Il cinema scandinavo, Paolo Sorrentino e l’attualità del pensiero di Søren Kierkegaard
Il cinema scandinavo, Paolo Sorrentino e l’attualità del pensiero di Søren Kierkegaard
Ott 23Oggi pubblichiamo il primo articolo di Giancarlo Chiariglione, laureato in Lettere moderne presso l’Università di Torino e docente di discipline umanistiche nelle scuole superiori. Giancarlo inizia la sua collaborazione con Filosofia Blog occupandosi della presenza della filosofia kierkegaardiana nel cinema contemporaneo. Ringraziandolo per il contributo, gli diamo il benvenuto tra i collaboratori del blog.
L’Esistenzialismo, come è noto, ha fornito parecchio materiale di riflessione all’arte in generale e al cinema in particolare. Se molti critici ricordano la celebre prefazione del libro di Stanley Cavell The World Viewed: Reflections on the Ontology of Film (1979), in cui l’autore, ispirandosi a I giorni del cielo (Days of Heaven, 1978) e più in generale alla produzione di Terrence Malick, ha sviluppato un’interessante riflessione circa il rapporto esistente tra Martin Heidegger e la settima arte (la radiosità formale del film del noto regista è stata infatti avvicinata alla riflessione del filosofo tedesco sulla relazione tra Essere ed esseri, sul radioso mostrarsi delle cose in una luminosa apparenza), non si contano gli studiosi che, da sempre, hanno sottolineato come Søren Kierkegaard (1813–1855), tra i pensatori più famosi e celebrati in Occidente, nonché precursore ottocentesco dell’Esistenzialismo moderno, abbia nutrito l’immaginario teatrale e cinematografico scandinavo (e non solo).
Nel dandy filosofo, teologo e scrittore di Copenaghen conosciuto anche per i suoi improbbabili pseudonimi (tra i più noti Victor Eremita, Johannes de Silentio, Vigilius Haufniensis, Nicolaus Notabe dne, Hilarius il Rilegatore), vi è, infatti, l’esercizio di un pensiero davvero nuovo (peraltro sviluppato con una scrittura vertiginosa, quasi cinematografica), scrupolosamente fenomenologico e critico, coerente con le esperienze culturali materializzatesi all’indomani del tramonto dell’illuminismo e dell’idealismo. Il periodo storico nel quale il nostro ha vissuto e operato era, infatti, come lui stesso ebbe a definirlo, un’epoca di dissoluzione in cui emergeva in tutta la sua urgenza l’assenza di un principio creatore capace di stabilire valori e norme universali, in cui già germinava quella crisi dei valori del mondo borghese e liberale, delle sue ambizioni intellettuali e delle sue istituzioni, le cui ultime trasformazioni investono la nostra stessa quotidianità.
Kierkegaard riteneva pertanto che fosse possibile superare l’angoscia derivante da questa realtà, e quindi di pervenire a Dio, all’Assoluto, attraverso un percorso individuale, intimo, sofferto: un percorso solipsistico come quello di Abramo [1], autentico «cavaliere della fede». Nel senso che la pulsione spirituale del patriarca, così irrazionale da oscillare tra gli abissi disumani della crudeltà e le altezze transumane della sublimità mistica (dopo avergli promesso che suo figlio Isacco sarebbe stato il capo di molte genti, Dio domanda ad Abramo di sacrificarlo e poi, all’ultimo, sul monte Moriah, ferma la sua mano [2] ), simbolizza in maniera perfetta la situazione esistenziale dell’uomo «la sua libertà, cioè la sua possibilità di scegliere e di perdere il suo rapporto con Dio» [3] .
Tale problematica ha ispirato grandi capolavori del cinema quali Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet, 1957) e la nota “Trilogia del Silenzio di Dio” (Come in uno specchio [Såsom i en spegel, 1961], Luci d’inverno [Nattvardsgästerna, 1963] e Il silenzio [Tystnaden, 1963]) di Ingmar Bergman, Ordet – La Parola (Ordet, 1955) e Gertrud (1964) di Carl Theodor Dreyer, Le onde del destino (Breaking the Waves, 1996) di Lars von Tryer, opere in cui riecheggia la definizione che Kierkegaard ha dato della fede come rischio, azzardo, terapia [4] ; pellicole in cui coloro che decidono di rinunciare a Dio (quella estetica caratterizzata dal godimento fisico, quella etica segnata dall’obbligo morale e quella religiosa in cui ci si innamora di Dio, sono per il noto studioso le tre fasi, di cui ognuna rappresenta un’alternativa che esclude l’altra, che l’uomo deve attraversare per giungere alla maturità spirituale), sprofondano nella più cupa disperazione (si pensi a personaggi come Karin, Tomas, Ester protagonisti della citata trilogia e particolarmente al finale di Luci d’inverno, in cui Marta, unica spettatrice della messa celebrata da Tomas in una chiesa vuota afferma «Ah se potessi credere in una qualunque cosa; se solo potessimo credere!»).
Influenzati dal celebre filosofo, anche altri autori “nordici” come Victor Sjöström, Mauritz Stiller, Gabriel Axel o Nicolas Winding Refn, nuovo enfant sauvage del cinema danese, hanno creato dei personaggi che constatando ogni giorno la caducità e la contraddittorietà dei loro punti di riferimento, conducono le loro vite nella convinzione che non vi sia alcuna verità assoluta (in senso hegeliano), nessuna ragione da esibire. Soprattutto, se pensiamo ad esempio ai piccoli criminali Frank, Tonny e Milo protagonisti della trilogia refniana di The Pusher, quasi incapaci di operare un qualsiasi cambiamento nonostante un fallimento esistenziale di cui acquisiscono una sempre maggiore coscienza (quindi perfettamente collocati nel salto della vita che va dalla fase estetica a quella etica), costoro mostrano come l’inquietante «modernità senza illusioni» in cui siamo immersi coincida in buona parte con la demolizione di ogni superiore principio spirituale, con un indurimento materialistico che annichilisce.
Persino alcune pellicole di cineasti dallo stile comico-grottesco, come l’americano Woody Allen o l’italiano Paolo Sorrentino, sembrano essere state realizzate a partire da influssi kierkegaardiani: sia la borghesia del primo che tende a ridurre le relazioni sentimentali a una dimensione puramente estetica (benestanti manager, giornalisti, docenti universitari, artisti, poeti e scrittori, ossessionati dalla brevità della vita, consumano in modo compulsivo e con la medesima disinvoltura realtà gradevoli ma dissimili come il sesso, il cibo, la musica e l’arte), che quella rappresentata dal regista napoletano ne La grande bellezza (2013), la quale, fiera della propria chiusura e abiezione da «ultimo uomo» si ammassa in ville e terrazze romane alla ricerca del lusso più sfrenato e della libido più estrema, si muovono in modo prevedibile [5] in un orizzonte bloccato, evocando quella nostalgia della verità sofferente cristiana [6] di cui parla il pensatore danese.
Sempre a proposito di La grande bellezza (tematicamente assimilabile al felliniano La Dolce Vita del 1960), se si analizza in profondità la lunga odissea del giornalista Geppino “Jep” Gambardella (Toni Servillo), caratterizzata appunto da squallide feste mondane, dalla decisione di calarsi progressivamente nel conformismo sociale dell’“uomo medio” per esorcizzare quel sentimento di angoscia ben simbolizzato dai personaggi della defunta Elisa De Santis, primo e unico amore del protagonista, e del suo triste vedovo Alfredo, abbandonato alle sorti di un lutto più lacrimato che sofferto (l’akmè del film è invece rappresentata dal personaggio della Santa, la quale non concedendo interviste, dormendo per terra e attirando fenicotteri sul Colosseo, rammenta come la liberazione dell’uomo dalla schiavitù degli istinti e degli impulsi primitivi possa passare solo attraverso la mortificazione, la rinuncia, la sofferenza per la verità), si potrebbe addirittura affermare che in poche altre pellicole pare ergersi in modo così evidente l’esoscheletro della filosofia esistenzialista di Kierkegaard.
Il quale, per la semplicità delle espressioni formali, per la ricchezza delle suggestioni religiose ed esistenziali che è stato in grado di diffondere con ampiezza di particolari e, soprattutto, per idee filosofiche che vengono personificate in modo tale che compaiono e si muovono come degli individui in azione (in ciò simile a Dostoevskij), ha ispirato come pochi altri intellettuali una settima arte che sin dalle sue origini si è proposta di trattare nella maniera più originale possibile un antico, decisivo tema: l’esistere.
Note
[1] Intorno alla figure di Abramo e di Giobbe il filosofo danese ha costruito le opere Timore e tremore e La ripetizione (tradotto come La ripresa), entrambe pubblicate nel 1843.
[2] Genesi 22, 13-14: «13 Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. 14 Abramo chiamò quel luogo «Il Signore provvede», perciò oggi si dice «Sul monte il Signore provvede».
[3] Amalia De Maria, Nozioni di Filosofia, CUSL, Torino, 1993, p. 85.
[4] Il filosofo e teologo di Copenaghen ebbe a dire: «Il Cristianesimo, o meglio il diventare cristiani, è come ogni cura radicale: la si rimanda quanto più a lungo si può», citato in Tommy Cappellini, Quel pericoloso soggetto di Kierkegaard, Corriere del Ticino, 22 agosto 2013.
[5] L’umanità di queste pellicole, così anonima, omologata, “globalizzata”, in linea con la cultura dell’individualismo di massa e il trionfante “politically correct”, ci ricorda che Kierkegaard, diversamente da Hegel, ha sempre visto nel singolo, nella sua vita così paradossale, nel suo disperato desiderio di trascendenza, realtà tramite cui provare a trovare un senso nel vuoto che ci circonda. Come ci ricorda infatti Aurelio Rizzacasa, l’intellettuale danese si propone di combattere l’atteggiamento speculativo insito nelle oggettivazioni della storia universale rivalutando «tanto la soggettività etica del singolo quanto l’elemento metastorico della salvezza insito nel rapporto religioso del singolo con Dio» (A. Rizzacasa, Kierkegaard. Storia ed esistenza, Edizioni Studium, Roma 1984, p. 9).
[6] Come ci ricorda Remo Cantoni, Kierkegaard pensa che l’edonista, il gaudente, non potendo dare nessuna spiegazione soddisfacente della sua esistenza «perché egli vive di continuo nel momento ed ha, quindi, solo una coscienza relativa e limitata» (Soren Kierkegaard, AUT-AUT Estetica ed etica nella formazione della personalità, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1956, traduzione di K. M. Guldbrandsen e Remo Cantoni, introduzione di Remo Cantoni, p. 3), maturi inevitabilmente una nostalgia della spiritualità cristiana. Il pensatore danese, che come l’ultimo Schelling si illudeva di superare l’hegelismo accentuando l’importanza della religione, distingue però la vera fede da quella professata dalla Chiesa di Danimarca, la quale era stata fortemente influenzata da un protestantesimo che aveva abolito il Cristianesimo del Nuovo Testamento trasformandosi in una sorta di comodo paganesimo. Tale Chiesa, totalmente collusa col potere democratico-borghese, veniva ben rappresentata dal vescovo luterano di Copenaghen Mynster, tanto che, quando dopo la morte di costui, il nuovo pastore, il teologo hegeliano H. Martensen, nell’elogio funebre osò proclamarlo “testimonio della verità”, Kierkegaard, attraverso i fascicoli de “Oejeblikket” (dal maggio al settembre del 1855), sferrò una serie di accuse che coinvolsero non solo il vescovo scomparso, ma l’intera cristianità stabilita. Consumando le ultime energie del proprio organismo, che infine crollò in un malore che lo condusse alla morte l’11 novembre 1855, il filosofo di Copenaghen attaccò con violenza il pastore reo di aver tradito la sua missione («… Mynster pensa probabilmente [e questo è di solito la modernità] che il Cristianesimo è cultura. Ma questo concetto di cultura è quanto mai inopportuno e forse perfino diametralmente opposto al Cristianesimo, quando diventa godimento, raffinatezza, pura cultura umana. …», Kierkegaard, Diario , X 3 A 588 [3229], p. 132 vol. 8), e poi dichiarò di morire con una gratitudine infinita per la Provvidenza che gli aveva permesso di soffrire per la propagazione dell’idea del cristianesimo come «verità sofferente» (Pietro Prini afferma che, essendosi Kierkegaard proposto di cercare la verità cristiana sperimentandola nella propria esistenza, la filosofia che ne deriva vuole essere una vera e propria teologia sperimentale; quasi un’autobiografia teologica: P. Prini, Storia dell’esistenzialismo. Da Kierkegaard a oggi, Studium, Roma, 1989, in particolare cap. I, pp. 20-25).