: l’interpretazione. La conoscenza, e conseguentemente la coscienza, appare prospettica. Ne La gaia scienza, Nietzsche affermerà che vi sono due elementi che definiscono la scienza: uno fideista ed uno nichilista. L’aspetto fideista sta nel fatto che su uno sfondo prospettivista la scienza necessita di una fede assolutamente metafisica per dirsi vera, mentre quello nichilista semplicemente vede nella volontà di verità (e quindi di inganno) una profonda volontà di morte [58]. Certo, la presenza in ogni cosa della fede, e il suo inscindibile legame con la vita, è un messaggio fortemente caro anche a Dostoevskij, presente in tutto il romanzo e sottolineato dal tocco del principe. Tuttavia, se la fede di Dostoevskij è assolutamente positiva e gratuita, quella di Nietzsche vive solo in relazione alla sua utilità e cade con il cadere della sua funzione; torniamo così alla differenza di fondo tra le riflessioni dei due autori.

La ricerca dell’uomo teoretico nietzschiano è contrapposta al gioco dell’uomo intuitivo e creativo, ma se verità e menzogna non esistono allora possiamo parlare non tanto di contrasto, quanto di un rapporto dialettico. Dunque l’uomo teoretico diventa l’estensione apollinea dell’uomo intuitivo che invece incarna lo spirito dionisiaco della coscienza. Come Dostoevskij, Nietzsche, in questo caso, ci offre due volti che simbolicamente riassumono queste idee: Parmenide ed Eraclito. Il primo irrigidisce l’essere, il secondo ne coglie il divenire continuo. Insieme rappresentano i due impulsi della coscienza in modo più completo; come sempre è la pluralità a ritrarre in modo più fedele la vita. Allo stesso modo ne L’idiota sono gli uomini, le vicende e le riflessioni a rappresentare tutte le sfaccettature della realtà riportata nella sua pluralità.

In linea con questo principio altre definizioni di coscienza sono presentate da Nietzsche nelle sue opere. In Aurora, e ancor più ne La gaia scienza, la nozione di coscienza apparirà di ordine fisiologico. Lo spirito viene descritto alla stessa stregua di un qualunque altro organo che, al servizio del corpo, svolge la sua particolare utilità. La coscienza è per Nietzsche “un più o meno fantastico commento di un testo inconscio, forse inconoscibile, e tuttavia sentito? Si prenda una piccola esperienza vissuta” [59]. La coscienza non è una sintesi delle emozioni, ma è l’organo che le crea ed inventa.

Nella parte de La gaia scienza dove vengono indagate l’origine della conoscenza e della logica, emergono dei tratti descrittivi della coscienza molto precisi. Questa appare in costante evoluzione, come ogni organo vivente, appare come il più tardo e miserevole sviluppo dell’organico (avendo incorporato nient’altro che errori), e soprattutto viene ipotizzato che proprio in virtù della sua capacità di evolvere, potrebbe divenire un compito ed aprirsi ad un futuro ruolo glorioso nonostante la sua provenienza. È chiaro che per Nietzsche è necessario entrare in una fase di modestia della coscienza, iniziando nel contempo a prestare più attenzione alla sfera della corporeità. La coscienza va intesa come un risultato genealogico di una lunga serie di pratiche ed esperimenti compiuti con la verità. È un elemento transitorio che ci deve condurre, in ultima istanza, all’anticristo [60]. Questa interpretazione nietzschiana di coscienza è quella di certo più distante dal concetto presente nell’opera di Dostoevskij.

Ne La volontà di potenza, Nietzsche afferma esplicitamente la superfluità della coscienza [61]; in questo testo la sua esistenza viene vista unicamente in relazione al nostro bisogno di cause: viene creata una ragione che spiega il sentirsi in un determinato modo. Lo stato viene interpretato secondo una pulsione di causalità, ma per Nietzsche questa è ancora una volta solamente fittizia:

Nulla è più fenomenico (o più chiaro), nulla è tanto illusorio quanto questo mondo interiore che noi osserviamo col famoso “senso interno”. […] Tutto ciò di cui diventiamo consapevoli è un fenomeno finale, una conclusione – e non causa nulla; ogni successione nella coscienza è completamente atomistica. E noi abbiamo cercato di comprendere il mondo concependolo nella maniera opposta – come se nulla agisse e fosse fuorché il pensare, il sentire, il volere… [62]

Anche ne L’Idiota la questione della causa, ed in particolare alla causa del dolore, è motivo di ricerca e quasi porta l’uomo all’ossessione, ma la causa nietzschiana è creata, e si manifesta, solo in quanto bisogno dell’uomo. Tratto interessante è quello della volontà, che pare essere introdotta ovunque vi sia un effetto; generalmente si pensa che il divenire coscienti rispetto al rapporto causa effetto sia qualcosa che renda superiori (tant’è che in Dostoevskij la consapevolezza di Myskin è uno degli elementi che lo distanzia da tutti gli altri, quella di Nastas’ja è ciò che in ultimo la riscatta e la lucidità, solo fugace, di Rogozin è ciò che lo fa apparire positivamente umano), ma per Nietzsche questo ruolo della coscienza è largamente sopravvalutato e, anche per quanto concerne la volontà, il solo elemento determinante è quello del corpo.

“corpo io sono e anima” – così parlò il fanciullo. E perché non si dovrebbe parlare come i fanciulli?
Ma il risvegliato, il sapiente dice: corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro; e anima non è altro che una parola per indicare qualcosa del corpo.
Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un senso, una guerra e una pace, un gregge e un pastore. Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, fratello, che tu chiami “spirito”, un piccolo strumento e giocattolo della tua grande ragione. [63]

Ancora una volta la coscienza appare come uno strumento del corpo; è più giusto allora intendere il corpo come il sé e l’io, che esiste solo sotto forma di coscienza, come strumento. Il sé domina l’io che è ambito ristretto, e può anzi essere considerato come mero epifenomeno. Partendo da questo presupposto un ulteriore passaggio ci porta all’analisi della coscienza come azione; gli stati della coscienza non sono da intendere come facoltà soggettiva, ma come pulsioni espresse gerarchicamente.

La volontà mi sembra soprattutto qualcosa di complicato, qualcosa che è unità soltanto come parola […]. Siamo dunque per una volta più prudenti; siamo “antifilosofici” ‒ diciamo: in ogni volere c’è anzitutto una pluralità di sentimenti, […] in ogni volizione c’è un pensiero che comanda – e non si deve affatto credere di poter separare questo pensiero dal “volere”, come se allora restasse ancora la volontà! [64]

In questa nuova ottica il nostro corpo non è che l’organizzazione di molte anime (se così possono essere definite) in costante movimento. Sono allora presenti moltissime coscienze perfettamente organizzate. Ciò che appare come azione della coscienza è, dunque, solo una lotta tra le volontà di potenza dei diversi elementi che compongono il corpo.

In ultimo, riprendendo la premessa, la coscienza può essere considerata come attività semiotica e luogo d’interazione di segni. In questo senso potremmo definire la coscienza come una sorta di rete di collegamento tra gli individui.

Mi sembra che la sottigliezza e la forza della coscienza sia d’altro canto in rapporto con il bisogno di comunicazione […]. Mi è lecito procedere alla supposizione che la coscienza in generale sia sviluppata soltanto sotto la pressione del bisogno di comunicazione […] Coscienza è propriamente soltanto una rete di collegamento tra uomo e uomo – solo in quanto tale è stata costretta a svilupparsi: l’uomo solitario, l’uomo bestia da preda non ne avrebbe avuto bisogno. [65]

Questo aforisma, intitolato “Del genio della specie”, si divide in due parti: nella prima parte Nietzsche stabilisce l’origine comunitaria della coscienza e nella seconda comincia a tratteggiare i contorni morali del suo discorso. Si sottolinea come il genio della specie sia per l’uomo garanzia di sopravvivenza: la comunità (intesa come gruppo di persone), o la totalità (intesa come parti di un organismo) è sempre prioritaria rispetto al singolo. L’uomo comincia come parte di un insieme e i suoi istinti non sono nulla di originario, ma il frutto di un’opera di assimilazione. In seguito, Nietzsche dirige la riflessione verso il concetto di volontà di potenza: se il comunicare è sempre instaurare una gerarchia e non è mai privo di finalità, allora appare come un mezzo per afferrare l’altro e diventare un corpo più grande. L’individualità è estroflessione comunitaria dalla quale l’aspetto apollineo emerge nel momento in cui il soggetto è espressione del tutto, e l’aspetto dionisiaco quando l’individuo, a costo di grandi sofferenze, si stacca e determina come tale.

Questo carattere estroflesso della coscienza trova grande riscontro ne L’idiota, che esplora l’io solo in modo dialogico. Differenza sostanziale, invece, sta nel fatto che Dostoevskij non vede l’interazione come un assoggettare l’altro, ma come ciò che rende possibile la ricerca della verità, attraverso l’incontro con una voce diversa determinante per l’inizio del movimento. Inoltre per Dostoevskij appare che è precisamente in questo incontro con il diverso, e non nello stacco definitivo dalla comunità, che l’uomo può rendersi conto della propria individualità.

L’uomo moderno di Dostoevskij, che ha vissuto il dramma della perdita delle prospettive di senso, vive in un mondo che gli appare estraneo, ma in quanto uomo non potrà mai rassegnarsi all’insensato giacché è proprio l’esigenza del senso che lo costituisce come autocoscienza. Ne L’idiota ad incarnare questo sentimento è proprio il principe Myskin: egli non si dà pace e continua a porsi le stesse domande sul problema dell’esistere. Questa ricerca consiste nella sua stessa auto realizzazione, ma il percorso, non privo di insidie, lo può portare a cedere a due tentazioni opposte rappresentate dallo scetticismo (nichilismo completo) o dal dogmatismo [66].

Per entrambi gli autori queste tendenze negano in assoluto l’essenza umana, e dunque non devono essere intraprese; l’inevitabile conseguenza è la crisi radicale che rappresenta la dialettica della vita umana in cui, secondo Dostoevskij, vi è la possibilità di realizzarsi come libertà. Nel romanzo questo percorso verso Dio passa per il ritrovare se stesso, confermando l’uomo primariamente come ricerca di senso.

Emblematico è che, benché per entrambi gli autori noi riaffermiamo il nostro io più autentico proprio nel momento in cui siamo assaliti dal dubbio in modo più radicale, per Dostoevskij il nostro io profondo corrisponde al nostro sentirci ricerca del senso e per Nietzsche, in modo diametralmente opposto, nella nostra definitiva emancipazione dallo stesso.

2.2 Il Dio cristiano per Fëdor Michajlovič Dostoevskij e per Friedrich Nietzsche

Abbiamo stabilito il ruolo della coscienza come prima prospettiva di senso immediatamente indagabile ed accessibile; è ora interessante mettere in luce il rapporto che intercorre tra questa e la fede. Entrambi elementi apparentemente indispensabili alla vita dell’uomo, essi non smettono mai di influenzarsi ed anzi di determinarsi.

In un’ottica genealogica nietzschiana, e comunque ad uno sguardo storico, anche la coscienza appare soggetta a mutamenti nel corso del tempo. La coscienza greca era inserita in un contesto dove la società occupava un ruolo predominante nella vita dell’individuo, e dunque dove vergogna ed orgoglio derivavano dal confronto con essa, rendendo la coscienza estroflessa. Con la nascita del cristianesimo, dove i sentimenti della concezione del sé scaturiscono primariamente da un confronto personale con Dio, dando origine ad una coscienza viva nell’interiorità dell’uomo, essa è soggetta all’assimilazione e poi alla coincidenza con il concetto di morale. Nascono espressioni come voce della coscienza, con cui comunemente intendiamo i principi che, dentro di noi, ci guidano sulla via dell’etica e della giustizia. La precettistica cristiana prescrive l’uso dell’esame di coscienza come metodo per rintracciare i propri errori morali e questa inizia ad essere concepita come una sorta di sorgente di verità per giungere a quei principi certi alla base d’ogni retto volere. La fede, in stretta analogia con la verità, diviene una sorta di estroflessione della coscienza, una coscienza comune cristianamente valida per tutti poiché, ancora una volta, garantita dalla sua valenza divina.

Se la coscienza cristiana di Dostoevskij è certamente identificabile con la nostra libertà interiore, a sua volta garantita dal dono divino del libero arbitrio, allora il rapporto tra questa e la fede è imprescindibile.

Per Nietzsche la libertà non può essere garantita da una fede, e anzi il libero arbitrio, inteso da Nietzsche in modo diverso, come rispondente non tanto alla volontà individuale quanto all’istinto corporeo, è il liberarsi degli elementi fideistici che costellano la vita dell’uomo. Anche per Nietzsche allora fede e coscienza sono legate, ma nel loro essere menzogne.

Entrambi gli autori hanno una visione ben definita dei fenomeni di fede e cristianesimo, anche al di fuori della personale posizione che li vede su due piani inconciliabili, mentre in qualche modo si incontreranno nella figura di Cristo e nella coerenza dei valori da lui veicolati.

Il tema del cristianesimo è trattato in modo diretto da Nietzsche nelle due sconvolgenti opere La genealogia della morale. Uno scritto polemico [67] e L’anticristo, maledizione del cristianesimo [68]. Nella prima l’atteggiamento è ancora una volta spiccatamente teoretico, e prende di mira la morale nella sua accezione più generale, dedicando al cristianesimo solo lo spazio storico che gli concerne, ma riconoscendone il ruolo determinante. Ne L’anticristo l’affondo è più diretto e il tono più tagliente. La critica, che si dirige precisamente verso questo fenomeno, è sintetizzata nelle inquietanti leggi contro il cristianesimo in chiusura del testo. Il saggio mantiene un tono profetico e quasi propiziatorio [69], tanto che Nietzsche afferma “Nuove orecchie per nuova musica” [70] per intendere la radicale rivoluzione sottintesa al testo.

La genealogia della morale scandisce crudelmente quei passi che arrivano a definire, nei suoi tratti caratteristici, la morale stessa. Mettendo tristemente e miseramente in luce la parte più povera e bassa dell’umanità, la trattazione è effettuata in modo storico, partendo dunque da un primo felice momento in cui forza e positività coincidevano in modo completo, fino ad arrivare ad oggi quando ormai questo genuino modo di vivere, semplice ed istintivo, si è completamente corrotto.

Riprendiamo brevemente i passaggi storici, individuati dall’autore nelle tre dissertazioni di cui si compone l’opera. Nietzsche sottolinea come tutte le società siano originariamente divise in caste e come le dominanti siano quella dei guerrieri e quella dei sacerdoti, che esercitano quel tipo di morale spontanea nostalgicamente descritta nel testo. I sacerdoti, vedendosi sempre prevaricare dai guerrieri, più forti fisicamente, e mossi da risentimento, si alleano con gli schiavi, dando così luogo a quel movimento fatidico da cui non si potrà più tornare indietro se non al prezzo di incredibili sacrifici: la prima trasvalutazione dei valori. Il buono, prima identificato con la morale dei signori e che nasceva da sentimenti di pienezza concretizzati in forza, fierezza, gioia e salute, si identifica ora con quella che viene chiamata da Nietzsche morale degli schiavi, misera perché solo morale di reazione, che si concretizza in disinteresse, pietà ed umiltà.

Un dire di no alla vita elevato a suo maggiore significato, ma questa vendetta dell’impotenza non si ripercuote solo sui padroni, ma anche su tutto il genere umano e segnerà un lungo periodo in cui la non vita verrà innalzata a, ed addirittura glorificata come, suo esatto contrario [71]. Alla luce di questo percorso, nella seconda dissertazione, Nietzsche torna a trattare il tema della coscienza che inevitabilmente è soggetta a nuove interpretazioni.

Allevare un animale, cui sia consentito far delle promesse – non è forse precisamente questo il compito paradossale impostosi dalla natura per quanto riguarda l’uomo? Non è questo il vero e proprio problema dell’uomo? … il fatto che questo problema sia risolto fino a un alto grado dovrà apparire tanto più sorprendente a colui che sa pienamente apprezzare la forza agente in senso contrario, quella del dimenticare [72].

La coscienza è vista, ne La genealogia della morale, come l’istinto dominante elaborato al fine di far sopravvivere l’uomo nel mondo. Continuando con la descrizione dell’impoverimento dello spirito Nietzsche tratta allora il tema dell’uomo comunitario. Per vivere con gli altri questi, proiettato verso il futuro [73], si indebita con il prossimo dando origine ad un’altra concezione erronea che Nietzsche ci espone nella sua domanda: “donde ha derivato il suo potere quest’idea antichissima, profondamente radicata, oggi forse non più estirpabile, l’idea di un’equivalenza di danno e dolore?” [74].

Procedendo nella sua analisi Nietzsche dice che per salvaguardare se stesso, e divenire più grande, l’uomo si lega all’altro allontanandosi sempre di più dalla propria origine, ed è proprio correlativamente a questo indebitamento che nascono il senso di colpa e la cattiva coscienza, intesa come una coscienza che non potendo più sfogare i propri istinti bestiali da attiva diviene passiva della propria volontà di potenza.

Quella grave malattia in balia della quale doveva cadere l’uomo sotto la pressione della più radicale tra tutte le metamorfosi che egli abbia mai vissuto – quella metamorfosi in cui si venne a trovare definitivamente incapsulato nell’incantesimo della società e della pace. [75]

Nasce inoltre la coscienza della colpa, fortemente legata al Dio ebraico-cristiano, che, sacrificando addirittura il proprio figlio, rende il nostro debito nei suoi confronti impossibile da saldare e così pesante da non poter quasi essere retto psichicamente, segnando una sorta di prima apertura verso l’ateismo. In questo processo è ancora una volta determinante la forza del dimenticare umana, che lo porta a smarrire la vera origine di tale entità [76]. Tuttavia per l’autore la deriva peggiore della dinamica descritta è lo svilupparsi dell’ideale ascetico, la negazione della vita e la spiritualizzazione dei bassi istinti, che vengono indagati nella terza dissertazione. Dietro alle belle parole ascetiche si camuffa la volontà di potenza. L’asceta è profondamente attaccato al proprio ego e dunque alla vita. Il suo tentativo di innalzarsi sulla mediocrità nasconde un tentativo di imporsi terrenamente su di essa e la volontà di morte è un simbolo d’orgoglio profondo, è la volontà di potenza che piuttosto che non volere vuole il nulla; l’asceta appare allora come forse il più attaccato al proprio corpo.

L’uomo accetta di soffrire, ma non può accettare di soffrire senza motivo, ed eccolo inventare il peccato per dare al soffrire una giustificazione. Inventa il lavoro, l’espiazione e l’amore per il prossimo per giustificare e chiudere gli occhi dinnanzi ai suoi più bassi (più alti secondo l’autore) istinti [77].

Il passaggio più interessante per il nostro discorso è certamente quello segnato dalla seconda dissertazione, in cui Nietzsche analizza l’azione del cristianesimo nel processo che definisce la coscienza. Il cristianesimo è una piaga, è ciò che ci fa ammalare e ci allontana dalla vita.

Atteniamoci ai dati di fatto: il popolo ha vinto – ovvero “gli schiavi” o “la plebe” o “il gregge”, chiamateli come vi piace – e se questo è avvenuto per mezzo degli ebrei, ebbene mai un popolo ha avuto una missione più grande nella storia del mondo […] La “redenzione” del genere umano (dai “signori”) è sulla migliore delle strade; tutto si giudaizza o si cristianizza o si plebeizza a vista d’occhio. [78]

Questo passo, così amaro, ci fa capire quanto sia precisamente verso il cristianesimo che Nietzsche dirige la sua accusa, come momento della svolta nella decadenza. Il cristianesimo non è stato che l’apice di un processo di colpevolizzazione ed interiorizzazione, che ora però, sostiene ottimisticamente l’autore, è pronto a cadere insieme ai suoi alienanti valori.

Abbiamo nietzschianamente analizzato il ruolo del cristianesimo da un punto di vista teoretico e nel suo significato storico. Anche Dostoevskij si pone al centro della domanda, ma contrariamente all’analisi concettuale di Nietzsche, la sua ricerca è già all’interno dell’ottica di totale accettazione del cristianesimo.

Quella di Dostoevskij è un’intuizione umana del mondo e dell’esistenza che ruota intorno alla sacralità della vita, una sacralità che non può avere altra motivazione che la sua stessa origine divina. La fede ortodossa è la stella guida nel discorso di Dostoevskij, e tutte le domande vengono fatte all’interno di quest’ottica già certa e decisa. Dostoevskij non si pone mai all’esterno di questa prospettiva e questo perché egli ha già deciso per la fede. La sua filosofia è sì una percezione religiosa dell’esistenza, ma si colloca all’opposto dei grandi pensatori cristiani mistici, in quanto nei suoi personaggi viene rappresentata la conseguenza che la tragicità, insita nell’intrinseca libertà umana, può portare all’individuo.

Per Dostoevskij il collegamento tra cristianesimo e coscienza è diretto e ricalca nella struttura il discorso cristiano senza però nascondere elementi di rielaborazione ed originalità. Come già affermato, la coscienza dell’uomo si realizza nella ricerca. L’uomo vive così la vita come libertà di scegliere i modi più autentici della sua auto realizzazione, scelta che non può essere indifferente e che presuppone un alto grado di responsabilità, e cioè impegna la morale individuale [79]. Questa libertà di scelta presuppone il libero arbitrio, elemento indiscusso nell’opera di Dostoevskij, ed anzi si identifica con questo. Libertà e responsabilità, oppure moralità, rappresentano per Dostoevskij dei postulati che l’uomo ritrova originariamente in se stesso nel momento in cui compie delle scelte che lo impegnano, e anzi la scelta sarebbe impensabile se quei postulati non fossero già dati.

Così come nella visione cristiana la moralità viene solo offerta all’uomo, anche per Dostoevskij l’uomo sperimenta la libertà solo come una possibilità, che egli può respingere rifiutandosi di assumere il grave impegno della libertà responsabile, e cedendo a condizionamenti di vario genere cui è costantemente sottoposto. Rogozin ha dei gloriosi momenti di forza e lucidità, ma a causa della sua incapacità di accettare il rischio incommensurabile della responsabilità egli continuamente ricade, rifugiandosi nell’inerzia del comportamento corrotto, che può forse essere posto in analogia all’inerzia dello scetticismo o del dogmatismo completo.

È inoltre importante notare come, nella concezione di cristianesimo di Dostoevskij, la difficile via da intraprendere non venga illustrata da precetti dogmatici, ma si concretizza nell’esempio. Nel caso de L’idiota l’esempio diviene letterario, ma ancor più essenziale è l’identificazione dell’esempio massimo nel Cristo biblico. In questo elemento vi è il suo prender le distanze da quel tipo di cristianesimo, spesso radicato nella visione comune, che nel suo irrigidirsi in precetti a priori perde l’essenza che anima la validità stessa della fede. La sincerità del sentimento religioso, persa nella regola, rinasce nell’esempio pratico cui tendere. Il principe Myskin, con il suo agire, rifiutando l’inerzia indica all’uomo una strada più ardua. Egli rappresenta per Dostoevskij soprattutto la libertà: è la verità che ci rende liberi. Verità che non si esprime in una proposizione, bensì in una scelta di vita, un modello di vita identificato nell’impegno totale ad incarnare responsabilmente la nostra libertà. A questo tende la lettera dell’autore a Natalija Dmitrievna Fonvizina [80] del 1854:

Ho sentito dire da molti che Lei, Natalìja Dmitrevna, è molto religiosa […] Di me Le dirò che io sono figlio del mio secolo, figlio della miscredenza e del dubbio, e non solo fino ad oggi, ma tale resterò (lo so con certezza) fino alla tomba. Quali terribili sofferenze mi è costata – e mi costa tutt’ora – questa sete di credere […] Ciononostante Iddio mi manda talora degl’istanti in cui mi sento perfettamente sereno; in quegl’istanti io scopro di amare e di essere amato dagli altri, e appunto in quegl’istanti io ho concepito un simbolo della fede, un Credo, in cui tutto per me è chiaro e santo. Questo Credo è molto semplice, e suona così: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, più simpatico, più ragionevole, più virile e più perfetto di Cristo; anzi non soltanto non c’è, ma addirittura, con geloso amore, mi dico che non ci può essere. Non solo, ma arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità. [81]

Dostoevskij contrappone la verità, intesa come dato dimostrato scientificamente o accettato per fede una volta per tutte, al modello vivo e reale di un’esistenza tutta dedicata alla ricerca che si concretizza nella valenza simbolica del principe. Ma Cristo è anche amore. Libertà ed amore si legano, e vengono a concretizzarsi contemporaneamente, giacché l’uno è condizionato dall’altro e viceversa.

Dostoevskij, inoltre, insiste sul fatto che non bisogna cercare l’oggetto del nostro amore in ciò che è lontano ed astratto, bensì nelle persone con cui le vicende della vita ci mettono in contatto. Allontanandosi ancora dalla rigidità della norma questo è esemplificato nel romanzo. L’uomo è uomo concreto, e ama, come è visibile nella narrazione, di amore concreto. L’autore ha profondamente radicato in sé l’immagine dell’uomo e della sua esistenza, mistero alla cui indagine vuole dedicare tutta la vita, come dichiara appassionatamente nella lettera scritta al fratello Michail nel 1839: “Riesco abbastanza bene nello studio del «significato dell’uomo e della vita» […] L’uomo è un mistero. Un mistero che bisogna risolvere, e se trascorrerai tutta la vita cercando di risolverlo, non dire che hai perso tempo; io studio questo mistero perché voglio essere un uomo” [82].

Appare dunque chiara la correlazione tra i tre elementi di ricerca del senso, libertà di essere sé stessi e Cristo. Dostoevskij è convinto che l’uomo possa trovare la felicità della propria realizzazione soltanto nell’amore per il prossimo e soprattutto nel donarsi agli altri. Viceversa il male sarà il chiudersi ed instaurare con il mondo esterno solo un rapporto di dominio, tramite l’assoggettamento dell’altro-nemico (che invece per Nietzsche costituisce il vero motivo della genesi del cristianesimo).

Alla base di questo discorso vi è un’inesauribile distanza di partenza che non ci permette di far comunicare i due autori. Il Cristo di Dostoevskij da una parte ed il discorso nietzschiano dall’altra, questi rappresentano i due poli opposti in cui si svolge il dramma dell’uomo. Inavvicinabile è la legge della sopravvivenza animale, che mostra il prossimo solo come un concorrente o un rivale da dominare e distruggere, e Cristo come regno della libertà che si realizza nell’amore; cioè nel rifiuto totale della necessità della legge di sopravvivenza e nel libero donarsi agli altri. È l’uomo russo ad essere indagato ne L’idiota [83], e a portare l’autore a definire l’uomo come un essere infinito ed in continua evoluzione. In questo movimento sta il suo rapporto con il divino, e questo movimento porta Dostoevskij ad individuare l’uomo come essenza che continuamente si auto-crea e autodefinisce [84], rendendo impossibile una definizione dogmatica e definitiva. Tale è la dialettica della vita dell’uomo in cui egli si realizza come libertà e coscienza grazie all’esempio di Cristo.

Nella lettera ad Apollon Nikolaevic Majkov, scritta da Ginevra nel 1867, Dostoevskij afferma: “Il deismo ci ha dato Cristo, e cioè una così sublime immagine dell’uomo che non la si può concepire senza un sentimento di venerazione e senza credere che essa costituisca un ideale eterno per l’umanità!”.

In questa affermazione è messa in luce l’essenza della concezione del cristianesimo secondo Dostoevskij, Cristo non può essere concepito senza essere creduto; egli lo concepisce e conseguentemente lo crede.

La crisi del suo secolo lo spingerà fino alle porte dell’ateismo, ma questo avverrà paradossalmente sempre all’interno della fede. Questo carattere è fortemente presente nel romanzo e costituisce la sua opera narrativa sulla tematizzazione della crisi dell’uomo postmoderno; l’uomo vive la sua (personale e mai astratta) crisi come perdita di un criterio universale ed assoluto in base al quale orientare la sua vita e definire i valori che intende perseguire e realizzare nella propria esistenza, ma tutto questo avviene all’interno della prospettiva religiosa.

A sostegno del fatto che la fede cristiana pervade ed è viva in tutta l’opera dell’autore in modo personale sta il dato che tra tutte le realtà egli decide di rappresentare quella a lui immediatamente vicina. Ne L’idiota Dostoevskij rappresenta il destino del mondo nel destino del suo popolo; la sua nazione costituisce secondo l’autore l’ambito naturale e necessario in cui il singolo si dispiega e trova la sua realizzazione, perché essa è strettamente legata al cristianesimo. L’uomo di cui egli scrive è in tutto e per tutto l’uomo russo. Tutte le altre nazionalità gli appaiono come caricature deformi di quell’uomo autentico che solo gli interessa.

L’Europa, che è stata la prima culla dello spirito umano, dopo aver dato al mondo delle altissime testimonianze delle forze creative dell’uomo, lo ha tradito, con il cattolicesimo (fondato sul potere terreno, l’autorità ed il miracolo) e ne ha smarrito definitivamente il significato abbandonandosi all’idolatria della scienza e dei beni terreni [85]. L’Europa ormai è solo un cimitero di memorie religiose e sarà possibile la sua salvezza solo grazie all’intervento della Russia, che la riporterà eroicamente all’autentica spiritualità [86].

Il discorso religioso di Dostoevskij presuppone un uomo radicato in una realtà determinata e quindi limitata. In questo la posizione di Dostoevskij è totalmente opposta rispetto a quella di Nietzsche: per Dostoevskij in tale radicamento l’uomo deve attingere la forza per affrontare la propria limitatezza e superarla senza mai rinnegare la propria realtà più profonda ed originaria nella fede cristiana.

Ne L’anticristo troviamo elementi più fecondi per un confronto tra gli autori; questo non riguarda soltanto il cristianesimo, ma anche la figura di Cristo.

Secondo La genealogia la differenza tra cristiano e pagano dovrebbe consistere soltanto in un grado minore o maggiore di volontà di potenza, ma nella tesa violenza di quest’opera si presuppone qualcosa di più forte, che stabilisce la finale antitesi tra cristiano e anticristiano.

La violenza del testo presupponeva un nemico, ma già a quei tempi la dottrina cristiana non era più temibile; ciò che realmente provoca scalpore, ira e dispetto è uno sconvolgente scambio delle parti, per cui proprio coloro che avevano condotto in precedenza attacchi di ogni genere contro il cristianesimo si vedono coinvolti nella condanna e questo poiché credevano di averlo definitivamente confutato [87]; ciò che ha procurato tanta risonanza al saggio è proprio quella astuzia dell’autore di concentrare ogni maledizione sul nome del cristianesimo. Il bersaglio è dunque collegato alla morale, alla metafisica, alla giustizia, all’uguaglianza tra gli uomini e alla democrazia. L’uomo antico viene contrapposto all’uomo moderno, condannato con il nome di cristiano.

Ancora una volta l’origine della contronatura del cristianesimo è teoreticamente identificata nella menzogna, nella sua accezione più imperdonabile di uomo che mente a se stesso; d’altronde la menzogna trova la propria radice nel cristianesimo stesso e si inscrive su uno sfondo ebraico. Alla base del cristianesimo pare esservi un odio primordiale nei confronti della conoscenza. L’uomo non deve pensare, e poiché il pensiero ha bisogno di felicità, il prete si preoccupa in primo luogo di rendere l’uomo infelice. Nella prima parte del saggio Nietzsche afferma: “Cristiano è un certo senso di crudeltà verso sé e gli altri, l’odio contro coloro che pensano diversamente; la volontà di perseguitare” [88]. E lo strumento per questa necessaria infelicità è la compassione; l’uomo viene così indebolito ed alienato:

Si perde forza quando si ha compassione, con la compassione aumenta e si moltiplica il dispendio di forza che già in sé la sofferenza arreca alla vita. La sofferenza stessa diventa contagiosa attraverso la compassione: a volta può essere raggiunto, con quest’ultima, un dispendio complessivo di vita ed energia vitale che sta in una proporzione assurda con il quantum normale della causa ( – è il caso della morte del Nazareno). […] la compassione intralcia in blocco la legge dello sviluppo che è la legge della selezione. […] Si è osato chiamare la compassione una virtù (- in ogni morale aristocratica essa è considerata una debolezza -) . [89]

La volontà che anima la riflessione de L’anticristo rimane, anche in questo caso e come per Dostoevskij, volontà di conoscenza e comprensione; questa ritrova sempre, in Nietzsche, la propria risoluzione in una speculazione teoretica genealogica, nonostante si diriga esclusivamente al contesto pratico dell’agire e del sentire umano.

Continuando con l’analisi, stando alla base del discorso di Dostoevskij una concezione di morale di tipo kantiano, è importante evidenziare la distanza che Nietzsche stesso pone tra sé e il pensatore:

che non si sia avvertito come pericoloso per la vita l’imperativo categorico di Kant? … l’istinto teologico fu il solo a prenderlo sotto la sua protezione! […] è questa addirittura la ricetta della décadence e persino dell’idiotismo [in nota riferimento voluto a Dostoevskij] … Kant divenne idiota. […] L’istinto erroneo in tutto e per tutto, la contronatura come istinto, la décadence tedesca come filosofiaquesto è Kant! -. [90]

L’atteggiamento storico è presente, nel saggio, primariamente nella parte dedicata all’analisi del redentore; la figura di Gesù Cristo è presentata da Nietzsche in stridente opposizione con il cristianesimo. Il discorso è storico in senso concreto, l’intuizione individuale, e sembra volto a togliere il velo da ciò che la tradizione cristiana ha metodicamente stravolto. “Il cristianesimo nega la chiesa” [91] affermerà Nietzsche, mettendo così in luce un altro collegamento con Dostoevskij: l’azione, la vita stessa, di Cristo supera in modo immediato l’irrigidirsi del precetto e ci riporta nell’autenticità dei valori da lui veicolati. “La parola uccide, tutto ciò che è immutabile uccide. Il concetto, l’esperienza «vita»”, la stasi, l’irrigidimento della norma, che per Dostoevskij nega il sentimento religioso, per Nietzsche arriva addirittura a minacciare la vita.

Essere cristiani diviene addirittura scandaloso, la critica è personale e l’accusa si rivolge contro un soggetto particolare.

Quel che una volta era soltanto malato, oggi è divenuto indecoroso – è indecoroso essere oggi cristiani. E qui ha inizio la mia nausea. ‒ Mi guardo attorno: non è più rimasta una parola di ciò che una volta era detto «verità», non sopportiamo più che un prete anche soltanto pronunci la parola «verità». [92]

Avendo delineato le rispettive concezioni di fede cristiana è ora possibile effettuare alcune considerazioni.

Ciò che appare immediatamente chiaro è come per Dostoevskij vi sia una totale corrispondenza tra il vero senso del cristianesimo e la figura di Cristo, e come tale corrispondenza sia universalizzata in una figura che può appartenere ad ogni epoca ed è portata sulla scena moderna dal volto senza tempo del principe Myskin. Da Nietzsche questa corrispondenza tra cristianesimo come istituzione e Cristo è assolutamente negata. I tratti che appartengono a questo, lontani dal poter essere universalizzati, sono i tratti di un uomo, non che professava, ma che agiva secondo determinati valori, primo tra tutti quello dell’uguaglianza. Il cristianesimo è talmente lontano da questo individuo che, quasi come estremo dispetto, lo ha innalzato a figlio di Dio, rendendolo così simbolo di una estrema disuguaglianza.

Il secondo elemento che distanzia le due concezioni è la gratuità della fede. Per Dostoevskij alla base della moralità cristiana vi è la gratuità dei valori che questa incarna. Nel romanzo il principe regala completamente se stesso senza alcun doppio fine, le sue parole sono dirette e nulla è nascosto dietro ciò che egli manifesta esplicitamente. Contrariamente per Nietzsche nulla nel cristianesimo appare gratuito, e, anzi, la fasulla spontaneità dei valori veicolati dai preti ‒“La varietà di uomo più viziosa è il prete: lui insegna la contronatura. Contro il prete non si hanno ragioni, si ha il carcere” [93] ‒ tende esattamente all’opposto.

Un altro elemento che distanzia i due pensatori è che, se Nietzsche ragiona in modo teoretico ed astratto, Dostoevskij nelle sue lettere, e ancor più nel romanzo, ribadisce in continuazione la necessità di praticare gli ideali cristiani e così facendo, in prima persona, affronta il discorso.

In ultimo possiamo affermare come anche per Dostoevskij non sia diretto il rapporto tra fede cristiana, libertà e felicità autentica data dalla gratuità. La libertà e l’amore sono sempre soltanto una possibilità, una possibilità addirittura precaria e continuamente minacciata.

Il mondo letterario di Dostoevskij è pervaso dal male e il bene è presente solo in sprazzi fugaci, perlopiù in prospettiva, che faticano ad affermarsi stabilmente, giacché il senso vive autenticamente dove viene posto in discussione. Il romanzo è attraversato da perenne angoscia e trepidazione per le sorti dell’umanità, che è sospesa in bilico sul baratro che separa il bene dal male. La salvezza nella fede cristiana non è assolutamente semplice o immediata, ma pervasa di gravante responsabilità, così come la salvezza nietzschiana che presupponendo la totale assenza di norme, e facendo dell’uomo corporeo legislatore di vita, lo rende paradossalmente totalmente responsabile nel momento in cui sta negando la sua responsabilità da un punto di vista morale.

 

Note

[44] In riferimento all’opera Critica della ragion pratica (1788) di Immanuel Kant, che effettua la dimostrazione della necessità della legge morale non a partire dal ragionamento concettuale intellettivo, ma dall’agire pratico dell’individuo. Nell’assetto filosofico kantiano la validità di una tale legge è possibile solo grazie all’esistenza di Dio, dando così origine ad un circolo virtuoso: l’esistenza di Dio è dimostrata dall’evidenza della legge morale e la validità della legge morale è garantita dall’esistenza di Dio. Ovviamente tale dimostrazione è conseguentemente valida solo se esperita in prima persona.

[45] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 1977, pp. 74-75.

[46] Essendo entrati nel merito del discorso morale è giusta una precisazione in relazione al titolo del saggio; con extramorale Nietzsche intende un discorso al di là della distinzione etica tra male e bene, effettuante una ricerca solo sul piano teoretico, e non su quello estetico, mediante l’ausilio del suo metodo genealogico.

[47] Cfr. F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, cit., pp. 172-179.

[48] Ivi, pp. 177-178.

[49] Ivi, p. 170.

[50] Cfr. M. Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Trento 2013.

[51] Ivi, p. 147.

[52] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 245.

[53] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., pp. 154-155.

[54] In questo caso con verità si vuole intendere il come stanno realmente le cose, la ricerca dell’origine, per quanto dolorosa, la verità che si oppone a quelle apparenti e rassicuranti meramente antropomorfe.

[55] F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, cit., p. 178.

[56] F. Nietzsche, La volontà di potenza, a cura di Maurizio Ferraris e Pietro Kobau, Bompiani, Milano 1995, p. 271.

[57] Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Adelphi, Azzate 2011, p 113.

[58] Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza e idilli di Messina, cit., Libro quinto, pp. 252- 255.

[59] F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, cit., p. 92.

[60] Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, cit., Libro terzo, pp. 150-153.

[61] Cfr. F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., p. 289.

[62] Ivi, pp. 268-269.

[63] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 52.

[64] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., p. 56.

[65] F. Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, cit., Libro quinto, pp. 270-273.

[66] Cfr. F. Dostoevskij, Lettere sulla creatività, a cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Bergamo 2011, p. 13.

[67] Composta nell’estate del 1887 e pubblicata agli inizi dell’inverno dello stesso anno, nasce come scritto polemico presentandosi nella consapevolezza del suo carattere provocatorio.

[68] Saggio scritto nel 1888 e poi pubblicato nel 1895 per via dei contenuti controversi.

[69] Il tono propiziatorio è evidente nella datazione del sottotitolo: “Data nel giorno della salvezza, nel primo giorno dell’anno uno (- il 30 settembre 1888 della falsa cronologia)”, e dalla settima proposizione: “‒ Il resto segue da ciò.” (F. Nietzsche, L’anticristo. Maledizione del cristianesimo, Adelphi, Azzate 2013, p. 98), che sottolineano il carattere rivoluzionario del testo.

[70] Ivi, p. 3.

[71] Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., pp. 13-44.

[72] Ivi, p. 45.

[73] Questa proiezione viene vista da Nietzsche come un gravissimo errore dell’umano.

[74] Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit. p. 51

[75] Ivi, p. 73.

[76] Cfr. ivi, pp. 45-87.

[77] Cfr. ivi, pp. 87-157.

[78] Ivi, p. 21.

[79] Cfr. F. Dostoevskij, Lettere sulla creatività, cit., p. 14.

[80] Cfr. ivi, pp. 48-53. Costei era la moglie del Decabrista M.A. Fonvizin che aveva seguito il marito nell’esilio in Siberia. Dostoevskij l’aveva incontrata durante la sosta a Tobol’sk e avrebbe ricevuto da lei la copia del Vangelo che tenne sul comodino fino alla morte.

[81] Ivi, pp. 50-51.

[82] Ivi, p. 26.

[83] In una lettera scritta a Sof’ja Aleksandrovna Ivanova nel 1869 egli afferma la assoluta necessita del suo ritorno in Russia perché senza di essa perde perfino la possibilità di scrivere, non avendo sottomano il necessario per scrivere, ovvero la realtà russa.

[84] In questa affermazione sentiamo forte l’eco nietzschiano della descrizione dell’oltreuomo, la cui principale virtù è la capacità di autodistruggersi e crearsi, ma alla base dell’affermazione di Dostoevskij sottostà un movimento umano volto alla ricerca di un senso del sé verso la verità divina.

[85] Cfr. F. Dostoevskij, Lettere sulla creatività, cit., p. 21.

[86] Interessante sottolineare come la Russia di Dostoevskij restituirà all’Europa l’autentico messaggio di Cristo salvaguardato nella sua purezza non come profeta disarmato, ma che deve armarsi adeguatamente contro l’islamismo e il cattolicesimo.

[87] Cfr. F. Nietzsche, L’anticristo, cit., p. XII.

[88] Ivi, p. 25.

[89] Ivi, p. 8.

[90] Ivi, p. 13

[91] Ivi, p. 35.

[92] Ivi, p. 49

[93] Ivi, p. 98.

 

 


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