Il torto e il diritto nella filosofia di Schopenhauer
Il torto e il diritto nella filosofia di Schopenhauer
Gen 13
Secondo Schopenhauer il diritto trova origine e fondamento in ambito extragiuridico; è infatti sua convinzione che le teorie che negano diritti preesistenti rispetto a quelli sanciti dallo Stato confondano il diritto stesso con i mezzi atti a farlo valere [1]. Solamente, egli non rintraccia, attraverso la semplice e preliminare osservazione della natura e del mondo, alcun aspetto o contenuto che possa identificare e fissare il concetto e l’essenza della giustizia.
La metafisica della volontà descrive l’ordine teleologico che sottostà all’accomodamento tra i vari fenomeni, ovvero la semplice condizione di esistenza del tutto, il quale può mantenersi solo a scapito del singolo che spende la propria vita partecipando al generale annientamento reciproco tra forme di vita. L’individuo è niente per il tutto, ma in quanto sua parte – ad esso identica nell’essenza – si percepisce come centrale e indispensabile, come unico depositario del mondo. Dell’altro esso non ha e non può avere una medesima percezione, e per questo ognuno è agli occhi di un secondo soggetto un potenziale mezzo di sostentamento del mondo di cui si è portatori.
Tale situazione – origine dello stato di natura in cui la guerra di tutti contro tutti coinvolge non solo gli uomini, ma ogni vivente insieme alle forze inorganiche – non permette al legislatore di applicare alla società alcun modello naturale di ordinamento della convivenza. Tuttavia – e qui si ha l’elemento peculiare e originale della riflessione schopenhaueriana sul diritto – le dinamiche della natura, chiarificate alla luce della metafisica della volontà, forniscono la conoscenza di un fenomeno in grado di fungere da principio primo per la costruzione di una teoria giuridica: l’irruzione, a fini distruttivi o costrittivi, di una volontà entro i confini di affermazione di un’altra volontà – il cui relativo concetto è quello di ingiustizia o torto [2].
In determinate circostanze ognuno è in grado di avvertire, sotto forma di dolore morale, l’azione di una volontà esterna, altra dalla propria e tesa alla sua negazione. La presenza di tale contenuto “negativo”, di cui si può fare esperienza, si impone nel momento della riflessione giusfilosofica come ciò che avvia l’elaborazione di un rimedio sotto forma di ordinamento positivo, la cui legittimità non stia nel solo fatto di costituirsi mediante contratto sociale. La determinazione dei diritti, infatti, non dovrebbe essere puramente arbitraria, ma ottenuta capovolgendo mediante ragione quei contenuti negativi dell’esperienza sotto la cui maschera particolare e concreta si nasconde il torto generico (si hanno ad esempio la messa in schiavitù, l’omicidio, il cannibalismo ecc.) [3]. Ne risulta che è diritto dell’uomo fare tutto ciò che non reca offesa a qualcuno [4], oltre a reagire a un’ingiustizia subita. Il diritto, dunque, si ha solo a partire da un’astrazione operata su quanto ci è dato di sentire e sperimentare, e la sua non-autoreferenzialità è segnalata proprio da quel dato – il torto, che è sostanzialmente offesa dell’altro – che esiste e preesiste ad esso.
La precedenza del concetto di torto, rispetto a quello di diritto, è uno dei pochi punti notevoli della filosofia del diritto di Schopenhauer ad aver spinto qualche sparuto studioso a commentarla – solitamente con giudizio negativo. Ad esempio, Guido Fassò definisce la tesi paradossale, dato che la correlazione tra i due concetti (l’uno rimanda sempre all’altro) impedirebbe di stabilire alcuna priorità logica [5]. Il retroterra teorico della riflessione di Schopenhauer, però, chiarisce che ci si sta riferendo a due eventi diversamente caratterizzati, in quanto il diritto emerge e sussiste esclusivamente all’interno della riflessione, al contrario del torto che, pur essendo anch’esso un concetto, si ha a partire da un sentire immediato, non come prodotto della ragione che calcola, astrae e produce contenuti manipolando dati intuitivi e sensoriali. Come se brandisse una scure, Schopenhauer separa distintamente il regno dei concetti in due parti, comprendenti l’una quelli riferiti a un contenuto intuitivo-positivo e l’altra, invece, quelli ottenuti per negazione dei contenuti afferenti al primo gruppo.
Noi sentiamo il dolore, ma non l’assenza di dolore; sentiamo la preoccupazione, ma non l’assenza di preoccupazione; la paura, ma non la sicurezza. Sentiamo il desiderio, come sentiamo fame e sete; ma non appena esso sia stato appagato, è di esso come del boccone gustato, che nel momento in cui viene inghiottito cessa di esistere come nostra sensazione. [6]
Il diritto perciò, come la felicità e la libertà, contiene esclusivamente la negazione del contenuto del concetto a cui si contrappone, privo com’è di un’essenza in cui sia rintracciabile qualcosa di sentito e attinto al di fuori dell’ambito della riflessione e dell’astrazione ragionata. Da qui la priorità del torto.
Che il diritto sia un puro prodotto della ragione implica – nonostante l’aspetto morale che interviene nella sua maturazione – l’alterità del suo percorso rispetto a quello propriamente etico, il quale rimane esclusivamente individuale e legato a un cambiamento dell’intima essenza della volontà del soggetto. La teoria del diritto di Schopenhauer, invece, giunge all’edificazione di uno Stato con cui gli egoismi particolari, “illuminati” dalla ragione, rinunciano a una parte della propria libertà d’azione per garantirsi riparo dall’ingiustizia. Il codice penale, che si compone dei contro-motivi ideali al compimento delle azioni ingiuste, sfrutta il potere della deterrenza per cercare di orientare la condotta dei cittadini in modo da tutelare la sicurezza collettiva, legittimando l’uso strumentale della pena per adempiere al compito generale del patto sociale.
Note
[1] Cfr. Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, II. Supplementi, tr. it. di S. Giametta, Milano, BUR, 2002, p. 834.
[2] Cfr. Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, tr. it. di S. Giametta, Milano, BUR, 2002, p. 598.
[3] Cfr. ivi, p. 599.
[4] Cfr. Arthur Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, II, tr. it. di M. Montinari e E. Amendola Kühn, Milano, Adelphi, 1983, p. 317.
[5] Cfr. Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto, III. Ottocento e Novecento, a cura di C. Faralli, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 139-140.
[6] A. Schopenhauer, Supplementi, cit., p. 806.
Bibliografia
- FASSÒ Guido, Storia della filosofia del diritto, III. Ottocento e Novecento, a cura di C. Faralli, Roma-Bari, Laterza, 2001.
- SCHOPENHAUER Arthur, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, tr. it. di S. Giametta, Milano, BUR, 2002.
- SCHOPENHAUER Arthur, Il mondo come volontà e rappresentazione, II. Supplementi, tr. it. di S. Giametta, Milano, BUR, 2002.
- SCHOPENHAUER Arthur, Parerga e Paralipomena, II, tr. it. di M. Montinari e E. Amendola Kühn, Milano, Adelphi, 1983.