Temi e protagonisti della filosofia

Il mito platonico della caverna e la crisi dell’identità e del soggetto nella science fiction contemporanea

Il mito platonico della caverna e la crisi dell’identità e del soggetto nella science fiction contemporanea

Ago 10

 
Nel 1995, proprio quando la settima arte festeggiava i suoi primi cento anni di vita (come la psicoanalisi o il celebre testo Psicologia delle Folle di Gustave Le Bon), si è iniziato a parlare della sua inevitabile obsolescenza a fronte di un sistema di comunicazione di massa sempre più invasivo, a una rivoluzione multimediale inarrestabile (dal televisore, simbolo del focolare domestico negli anni Cinquanta in America e negli anni Settanta e Ottanta in Europa si è passati ai sempre più potenti computer e telefonini), che parevano davvero invincibili come evento immaginifico e come fenomeno di cultura e di costume. Il cinema, in realtà, grazie alla sua capacità di suggestionare e di affascinare persone di qualsiasi età, cultura e fascia sociale, pur attraversando fasi alterne di prosperità e di stagnazione, è sopravvissuto sino ai giorni nostri diventando un simbolo quasi mitico nell’immaginario collettivo.

Platone, attraverso il racconto della caverna presente all’inizio del libro settimo de La Repubblica, ha dimostrato che la tentazione di contentarsi/consolarsi con spettacoli suggestivi di immagini e ombre (più o meno cinesi) è antica quanto la nostra civiltà e con il suo straordinario genio creativo, ha anticipato di ventidue secoli e mezzo la creazione della settima arte [1]. Per il grande filosofo ateniese frequentatore di misteri orfico-pitagorici, infatti, l’essere umano vive costantemente in una condizione di doppia realtà in cui il sogno è sovente così complesso ed efficace da oscurare la medesima realtà quotidiana (non solo molti suoi miti, come quello di Er narrato ne La Repubblica, paiono elaborazioni oniriche [2], ma anche concetti come l’Iperuranio, zona al di là del cielo dove risiedono le idee e si estende la Pianura della Verità, erano per lui l’autentica realtà, mentre la grigia, squallida realtà in cui l’uomo è immerso ogni giorno, era una pura e modesta copia di quella vera realtà).

Negli ultimi decenni, anche in virtù del fatto che il tema della dialettica tra reale e onirico è sempre più accomunabile a quello del rapporto tra reale e virtuale, la Science Fiction di Hollywood, ovverosia di quel paese che viene comunemente considerato la «versione originale della modernità» [3], ha sfornato interessanti pellicole sulla questione delle due realtà separate o del doppio mondo.

Anche sulla base degli studi effettuati da scienziati come Vladimir Vernadskij, P. Teilhard de Chardin ed Edouard Le Roy, che introdussero il concetto di noosfera [4] o da cognitivisti come Stephen M. Kosslyn, che ha sviluppato un’analogia tra la mente e il computer, nonché delle riflessioni di filosofi come Hilary Putnam, il quale in Brains in a Vat (1981) immagina che noi tutti non siamo altro che cervelli immersi in una vasca piena di sostanze nutritive che li tengono in vita e le cui terminazioni nervose sono collegate a un super-computer programmato da uno scienziato malvagio che si prefigge di simulare gli stimoli sensoriali del mondo reale (uno scienziato che ricorda da vicino il genio maligno creatore di quell’illusione che noi chiamiamo realtà di cui parla Cartesio [5]), opere come Dark City (1998) di Alex Proyas, Matrix (The Matrix, 1999) di Lana e Andy Wachowski o il recente Branded (2012) di Jamie Bradshaw e Aleksandr Dulerayn, presentano un’umanità che vive prigioniera, rispettivamente, in una metropoli-mondo (clonata dalle megalopoli americane degli anni Quaranta) sospesa tra le stelle, nei cui sotterranei perfidi alieni, gli Stranieri, esseri a metà tra cenobiti e vampiri, conducono esperimenti sulla memoria degli ignari cittadini approntando molteplici vite illusorie; in una realtà simulata sviluppata dalle macchine per poter tenere sotto controllo gli umani (una «neuro-simulazione interattiva» la definisce Morpheus, capo dei ribelli che lottano per liberare gli uomini da tale schiavitù), globale e collettiva (gli abitanti di Matrix interagiscono con la simulazione e indirettamente anche tra di loro); in una società surreale e distopica in cui i “marchi” delle corporations controllano le persone nel loro agire e nel loro pensare rendendole disilluse, dipendenti e passive.

In realtà, a partire da pellicole come L’uomo che fuggì dal futuro (THX 1138, 1971) di George Lucas, Blade Runner e Tron, entrambi del 1982 e diretti, rispettivamente, da Ridley Scott e Steven Lisberger, il citatissimo Videodrome (1983) di David Cronenberg, Essi vivono (They Live, 1988) di John Carpenter o Il tagliaerbe (The Lawnmower Man, 1992), diretto da Brett Leonard, il cinema ha preconizzato l’avvento di un’umanità consegnata totalmente a un mercato universale fatto di merci, ma anche di valori, simboli e immagini, appiattiti e frullati lungo l’infinito trash-road di ogni supporto disponibile e pronti per essere venduti e consumati. Un’umanità condannata a una unidimensionalità (indagata, tra gli altri, da filosofi come il già citato Jean Baudrillard con la sua famosa società del simulacro [6] e da Guy Debord con la sua Société du Spectacle, nonché da Anthony Giddens, Herbert Marcuse, Edgar Morin e Jean-Luc Tourenne), che appare come la condizione finale cui pare averci destinato la nostra trimillenaria civiltà.
 

Note

[1] Il grande fascino e mistero che trasmette lo schermo cinematografico, rispetto, ad esempio, alla televisione o al computer, è dato, soprattutto, dalla sala cinematografica buia e chiusa in cui avviene la proiezione del film, la quale ricorda una caverna, una mitica caverna come quella del noto racconto platonico: «[…] considera degli uomini chiusi in una specie di dimora sotterranea a mo’ di caverna, avente l’ingresso aperto alla luce e lungo per tutta la lunghezza dell’antro, e quivi essi racchiusi sin da fanciulli con le gambe e il collo in catene, sì da dover star fermi e guardar solo dinanzi a sé, ma impossibilitati per i vincoli a muovere in giro la testa; e che la luce di un fuoco arda dietro di loro, in alto e lontano e che tra il fuoco e i prigionieri corra in alto una strada, lungo la quale è costruito un muricciolo, come quegli schermi che hanno i giocolieri a nascondere le figure, e sui quali esibiscono i loro spettacoli» (il corsivo è nostro in quanto ci sembra evidente che, nell’argomentazione, Platone, per il tramite di Socrate, faccia riferimento all’attività di uno specifico spettacolo, probabilmente a quei tempi considerato di basso livello, che egli invece qui propone come metafora dei processi conoscitivi elementari), tratto da La Repubblica di Platone, I Classici della Bur, 1995 (VII, 514-518).

[2] Il mito di Er (che conclude il decimo e ultimo libro de La Repubblica) è incentrato su un eroe, un soldato armeno originario della Panfilia morto in battaglia, il quale dichiara di essere stato per 12 giorni nell’Ade, il regno dei morti, e di aver poi ottenuto la possibilità di tornare nella realtà per raccontare agli uomini cosa ha visto nel mondo della vera realtà. E d’altro canto, lo stesso mito di Orfeo, archetipo forse di tutti i miti greci, racconta di un viaggio nell’aldilà dell’eroe eponimo per tentare di resuscitare la sua amata Euridice.

[3] Jean Baudrillard, L’America, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 64.

[4] Con ‘noosfera’ si intende di solito la “sfera del pensiero umano”, una specie di “coscienza collettiva” degli esseri umani che scaturisce dall’interazione fra le menti umane. Nel 1927 il sopracitato Le Roy scrisse: «A partire dall’uomo, l’evoluzione si realizza con nuovi mezzi puramente psicologici: attraverso l’industria, la società, la lingua, l’intelletto, ecc. la biosfera si trasforma in noosfera» (Edouard Le Roy, L’exigence idéaliste et le fait de l’evolution, Paris, 1927, pp. 195–196.

[5] «Supporrò dunque che vi sia non un Dio ottimo, fonte di verità, ma un qualche genio maligno e nel contempo sommamente potente e astuto, che abbia posto tutta la sua operosità nell’ingannarmi: stimerò che il cielo, l’aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne non siano altro che illusioni dei sogni con cui quel genio ha teso insidie alla mia mente. Supporrò di essere senza mani, senza occhi, senza carne, senza sangue, privo di qualsiasi senso e di possedere queste cose solo per falsa opinione» (Cartesio, Prima meditazione, 1641).

[6] Il filosofo francese Jean Baudrillard (1929-2007) è stato uno dei più convinti critici della postmodernità e della società simulacro; se lo scetticismo e il relativismo filosofico mettono in dubbio il concetto di verità, egli ha messo più che in dubbio il concetto di realtà, affermando che, nell’era della comunicazione virtuale (televisiva, radiofonica, giornalistica, informatica), qualsiasi fatto tende a scomparire e cedere il posto a una apparenza che è il suo esatto contrario o a diventare uno spettacolo od oggetto di consumo. All’inizio del suo noto saggio Simulacri e simulazioni del 1981, il filosofo francese afferma: «Il simulacro non è mai ciò che nasconde la verità; ma è la verità che nasconde il fatto che non c’è alcuna verità. Il simulacro è vero».
 


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