L’assurdo di Camus e Nietzsche
L’assurdo di Camus e Nietzsche
Mar 22Il Mito di Sisifo è da leggersi come un prezioso scrigno di prorompenti quesiti filosofici: è una delle opere più celebri insieme al romanzo Lo straniero e al saggio L’uomo in rivolta di Albert Camus, scrittore e studioso vicino, a volte polemicamente, alla corrente dell’esistenzialismo.
L’intento di questo contributo è suscitare una riflessione sul pensiero camusiano al fine di individuarne gli elementi di comunanza con l’imponente filosofia nietzscheana, i quali, a mio modesto avviso, sembrano essere più di quelli riconosciuti apertamente dallo stesso Camus. Il primo parallelismo tra i due è quello che si muove lungo la linea del nichilismo e dell’assurdo.
Ne Il Mito di Sisifo, che ha anche il pregio di offrire teorie di critica letteraria alla luce della predominante filosofia esistenzialista – giacché, come è noto, la vicenda personale e culturale di Camus si colloca nel pieno degli sconvolgimenti storici e teoretici tra le due guerre – si asserisce l’importanza prioritaria di una domanda, quella propriamente filosofica che spazza via ogni altra questione: se questa esistenza “concessa” all’uomo valga o meno la pena di essere vissuta.
All’origine di tale schiacciante dilemma vi è l’inquietudine percepita dal singolo, come a un tratto, in virtù di una sorta di epifania che rischiara il divario incolmabile tra la “stranezza” del mondo e l’inappagabile anelito dell’uomo a ingabbiarlo in un’unità di senso, ovvero a imprimergli il suggello della propria conoscenza. Tale distacco è ciò che Camus definisce l’assurdo: esso non si darebbe senza l’uomo, ma neanche senza il mondo. È la nuova gelida alba all’indomani della morte di dio.
Così si diramano due prospettive: bisogna abbandonare il cammino della ragione lucida e pretenziosa, fuggendo da quel deserto cognitivo in tal modo diradato (il salto, lo chiama Camus) o piuttosto accogliere la «scommessa straziante e meravigliosa dell’assurdo» [1]? La scelta accurata di quest’ultimo luogo concettuale rappresenta un debito più o meno voluto nei confronti del pensiero nietzscheano.
Per Camus come per Nietzsche «vivere è dar vita all’assurdo» [2]; questo comporta l’impossibilità di accettare la “soluzione” del suicidio come risposta allo scarto dato dall’irriducibilità del mondo a un’armonica essenza, nella misura in cui esso realizza una pacificazione con l’assurdo medesimo, e di conseguenza lo elimina:
Si tratta di morire irreconciliati e non già di pieno accordo. Il suicidio è una sconoscenza [3].
In opposizione al suicidio, l’autore teorizza e auspica un’etica fondata sul “vivere” più intensamente, nel senso di «trovarsi di fronte al mondo il più spesso possibile» [4]: ciò non significa negare l’infecondità di ogni ente ed evento, quanto piuttosto mantenere e rendere omaggio all’assurdo che è vita e accrescimento di vita, poiché senza l’uno non si dà l’altra, e viceversa. L’uomo cioè non sceglie l’uno o l’altro termine di tale disparità ma sta sul presente cosciente della morte e dell’insensatezza del tutto: è un invito a seguire, come ammette lo stesso Camus, quel cammino indicato da Nietzsche ne La Gaia scienza. L’evidenza di ciò che avrebbe condotto a porre termine a quest’esistenza (l’assurdo) diviene invece, norma di vita e
tutto riprende il proprio posto e il mondo assurdo rinasce nel suo splendore e nella sua diversità [5].
L’uomo assurdo camusiano ha molto in comune con l’oltreuomo nietzscheano: sotto le tre figure del don Giovanni, dell’attore e di Sisifo il saggista francese delinea un modo altro di essere per il quale l’uomo non è più scisso dal tempo, glorifica il presente, sostiene il passato e il futuro. In altre parole anch’egli trasforma ogni così fu in un così volli che fosse, è nel tempo ed è il tempo, (ri)trova il “senso” del suo essere nell’amore per l’anánche e la sua grandezza nella coscienza di questa danza del pensiero.
Sisifo è il personaggio della mitologia greca condannato dagli dèi a riportare perennemente un macigno dalla base fino alla cima di un monte: egli viene definito eroe assurdo in quanto è padrone dei propri giorni e proprio ciò che sembrerebbe l’origine del suo tormento (il sapere) si svela essere la sua vittoria:
Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. […] Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano da soli un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice [6].
L’unica certezza possibile, quella della coincidenza di ogni cosa e di ogni evento con il proprio senso, è anche l’unico amor imperituro, quello per la necessità non più disgiunta dal caso del divenire. L’uomo assurdo privato dell’eterno aderisce al qui e all’ora, alla terra nietzscheana in cui soltanto si risolve l’aspirazione alla gioia, fremito e soffio di vita per l’uomo. Esclusivamente in questo modo può compiersi una feconda alleanza con il tempo, non più giogo che avvinghia ma libertà, giacché «il tempo farà vivere il tempo e la vita servirà alla vita» [7]. Anche a proposito dell’importanza della creazione di senso e artistica, si possono scorgere influenze nietzscheane da non sottovalutare: per Camus la gioia assurda per eccellenza è la creazione; si pensi all’attore che ricrea ogni volta se stesso, come don Giovanni ogni volta ricrea l’amore.
Nonostante i successivi sviluppi teoretici che condurranno Camus ad allontanarsi dal filosofo del nichilismo in base a un’interpretazione fuorviante della volontà di potenza, la quale invece non può essere disgiunta dalla dottrina dell’eterno ritorno – è indubbio che entrambi nella loro grandezza e rispettive diversità abbiano colto ed espresso pienamente quell’atmosfera disincantata di impellente rottura con la tradizione di pensiero fino a quel momento dominante: si apre un orizzonte nuovo di indagine che avrebbe delineato sviluppi inaspettati e di ampio respiro e per certo rilevanti, se si vuole discutere del problema dell’uomo e della sua esistenza, problema filosofico per antonomasia.
Note:
[1] Albert Camus, Il Mito di Sisifo, Bompiani, a cura di C. Rosso, p. 84.
[2] Ibidem, p. 86.
[3] Ibidem, p. 87.
[4] Ibidem, p. 93.
[5] Ibidem, p. 96.
[6] Ibidem, p. 157.
[7] Ibidem, p. 99.
Punto di vista interessante. Non conosco abbastanza Camus per commentare a fondo (ho soltanto letto Lo Straniero), ma posso dire che ciò che leggo mi sembra plausibile.
Qui vorrei soltanto aggiungere che credo sarebbe utile tematizzare, in tutte queste letture dei filosofi della “rottura”, almeno due punti a mio avviso troppo spesso passati sotto silenzio (e pertanto poi alla radice di varie mistificazioni):
– Primo, il fatto che questi filosofi a mio avviso non operano una rottura, quanto semmai la ricevono in eredità; e quest’eredità non è tanto operata dal pensiero filosofico o artistico precedente, quanto dagli stessi meccanismi sociali che, superata una certa velocità di mutamento, “strappano” per così dire nel corso dell’800 la continuità fra società e intellettualità che era ancora (faticosamente) possibile fino a quel momento. Lo studioso dunque per comprenderli dovrebbe risalire indietro e rileggere alla loro luce – come del resto lo stesso Nietzsche vorrebbe – l’intera storia dell’occidente. La sfida certamente è quella di separare le loro intuizioni e la loro profonda sensibilità dalla forma ancora inaugurale e astratta che certi riconoscimenti prendono in loro. Il che mi porta a
– Secondo, il ruolo dell’eros in questi quadri dell’esistenza, ruolo che questi stessi autori tipicamente non sono in grado di tematizzare – forse proprio perché travolti dalla necessità di tracciare la *différance* rispetto al deposito storico – ma che invece a mio avviso si rivela necessario per stringere in unico nodo costoro, le riflessioni sul capitalismo, le riflessioni sul ruolo della religione per l’umanità storica e le scoperte delle varie psicoanalisi. In questo senso spero che la lettura di Lacan che da un po’ mi propongo di realizzare mi aiuti a tematizzare ancora meglio questi temi.
Comunque grazie per l’articolo!
Grazie a te per aver posto in luce questi elementi di riflessione. Ritengo che il contesto storico sia imprescindibile in ogni caso e in particolar modo per i filosofi “della rottura”, i quali è innegabile abbiano ricevuto e (ri)elaborato le speculazioni antecedenti in tutto il loro spessore.
Articolo molto bello, però ancora non riesco a capire non tanto i punti in comune quanto quelli di distacco da Nietzsche.