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Il nuovo imperialismo di Lévinas e il naufragio del verbo del Volto

Il nuovo imperialismo di Lévinas e il naufragio del verbo del Volto

Ott 30

 
Oggi pubblichiamo il primo articolo di Matteo Angelo Mollisi, studente di filosofia presso l’Università degli Studi di Milano. Matteo inizia la sua collaborazione con Filosofia Blog introducendo al concetto di Volto nella filosofia di Lévinas. Ringraziandolo per il contributo, gli diamo il benvenuto tra i collaboratori del blog.

 
Inafferrabile, indecifrabile, incomunicabile. Inevitabilmente ribelle è il Volto altrui per Emmanuel Lévinas, e altare dell’Infinito, e perciò sacro. Il richiamo ad un vincolo primordiale, una voce che s’innalza ad orientare chi lo scorga. Ma no, non una delle pretese di Totalità nelle quali troppe volte l’Occidente è caduto, ripetutamente; non un decreto supremo, non un clamore stentoreo e imperante. Eppure la sua voce s’innalza, e s’impone, pur essendo dell’imposizione il contrario: essa nutre la propria forza nella debolezza, comanda di non comandare, resiste nella mancanza di resistenza. Non uccidere è il suo imperativo, poco più di un sussurro; esso grida la tentazione e l’inesplicabile, introducendo un Possibile sconfinato, che penetra le membra dell’uomo e lo guida: egli vorrebbe uccidere l’altro, ma il Volto lo paralizza. Il Volto è l’arma e la guida dell’uomo; il Volto è l’imperativo che non nasce più intra nos, kantianamente, ma dall’esterno, dall’Altro; il Volto è polemos puro, conflitto inarrestabile e irrisolvibile, che pure sembra contemplare una risoluzione; il Volto è separazione tra materia e materia consapevole, ma non è la Ragione di chi abusa del Cogito cartesiano; il Volto è persona, dovere, Infinito; è trascendenza, eppure prossimità incredibile; il Volto non è più il mezzo, come nel percorso della Fenomenologia hegeliana, ma il fine; è l’etica, e pertanto la meta. Il Volto è l’uomo, ma anche Dio.

Nella compenetrazione apparentemente illogica e quantomento ambiziosa tra teologia e umanesimo, tra soggettività e assolutezza, tra possibile e necessario, tra debolezza e potenza, tra alterità e immanenza che Lévinas affida ad un viso contemplato, ad uno sguardo incrociato, ad un espressione o ad un semplice istante di umana empatia, si legge condensata l’intera critica antiontologica che il filosofo franco-lituano oppone all’intero pensiero occidentale, al suo razionalismo imperante e alla sua pretesa di Totalità: ad essa, egli oppone l’Infinito-altro, sotto forma di persona (da questa contrapposizione il titolo del saggio). Alla potenza, Lévinas oppone la debolezza del volto: in esso la debolezza diviene più potente della potenza, ed il suo fragile imperativo, mormorio quasi di pietà di chi non può difendersi, risuona più forte di qualsiasi altro imperativo imposto. Allo stesso modo, individuata nella ricerca di un fondamento ontologico l’attività prima di tutto il pensiero occidentale, egli propone il rapporto etico in luogo di questa: evidente è la volontà del filosofo di andare controcorrente, di lasciarsi alle spalle l’intera struttura speculativa consolidatasi fin dall’antichità. Ma se questa assurzione dell’etica a nuovo cardine primo, della fragilità a nuova potenza, del valore del rapporto a nuovo fondamento, e questa opposizione alla Totalità, altro non fossero se non una nuova Totalità? Non è, dunque, questa reazione all’Imperialismo del Medesimo, essa stessa un nuovo imperialismo, quello dell’Alterità?

Lévinas ci parla di un Volto che, nella sua incomunicabilità, ci comunica l’Infinito; egli ci introduce così in una nuova dimensione esistenziale, nella quale l’individuo agisce continuamente sotto l’influsso dell’Altro. Nell’imperialismo dell’Alterità, l’Alterità comanda, e l’individuo esegue. Lévinas considera l’uomo innanzitutto nella sua relazione col suo simile, e nell’immediatezza di questa relazione. La visione del volto altrui mostra all’uomo che non è solo, e la sua parola giunge forte e chiara. All’apparenza, il rovesciamento di Kant, e non solo dell’imperativo etico e della sua autogenesi, ma anche dell’uomo copernicano e dell’unicità inviolabile della sua immanenza, del suo solipsismo rappresentativo. L’uomo di Lévinas è altro da sé, è proteso verso il suo simile. È l’illusione dell’uomo che esce da se stesso e scopre l’Infinito nell’Altro, nella relazione; l’illusione dell’incrocio tra due rappresentazioni. Illusione, perché Lévinas parla di un incontro, ma sembra non considerare la distanza, lo spazio abissale che separa le due alterità, mentre esse vicendevolmente si guardano. Nella relazione, Lévinas non tiene conto della sua impossibilità, dettata dall’incolmabile distanza che separa l’individuo dal simile, una distanza che forse non è nemmeno definibile tale, poiché non è spazio né misura: mentre ogni distanza può infatti essere colmata, almeno nella teoria, venendo percorsa ad una qualche velocità quantomeno ipotizzabile, esprimibile seppure con un numero assurdo, l’inconcepibile spazio che si frappone fra me e l’Altro non è tale poiché non percorribile, poiché io non potrò mai essere l’Altro, né conoscerlo nella sua interezza; è così che Lévinas fonda inconsapevolmente ogni cosa sull’impossibile.

Forse, l’Infinito percepito da Lévinas, l’Infinito che il volto altrui comunica non è racchiuso nel volto stesso; forse l’Infinito, unica quantità inquantificabile, altro non è che la distanza stessa che separa l’individuo dal Volto altrui, e pertanto la rappresentazione di esso da parte dell’individuo. Forse, l’imperativo che l’individuo attribuisce all’Altro, la voce che egli crede provenga dal suo Volto, è in realtà generata nella profondità del suo stesso essere, e riecheggia nella propria abissale solitudine. Forse, il filosofo che più ha parlato negli ultimi anni di relazione e di apertura all’altro, scopre in realtà il seme dell’individualismo più inscalfibile e assoluto. È il naufragio del verbo del Volto, che comunica un disperato protendersi dell’uomo verso il simile, uno sforzo che per quanto grande non sarà mai pari all’infinita distanza che egli cerca di coprire: la distanza che lo separa dall’Altro, la distanza che gli impedisce di uscire da se stesso.
 

Bibliografia

  • E. Lévinas, Difficile Libertà, pp. 58-60.
  • E. Lévinas, Totalità e Infinito, pp. 88-89.

 


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