Le ragioni dell’irrazionalità. Schopenhauer e la crisi del razionalismo europeo
Le ragioni dell’irrazionalità. Schopenhauer e la crisi del razionalismo europeo
Ott 30
Oggi pubblichiamo il primo articolo di Francesco Girolimetto. Laureando in Filosofia a Bologna, intreccia lo studio filosofico a quello delle scienze umane (sociologia, economia politica, scienze della comunicazione e soprattutto psicologia). Da sempre attento agli sviluppi analitici di branche come la filosofia del linguaggio, della mente e ai legami della stessa con la psicologia, è redattore in una casa editrice specializzata in saggistica psicoanalitica, culturale e di ricerca in campo artistico, oltre che in narrativa e poesia, e scrive per un blog culturale. Francesco inizia la sua collaborazione trattando del pensiero di Schopenhauer in connessione con le vicende storiche contemporanee. Ringraziandolo per il contributo, gli diamo il benvenuto tra i collaboratori del blog.
Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce.
B. Pascal, Pensieri, 277
Introduzione
La ragione, una nozione inflazionata e poco chiara, alla maniera della “sostanza” lockeiana [1], ha conosciuto nel corso della storia alterne fasi di fortuna: ma due momenti storico-filosofici meglio di tutti ci restituiscono questa discontinuità della ratio, l’Illuminismo e la seconda metà dell’Ottocento. Momenti cronologicamente contigui, ma sorretti da impianti di pensiero antitetici: se l’Illuminismo col suo progetto enciclopedico, con i valori della giustizia sociale, con la spinta propulsiva delle facoltà umane, ecc. si appella ad un evento disordinato, la rivoluzione, per definire un rinnovato ordine “razionale”, del tutto opposto è il motivo dominante della seconda metà del XIX secolo, imperniato sul depotenziamento della componente umana e sulla necessità di mostrare l’assurdità delle pretese del soggetto razionale.
Cosa determina un tale rovesciamento di prospettiva in un arco temporale così poco dilatato? La rivoluzione francese, estremo risultato “pratico” dell’Illuminismo europeo, aveva promesso all’essere umano valori solidi, nuovi, stimolanti e seducenti, soprattutto in campo socio-politico, salvo poi disattendere le aspettative e generare una diffusa depressione e sfiducia in quegli stessi ideali, elementi questi ultimi responsabili della genesi dei cosiddetti “irrazionalismi”. Sono, storicamente, i moti del 1848, diffusi a macchia d’olio in tutta Europa, a dare il colpo di grazia ai valori razionalistici della rivoluzione, anche se a ben guardare già in Kant, filosofo illuminista con un piede e anticipatore dell’opposta tendenza con l’altro, si notano quegli elementi endemici che sfoceranno di lì a poco nella nuova cifra interpretativa dell’antirazionalismo: quella del saggio di Königsberg è infatti una riflessione critica sulla ragione, della quale, pur salvando l’unità pratica, Kant mostra i notevoli limiti gnoseologici.
Laddove all’epoca dei philosophes la facevano da padrone la fiducia nel progresso, il calcolo matematizzato, l’aspirazione all’ordine sociale e ad una migliorata giustizia, si assiste con l’entrata nella seconda metà dell’Ottocento ad una fortuna dell’assenza di senso e dell’accidentalità come lenti di penetrazione della realtà.
Magistrale interprete, nonché motore propulsore, di questo rovesciamento prospettico nell’analisi del reale è Arthur Schopenhauer: kantiano di formazione e di cuore, l’autore de Il mondo come volontà e rappresentazione [2] sa spingere la critica iniziata da Kant a livelli iperbolici, con tale lucidità e capacità argomentativa che, non a caso, lo ha fatto ricordare ai posteri per tutt’altro rispetto alle sue migliori fatiche. Non è una battuta di spirito: Schopenhauer è sicuramente uno dei pensatori meno conosciuti e più fraintesi; questo perché il corpo più intenso del suo lavoro è un baratro terrificante che spaventa l’uomo comune e che spinge lo stesso a “modificarne”, alleviandone i punti di sofferenza, l’intensità filosofica.
Schopenhauer parla di senso, della vita e delle cose che circondano la vita, ma non è il nichilista che certa piatta storia delle idee ci ha riportato, non è un poeta del non-senso e dell’abbandono: è contrariamente un filosofo analitico, estremamente legato, per formazione e propensione personale, al modello argomentativo-dimostrativo delle scienze naturali (non è un caso che nel suo lavoro Sulla volontà nella natura egli si preoccupi di mostrare un accordo tra la propria metafisica e le scienze particolari che si andavano diffondendo nel continente), un pensatore onesto che, come nessuno prima, riesce a decostruire il Leviatano della ragione.
È ne Il mondo come volontà e rappresentazione che troviamo la più chiara esposizione dell’irrazionalismo schopenhaueriano: se invertiamo i termini del titolo si ha la vera sequenza dell’argomento del filosofo di Danzica, ovvero cosa è il mondo quando lo si intende come rappresentazione (fenomeno kantiano)? E cosa quando come volontà (cosa in sé kantiana)? Il primo libro dell’opera è dedicato al fenomeno, mentre i restanti quattro si concentrano, secondo uno schema maggiormente di rottura verso l’autorità di Kant, sul mondo come volontà. Come il maestro, Schopenhauer crede, dunque, nell’unità della realtà, che diviene però sdoppiata sul piano gnoseologico: in altre parole, due modi, fenomeno e cosa in sé, per conoscere un’unica realtà. In coda alla breve presentazione dell’analogia del shopenhauerismo col kantismo, va detto, ai fini della comprensione del senso della volontà nel Mondo, che laddove per Kant [3] la cosa in sé rimane gnoseologicamente inconoscibile (critica del limite della ragione, appunto), per Schopenhauer essa, secondo modalità elitarie e particolari, può essere colta.
La frattura argomentativa individuata nella divisione “libro I-libri II, III e IV”, corrisponde alla differenziazione di un primo filone di argomento gnoseologico e un secondo segmento, più ampio, di tipo ontologico.
Gnoseologia schopenhaueriana
L’assunto di partenza è l’intuizionismo del filosofo secondo il quale si definisce come prerogativa del genere umano il sapere astratto (concettuale): diviene così intuizione tutto ciò che si slega dalle costruzioni astratte del concetto umano. È, questo sapere intuitivo, concreto ed autenticamente in contatto con la realtà; mentre il concetto è un’astrazione della ragione umana. Già qui si nota una prima rottura col kantismo: l’unico merito della ragione è ora, in Schopenhauer, quello di organizzare la cultura, anche se su basi che per ora definiremo “poco chiare”. È l’intuizione la vera sorgente di ogni conoscenza reale, mentre il sapere concettuale è presentato come un sistema di rifrazione indebolente della luce del sole, che brilla esclusivamente nel sapere intellettuale, appunto organo dell’intuizione. Vi è dunque un parteggiare da parte di Schopenhauer in favore del sapere immediato dell’intelletto e della sensibilità, contrapposte ancora una volta alla ragione che inizia a mostrarsi nella sua tendenza all’errore: essa concettualizzando si allontana dalla realtà, la manipola per renderla digeribile, ma nel fare questo snatura. La ragione non solo fa sbagliare nel momento conoscitivo, ma è anche origine di dolore: essa permette infatti delle visioni di secondo grado che colgono alcuni elementi della realtà esistenziale estremamente dolorosi (gli animali soffrono di meno degli uomini in quanto essi non sono dotati di ragione ma solo di intelletto, ad esempio). Dopo secoli di elogio della ratio, ora le parole che descrivono la facoltà razionale sono errore e sofferenza.
Il concetto astratto appare al filosofo dei Parerga vizioso: la sua è una filosofia eminentemente antilogica ed antidiscorsiva.
Ma Schopenhauer, come si ricordava più sopra, non è un vano distruttore ed è pronto ad ammettere dei meriti anche per la ragione: affermando che «la cultura dell’uomo sta sempre nell’acquedotto e mai nella sorgente», cioè sempre nella riflessione astratta e mai nell’originaria intuizione sensibile, egli ammette che la ragione porta con sé una naturale peculiarità di stratificazione e conservazione della cultura. Senza ragione, in altri termini, nessuna tradizione, nessuna scienza, nessuna comunicazione, nessuna civiltà (di nuovo, al modo degli animali). È questa stessa facoltà razionale di meta-indagine che permette all’uomo, condannandolo alla sofferenza, di approcciarsi continuamente alla morte, diversamente da ogni altro essere vivente che conosce il trapasso solo quando la esperisce. L’uomo è ansioso “per ragione”. Abbiamo così messo in luce un secondo punto di rottura col kantismo: Schopenhauer chiama intelletto quella facoltà unificatrice del reale che invece Kant individua, seppur in modo monco, nella ragione. La ragione schopenhaueriana allontana l’uomo dal reale, tuttavia essa è presentata come una potenza depotenziante tipicamente e necessariamente umana: perché? Nella pratica ci si può “far bastare” l’intuizione ma non basta se chi agisce necessita di comunicazione sulla base di azioni che si prolungano nelle epoche, e che pertanto hanno bisogno di mantenersi nel tempo, di strutturarsi, funzioni queste che solo la ragione, col suo storicizzare, può garantire. La ragione così serve per conservare e trasmettere, ma non aumenta le conoscenze, pratica quest’ultima tipica solo dell’intuizione intellettuale.
Il ruolo dell’arte e della scienza nella conoscenza
La filosofia di Schopenhauer considera l’arte come un diretto accesso al vero:
Tutte queste, che hanno
il nome comune di scienze, seguono il principio di ragione
nei suoi vari atteggiamenti, e la materia loro è
sempre il fenomeno, le sue leggi, i suoi nessi, e i rapporti
che ne derivano. Ma qual maniera di conoscenza studia
ciò che, stando fuori e indipendente da ogni relazione,
è in verità la sola cosa essenziale del mondo, la vera sostanza
dei suoi fenomeni, a nessun mutamento soggetto
e quindi in ogni tempo con pari verità conosciuta […]?
È l’arte, l’opera del genio […].
Mentre la scienza, […]
ad ogni mèta raggiunta viene di nuovo sospinta sempre più lontano […],
l’arte all’opposto
è sempre nella sua mèta […]. [4]
Il testo è una perfetta sintesi della teoria della conoscenza schopenhaueriana: lo scienziato è l’eroe di un sapere legato al mondo dei fenomeni, un sapere a cui siamo grati in quanto grazie ad esso c’è civiltà, cultura, linguaggio, ma che tuttavia rimane una scienza degli oggetti, della rappresentazione, dei riflessi; rispetto a tutto ciò abbiamo però un’alternativa, la conoscenza immediata che sempre si azzera, che sta nell’eterno presente, ovvero l’intuizione intellettuale. Quello di Schopenhauer è quindi un invito ad essere più simili agli animali? Non solo. Infatti questa facoltà intuizionistica, in taluni uomini, i geni, ha una prerogativa assolutamente unica che il sapere razionale non ha: essa consiste nell’essere il sapere non del fenomeno, bensì della cosa in sé, dell’intima essenza della realtà (ulteriore tema di rottura con il pensiero kantiano: l’autore delle tre Critiche, teorizzando l’inconoscibilità del noumeno ha ragione riferendosi all’uomo della strada, ma sbaglia allargando tale handicap all’umanità tutta, genio compreso). È, quella di Schopenhauer, un’antropologia differenzialistica (modello che avrà grande influenza sull’opera di Nietzsche) [5], definizione che una volta in più elimina il dubbio circa il suo vuoto nichilismo.
Fin qui si è parlato molto di cosa in sé, soprattutto riferendosi al debito sulla nozione col kantismo, ma cosa rappresenta questa versione schopenhaueriana del noumeno?
Ontologia schopenhaueriana
Cosa dunque intuiscono i geni? L’argomento ontologico si sviluppa contro la ragione perché in primo luogo la ragione non serve per scoprire la cosa in sé, e, in secondo luogo, la cosa in sé è esattamente l’opposto della ragione. La nuova cosa in sé è arazionale, insensata, disordinata, caotica, violenta e pulsionale. L’in sé è il cuore battente della realtà del mondo, non di quel mondo fittizio del livello fenomenico: si tratta di una sorta di pulsione demoniaca (di nuovo, materiale di fascinazione per Nietzsche). La filosofia del solitario di Francoforte rompe con la tradizione e scava in maniera inaugurale un solco che verrà nei decenni seguenti approfondito di molto da altri, un abisso fertile per gli irrazionalismi che tra fine Ottocento e prima metà del Novecento troveranno negli avvenimenti storici in accadimento una conferma dell’attualità del pensiero schopenhaueriano [6]: dalla nascita delle diseguaglianze sociali legate all’avvento del capitalismo alla prima guerra mondiale, dalle lotte di genere fino all’estremo apice del secondo conflitto mondiale, tutto sembra confermare agli uomini l’analisi del reale proposta dal filosofo, un continuo dispiegarsi insensato di caos, sofferenze e irrazionalità. Gli europei del primo Novecento vivono quello che Schopenhauer aveva solo filosofato (e forse predetto).
Ma quale rapporto tra cosa in sé e volontà? La cosa in sé di cui si parla nel Mondo si emancipa dalla connessione col singolo fenomeno e costituisce un unico ente che acquisisce il nome di “volontà”. Essa anima come in sé ogni ente e pertanto è identica per tutta la realtà (monismo ontologico-dualismo gnoseologico): nel movimento di una pietra agisce l’in sé, la volontà, nella stessa maniera in cui essa agisce nell’azione di alzarsi compiuta da un uomo. Tutta la materia è pervasa dalla medesima “forza”, da un’unica energia, da una stessa volontà che governa l’intera natura e di conseguenza l’insieme totale dell’esistente. Ma da dove viene questa curiosa volontà? Essa è incausata, priva di fondamento e senso, identica solo a se stessa; mentre il piano fenomenico si sottomette alla causa-effettualità, quello dell’in sé ne fugge con successo le logiche.
L’uomo con il nesso causa-effetto spiega razionalmente il sensibile, ma sprofonda nell’abisso dell’irrazionalità quando si affaccia al piano sopraelevato, al noumenico.
Quale scopo per la volontà?
È certamente questa la domanda più pregnante ed interessante a partire dai presupposti depositati nella parte introduttiva: abbiamo così un in sé unico che anima ogni cosa del mondo, ma a quale scopo esso maneggia una così grande complessità? E cosa c’entra tutto ciò col noto pessimismo schopenhaueriano? La volontà è per il filosofo la sola vita che vive, l’energia che si esercita, la propria automanifestazione. Sulla base di ciò il mondo e la vita umana sono in Schopenhauer la narrazione dell’operare di una forza insensata ed inarrestabile; e non è difficile scorgere tutta l’importanza che una tale concezione avrà per la rivoluzione psicanalitica della pulsionalità inconscia.
Ma cosa vuole la volontà? «Ciò che la volontà sempre vuole è la vita», ma cosa è la vita, sulla base di quanto presentato, se non volontà? In definitiva dire che la volontà vuole la vita significa affermare che la volontà vuole volere, esprimersi, generare effetti, produrre potenza; il volere della volontà, fatta eccezione per il volere stesso, è così privo di senso e contenuto.
È lo stesso Schopenhauer a dire che «la volontà, in tutti i gradi del suo fenomeno, dai più bassi ai più alti, manca affatto di un fine ultimo e d’uno scopo»; appare sempre più chiaro da dove venga il pessimismo sui generis di Schopenhauer: il volere della volontà manca per sua natura della possibilità di appagamento, si aggroviglia su se stesso e nella ricerca effimera genera dolore e sofferenza al mondo intero, che appare così tracciato come un cancro senza fine.
Il paradosso della volontà schopenhaueriana
Tale bizzarra e potentissima volontà conserva un paradosso-snodo per i nostri interrogativi: non essendoci al mondo altro che essa, la volontà tenta, nel suo desiderare, di scontrarsi contro sé medesima affondando le unghie nella propria stessa carne; la volontà è come una bestia impazzita che si risolve nell’autodistruzione. Come determina, la volontà generale, i dolori particolari dei singoli uomini? Molto semplicemente, la volontà è l’unica anima metafisica dell’esistente e pertanto ogni male che il mondo contiene appartiene ad un’espressione che la stessa volontà ha disposto: definire la vittima e il carnefice è affare dell’uomo di scienza fenomenico, non dell’uomo geniale dell’in sé.
Scenari aperti
Cosa rimane oggi di questo caos “ordinatamente” filosofico? Senza dubbio il valore di una cesura netta operata da Schopenhauer con tradizioni millenarie di filosofie diverse ma pur sempre ottimistiche e razionalistiche; e poi tanta suggestione antropologica che alla luce dei recenti fatti globali è più che mai stimolante: la filosofia del solitario di Francoforte ha ridotto la ragione ad uno strumento inadatto a cogliere la realtà senza negare l’esistenza di quest’ultima e, in ultima analisi, lasciandoci con un’infinità di domande aperte legate a quella “cosa”, la realtà appunto (ora svuotata di senso), che tutti esperiamo ma che nessuno davvero capisce.
Al di là di mille diverse definizioni, spesso la più ficcante per Schopenhauer appare quella di “uomo onesto”, capace di toccare il punto forse più debole dell’interiorità umana, ovvero il suo apparato di senso. Che senso ha stare al mondo se la vita non ha, schopenhauerianamente, senso? A chi scrive pare che anche solo questa domanda, scontata dopo le tante parole spese, sia una risposta più che buona.
NOTE
[1] Sul dibattito intorno alla nozione lockeiana di “sostanza materiale” si confrontino le opere di G. Berkeley Dialoghi fra Hylas e Philonous (1713) e Trattato sui principi della conoscenza umana (1709).
[2] L’opera conobbe ben tre edizioni prima di riscuotere un degno interesse tra il pubblico: alla prima del 1819 seguì, con un’aggiunta di cinquanta capitoli, la seconda del 1844, ed infine l’ultima, preceduta dalla fama dei Parerga (1851), datata 1859.
[3] Kant tratta dei limiti gnoseologici della ragione umana nelle due edizioni della Critica della ragion pura, rispettivamente datate 1781 e 1787.
[4] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, § 36, 375.
[5] È un dato certo il fatto che, assieme al compositore R. Wagner, Schopenhauer abbia rappresentato un modello di ispirazione per tutta la filosofia nietzscheana.
[6] Si consideri a tal proposito la riflessione di filosofia della storia di Karl Löwith in Il nichilismo europeo. Considerazioni sugli antefatti spirituali della guerra europea (1940) e in Significato e fine della storia: i presupposti teologici della filosofia della storia (1949).
BIBLIOGRAFIA di lavoro e di studio
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Bari 2009.
A. Schopenhauer, Sulla volontà nella natura, Rizzoli, Milano 2010.
B. Pascal, Pensieri, Einaudi, Milano 2004.
I. Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Bari 2005.
K. Löwith, Il nichilismo europeo. Considerazioni sugli antefatti spirituali della guerra europea, Laterza, Bari 2006.
K. Löwith, Significato e fine della storia: i presupposti teologici della filosofia della storia, Il Saggiatore, Milano 2015.
M. Segala, Schopenhauer, la filosofia, le scienze, Ed. della Normale, Pisa 2009.
S. Giametta, Schopenhauer e Nietzsche, Il Prato, Padova 2008.