«L’ansia di un’altra città»: una risposta al crocianesimo e al nichilismo
«L’ansia di un’altra città»: una risposta al crocianesimo e al nichilismo
Ago 17
Oggi pubblichiamo il primo articolo di Andrea Tortoreto. Andrea si è laureato, ha conseguito il dottorato ed è divenuto assegnista in Filosofia teoretica presso l’Università di Perugia. Si è occupato del pensiero di Capitini, dell’attualismo, dei rapporti tra ermeneutica e pensiero analitico, del pragmatismo e della filosofia della percezione con particolare riferimento al pensiero di Sellars e alla scuola di Pittsburgh. Tra le sue pubblicazioni, la monografia Mente e realtà. Oltre il mito del dato, Mimesis, Milano 2015 e la partecipazione a AA. VV., Il pragmatismo. Dalle origini agli sviluppi contemporanei (a cura di R. M. Calcaterra, G. Maddalena, G. Marchetti), Carocci, Roma 2015. Andrea inizia la sua collaborazione con un’intervista a Francesco Postorino. Ringraziandolo per il contributo, gli diamo il benvenuto fra i collaboratori del blog.
Nota introduttiva: Francesco Postorino è un giovane studioso di filosofia politica, teoretica e morale. Ph.D. presso l’Università di Messina, ha approfondito le sue ricerche con Serge Audier e Jean-François Kervégan presso l’Università Paris 1- Sorbonne, dove ha organizzato una giornata internazionale dedicata al pensiero politico e giuridico di Norberto Bobbio nel novembre del 2014. Si occupa soprattutto di neoidealismo italiano ed europeo, di esistenzialismo, di pensiero liberal e di socialismo liberale. Collabora con molte riviste scientifiche e alle pagine culturali dei quotidiani, cura una rubrica online, dal titolo «Dio è morto», sul settimanale «l’Espresso». Tra le pubblicazioni recenti: Carlo Antoni. Un filosofo liberista, pref. di Serge Audier (Rubbettino, 2016); Democrazia in Lessico Crociano (La Scuola di Pitagora ed., 2016); Bobbio et le marxisme (“Droit&Philosophie”, 2015).
Lo abbiamo intervistato a proposito del suo ultimo volume, dal titolo Croce e l’ansia di un’altra città, pref. di Raimondo Cubeddu (Mimesis, 2017).
D : Con questo volume, scandagli a fondo, partendo dall’indagine teoretica del pensiero crociano, il rapporto filosofico e politico tra liberalismo e liberismo. Cosa c’è di attuale, o potremmo dire di universale, nella tensione dialettica tra questi due poli, la cui analisi impegnò tanto Croce quanto i pensatori più influenti di quel periodo?
R: Occorre dire, anzitutto, che questa distinzione è tipicamente italiana. In un contesto culturale piegato alla dittatura fascista, al pensiero unico e alla mortificazione dell’atteggiamento critico, due grandi uomini, Croce e Einaudi, hanno avuto l’energia intellettuale e il coraggio di discutere a lungo su questo tema. Il primo ha offerto una soluzione teoretica; il secondo, sensibile all’indirizzo di John Stuart Mill, ha risposto con sguardo empirico. Per Croce vige un rapporto di unità-distinzione fra le due dimensioni. Il liberalismo è l’unità, ovvero la storia nel suo continuo divenire. Più nello specifico, l’Estetica, la Logica, l’Utile e la Morale sono le quattro categorie trascendentali che rinvigoriscono di continuo la coscienza liberale della vita. Ogni evento del mondo, sia esso di contenuti artistici, razionali, politici in senso lato o appunto etici, acquista così un sapore di libertà. Il liberismo, invece, lungi dal contrapporsi al liberalismo (il tutto), si rivela il momento economico che si muove al confine tra la sfera dell’Utile e l’universo empirico che, per Croce, si situa ai margini dello spirito. Il filosofo chiama «pseudoconcetto» tutte quelle zone grigie e analitiche che corroborano una finzione, cioè un dato importante ma non «reale» (non spirituale) che serve per amministrare nel migliore dei modi il nostro quotidiano. Il gatto, la rosa, il triangolo, un partito, un’ideologia, i documenti storiografici, sono tutte figure «utili» che, pur essendo a-spirituali, compartecipano alla vita. Ma l’utilità, precisa Croce, può sempre venir meno, e a quel punto bisogna inventare nuove azioni adatte a replicare alle sfide di tutti i giorni. Ecco, mi par di capire che il liberismo rientri nella cornice empirica. Può essere «utile» e proprio per questo sostituibile con altre offerte politiche. Se, ad esempio, il contesto storico richiede un incremento delle politiche concorrenziali, ciò significa che non si potrebbe eludere la portata del liberismo; mentre in altre occasioni, quando urge intervenire e magari potenziare la spesa pubblica in favore dei servizi sociali, ridistribuire il reddito premiando le classi meno abbienti ecc., allora il liberismo non serve e subentra il valore (pratico) del dirigismo o addirittura del social-comunismo. Quindi, in Croce, il liberalismo è l’imperituro, l’universale, l’infinito, l’eterno contenuto nella storia; il liberismo è la possibilità, un gesto occasionale, eventualmente ripetitivo che può contribuire all’elevazione dello spirito. Perciò andrei cauto nel definire Croce un liberalsocialista, o un liberale vicino alle problematiche sociali. Egli era un liberale, di formazione idealista, che cercava con grandi difficoltà ermeneutiche di includere nel suo quadro speculativo la tematica essenzialmente politica del liberismo.
Quanto a Einaudi, la sua risposta all’immanentismo crociano è molto semplice, rapida, ma non superficiale. L’economista sostiene, in parole povere, che il liberalismo non si può separare dal liberismo. Un Paese che adotta istituzioni e politiche liberali non può prescindere dal mercato. Ovviamente Einaudi non era un pericoloso anarco-capitalista. Alcuni studiosi, ad esempio, tendono a distinguerlo dal suo amico Hayek e vedono in lui un liberale critico, avvertito, non di sinistra, ma attento agli «ultimi».
D: La tua posizione, però, è molto più in sintonia con la cultura azionista.
R: Sì. Gli interpreti più autorevoli di questa tradizione hanno accolto solo sul piano formale la distinzione crociana. Calogero, Rosselli, Bobbio, Calamandrei, pur con accenti diversi, formulano una prospettiva progressista che possa rompere una volta per tutte con i residui del pervertimento borghese e ottocentesco del laisser faire, laisser passer. Non ci troviamo davanti una nuova moda marxista. Più in generale, direi che il nucleo teorico del socialismo liberale consiste in un tentativo di replica agli estremismi di ogni colore, siano essi rappresentati dal fascismo, dalla lezione determinista di un certo marxismo, ma anche dallo storicismo «neutralistico» di Croce, e da chi parla in favore di una libertà totale includendo più o meno consapevolmente anche quella di «morire di fame». Il concetto pieno della libertà, per la filosofia azionista, si nutre di un socialismo laico e responsabile. Un socialismo intenzionato a rinforzare il valore spirituale, politico e culturale della libertà.
D: Nella prima parte del tuo libro, indaghi il rapporto crociano tra la concezione religiosa e la visione filosofica della libertà. Perché, a tuo avviso, andrebbero separati i due aspetti?
R: L’interpretazione dominante rifiuta la distinzione che ho proposto. Del resto, Croce è il primo ad enfatizzare un rapporto di sintetica identificazione tra «religione» e «filosofia» entro il suo quadro speculativo. E tuttavia, leggendo le sue opere, sono sempre più convinto che il momento religioso si stacchi bruscamente dall’altro. Provo a spiegare. Croce, fin da giovane, vive un rapporto controverso con la fede cattolica. Presto si emancipa da ogni dogma. Solo che non distrugge in lui ogni seme religioso. La storia, specie in età matura, diverrà la sua nuova fede. La storia per Croce è tutto: lo spirito, la vita, la coscienza del mondo e dell’individuo, la trascendenza che si bagna in modo intrinseco nelle acque fluide dell’immanenza. Ora, l’idea secondo cui «tutto è storia», è un’affermazione religiosa perché nuota nell’a priori, nel prima della storia imprevedibile. È un presupposto, quindi non si vede, non si tocca e soprattutto non forma oggetto di discussione filosofica. La filosofia, in Croce, viene dopo. Essa è la razionalità della storia, un concetto puro che si nutre dell’universale e del concreto. Le categorie evocate in precedenza (Estetica, Logica, Utile e Morale) sono la filosofia razionale della storia e costituiscono l’equilibrio instabile tra il momento dell’eterno – le quattro sfere sono inesauribili – e quello del particolare, cioè la storia che si esplica. Ad esempio, opere poetiche come L’Infinito di Leopardi o Recitativo di Fabrizio De André rappresentano il «particolare», ma nel contempo si universalizzano in quanto rientrano nella cornice spirituale di riferimento (l’Estetica); un’azione politica compiuta da un ministro o un provvedimento giuridico realizzato dalle autorità competenti sono il «particolare», ovvero qualcosa che prima non esisteva, mentre l’«universale», in questo caso la categoria dell’Utile, ignora le regole del tempo. Ma l’universale non galleggia nell’Iperuranio platonico, non si distingue dalle esperienze e dalla storia effettuale. Croce, infatti, da buon hegeliano, ha cercato di risolvere il problema che ha tormentato la tradizione filosofica occidentale: il dualismo. La sua filosofia è un arduo tentativo di stringere in un unico rapporto l’eterno e il tempo, la trascendenza e l’immanenza, l’essenza e il divenire, insomma le quattro categorie (universale) e le opere in esse contenute (particolare). In un certo senso questa costruzione idealistica della sua filosofia promana dalla fede religiosa di cui si diceva: il principio assoluto della storia. Quest’ultimo, d’altra parte, proprio perché «assoluto», anticipa il tempo. In breve, per Croce lo spirito unitario non è altro che la vita che si riempie di universalità e concretezza (filosofia/quattro categorie), ma il quadro teoretico che lui delinea con ritmo razionale segue il suo imperativo storicista (religione/fede/a priori), ed è per questo, secondo me, che il più grande filosofo del Novecento italiano non è riuscito a risolvere il problema del dualismo.
D: Nella seconda parte del volume entri nel merito del rapporto tra Croce e la riflessione politica del suo tempo. La tua lettura è piuttosto originale. Mi ha colpito soprattutto la tua analisi della critica crociana al Partito d’Azione. A tuo avviso, infatti, la suddetta critica cela un rifiuto del pensiero di Calogero. Cosa vede Croce di così profondamente calogeriano, e quindi pericoloso, nel Partito d’Azione?
R: Prima ho detto che Croce non andrebbe considerato un liberalsocialista. In realtà, al filosofo napoletano non dispiace il liberal socialism del filosofo inglese Hobhouse, scoperto in Italia nei primi anni venti del secolo scorso da Guido de Ruggiero. Non gli dispiace, cioè, l’idea di applicare le ragioni della giustizia. Vale quanto detto in precedenza: per Croce la giustizia è utile, quasi pseudo-concettuale, quindi conveniente, niente di più. Il liberalismo, al contrario, è il respiro della vita, quel vento che soffia in ogni istante nell’immanenza. Ecco perché in Croce il liberalismo risulta qualitativamente superiore rispetto al socialismo e alla democrazia: situazioni tecniche non necessarie. Calogero, invece, indossa un abito idealista molto più moderno e innovativo, dove il liberalismo è costretto a convivere con le istanze socialiste. Dirò di più. Per l’allievo critico di Gentile, il liberalismo è il socialismo. Non bisognerebbe neppure mettere un trattino fra le due espressioni. Un vero liberale sente il peso della giustizia sociale e la considera inevitabile. La lotta ai privilegi è un imperativo liberale. Se in Croce il liberalismo premia gli aspetti qualitativi, mentre la giustizia – che lui identifica con l’eguaglianza – rientra in un’atmosfera numerica o matematizzante, per Calogero sia il liberalismo sia il socialismo colorano di senso i percorsi esistenziali di ciascuno.
Calogero ha cercato di inserire al centro la persona, che non è egoisticamente l’«io», ma il «tu» e addirittura il «lui» (la terza voce). Una buona filosofia e una teoria politica e morale attendibile non possono che occuparsi, dice Calogero, del «tu» e del «lui». Il «tu» è un pronome già accettato e riconosciuto dall’«io»; il «lui», per converso, è situato più in là e ancora nessuno si è pronunciato in suo favore. Il «tu», già favorito, deve istituzionalizzare il «lui». Il «lui» è l’utopica indicazione, dal respiro liberalsocialista, in attesa di chiarimenti dalla voce muscolare dell’«io» e del privilegiato «tu». Questi pronomi non hanno alcun senso nella sceneggiatura delineata da Croce e dal crocianesimo liberale, dove al contrario si pensa soltanto allo spirito come un qualcosa di elusivo che sfugge alle determinazioni. Solo la trascendenza immanente (la storia) è meritevole di attenzione per l’idealismo di marca crociana. Una storia che divora le essenze o gli universali (compreso l’individuo).
Mi sembra che l’esigenza laica di Calogero sia invece molto viva, soprattutto per le sue ripercussioni etico-politiche. Il «lui» (migranti, schiavi del call center, precari di ogni tipo, matti, drogati, disperati) subisce l’ora del disincanto e della chiacchiera heideggeriana del «si dice».
D: E veniamo ora all’ultima parte del tuo volume. Qui chiami in causa un pensatore che mi è molto caro e al quale ho dedicato buona parte dei miei primi studi: Aldo Capitini. Il confronto con Croce si gioca intorno al tema esistenzialistico della persuasione e a quello, strettamente connesso, dell’aggiunta. Capitini è infatti convinto che il rifiuto della logica del male e del negativo possa sostanziarsi nella “dualizzazione” dell’immanenza tramite l’aggiunta del «tu». È quindi l’apertura morale all’altro che scardina la dialettica «dell’uno-Tutto» e conduce alla tramutazione della realtà. In quest’ottica, seppure tanto Croce che Capitini auspicano una riforma “religiosa” che sia la base di quella politica, le tue pagine sottolineano con grande attenzione come emergano delle divergenze nel modo di intendere l’idealismo.
R: Capitini sposa le conquiste moderne culminate con l’immanentismo crociano e l’attualismo gentiliano. Ma il suo idealismo è inedito e ha ben poco in comune con il linguaggio tecnico e i contenuti teoretici cui siamo abituati. L’intellettuale perugino ha provato ad avanzare l’ipotesi di una doppia vita: l’eterno e la storia. Non si tratta dell’ingenuo dualismo dei secoli passati, ma di un peculiare approfondimento dei motivi crociani. In altri termini, la religione della libertà ha conseguito solo un primo obiettivo: l’eliminazione della trascendenza, della tiepida metafisica e dei dogmi scolastici. Solo che non basta. Lo storicismo, se diviene «assoluto» come nell’esemplificazione crociana, uccide la speranza, l’urgenza del cambiamento, la stessa possibilità di curare l’immanente a vantaggio dei falliti e dei senza nome. La filosofia di Croce rischia, dunque, di addormentare la storia e, secondo me, anticipa in parte la stagione nichilista oggi in voga.
D: Che intendi dire in quest’ultimo caso?
R: Croce è molto lontano dal nichilismo, dal decadentismo e dall’esistenzialismo. Nondimeno, la sua filosofia radicalmente storicista interloquisce con il nulla. Anzi, diviene il nulla proprio perché l’esaltazione della storia respinge ogni presupposto normativo (tranne, appunto, quello storicista) e glorifica il fatto compiuto. La sua filosofia tende a giustificare ogni evento che accade nel fiume impetuoso del divenire. Del resto, in Croce l’«accadimento» è l’azione sintetica dello spirito. Ciò che accade ha ragione, esattamente come nella direzione muscolare inaugurata da Nietzsche con l’esclamazione del Gott ist tot e l’annuncio del superuomo. Capitini, oltre a prendere le distanze dall’esistenzialismo «negativo», si ribella al triste accadimento d’impatto crociano e al «fatto» dipinto ad esempio dalla cultura borghese.
La sua filosofia è un atto critico che spezza l’equazione hegeliana reale/razionale e annuncia l’ansia fra il tempo e la persuasione, cioè fra la vita e l’altrove. Capitini recupera così una metafisica rinnovata o migliorata dalla lezione storicista. Non rimane fermo nella città del sole di Campanella o nell’utopia di Thomas More. Egli lotta contro il fascismo, contro quindi la religiosa esposizione del male, e lo fa in nome dell’universalismo dei diritti da costruire subito. La sua religione nonviolenta intende cancellare la notte e risvegliare il mattino con l’aggiunta di ogni essere vivente.
D: Finiamo con il suggestivo titolo che hai scelto. Vorrei che ti soffermassi sui due concetti chiave che lo caratterizzano; quello di «ansia» e quello di «altra città». Ho interpretato il primo proprio in relazione all’anelito del persuaso al quale accennavi prima e il secondo in stretta connessione con il rifiuto del liberismo economico e del mondo da esso agognato. Quanto sono vicino alla tua idea?
R: Molto. L’«ansia di un’altra città» è il grido silenzioso di chi non si arrende a quel che vede e con un occhio sfugge al presente. È il cammino tortuoso di chi obbedisce alle virtù e non cancella dalla lavagna della storia le tracce elusive del sovrasensibile. L’ansia di cui parlo non è equiparabile allo stato depressivo in cui versa il soggetto postmoderno del Duemila. Nel primo caso si mantiene in vita la gioia del possibile e la proficua tensione di un’alternativa; nell’altro caso si accetta, spesso inconsapevolmente, la «prima storia». Chi ha ansia di un’altra città non si rifugia nell’offerta vincente e «funzionante», non ha pazienza che arrivi un nuovo monarca e sistemi le cose. Si prende quel che gli spetta ascoltando le molteplici istanze e premiando i protagonisti del disagio. La seconda ansia, quella dell’uomo nichilista, ha invece ucciso dio, il silenzio, il vento, e incentiva il chiasso consumistico dell’era globale. La prima ansia profuma d’incanto, di sublime, ha fede, sa che il mondo può cambiare. In ogni modo, l’«altra città» non è soltanto il fisiologico rifiuto del liberismo contemporaneo, ma è sguardo vigile sul momento (anche quello che verrà dopo la narrativa turbo-capitalistica), puntualmente accompagnato dal discorso socratico, kantiano e – perché no? – azionista.