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I concetti di fede e male nell’universo weiliano

I concetti di fede e male nell’universo weiliano

Gen 28

 

 

I due brevi scritti di Simone WeilAppunti sull’amore di Dio, Riflessioni senza ordine sull’amore di Dio – e il saggio più ampio – L’amore di Dio e l’infelicità – risalgono tutti, con buona probabilità, al periodo marsigliese. Pur nella loro diversa e specifica articolazione, i due lavori sono accomunati dal fatto di trattare uno dei temi centrali nella Weil, ossia la riaffermazione del soprannaturale attraverso il tema dell’amore di Dio. Ciò che ci vuole dire la pensatrice è che l’amore di Dio non è semplice oggetto di fede, intesa come credenza, ma è, invece, frutto di una conoscenza assolutamente certa, la cui fondatezza – come avviene per la conoscenza scientifica – deriva, esclusivamente, dall’esperienza. La Weil arriva a sostenere che lo spirito umano deve conservare sempre la capacità e il dovere di dubitare, perché il dubbio gioca sempre a favore della verità. Diventa incisivo il ruolo del dubbio se, di questo, si fa un uso metodico, dal momento che, in questo modo, andrà a distruggere la certezza illusoria delle cose incerte per confermare, invece, la certezza delle cose certe [1].

In contrasto con le più radicate convinzioni, che presentano l’uomo come essere libero, la Weil ritiene che la sola scelta possibile per l’essere umano sia quella di rivolgere o meno il proprio amore alle cose di quaggiù; la sola autentica opzione, insomma, è tra l’idolatria e la verità. La sola libertà consentita all’uomo è quella di orientare il proprio sguardo, in modo che questo sia rivolto e fissato costantemente su Dio. L’unica missione che spetta all’uomo, quindi, è quella di rimuovere tutti gli ostacoli che gli impediscono di rivolgersi a Dio: per il resto, l’essere umano deve saper attendere, con estrema pazienza, che l’energia solare di Dio ci faccia ascendere verso l’alto, come accade per le piante, che, in contrasto con la forza di gravità, crescono dal basso verso l’alto. La grazia è la sola sorgente di energia capace, nell’uomo, di fare da contrappeso alla sua pesantezza morale, alla sua tendenza al male, che lo spinge a vivere e a comportarsi unicamente secondo la legge di gravità, la quale lo trascina a tal punto in basso da confonderlo con la materia. Così egli arriva a sperimentare la schiavitù e l’infelicità. Quest’ultima non è altro che sofferenza fisica, vero e proprio sconforto dell’anima e degradazione sociale [2].

A detta di Simone Weil, credere in Dio non dipende da noi, ma l’unica cosa che effettivamente dipende dall’essere umano è non indirizzare il suo amore verso false divinità. Non bisogna credere, inoltre, che il futuro possa portare con sé un bene tale da appagare, totalmente, la felicità umana, dal momento che l’avvenire è fatto della stessa sostanza del presente.

In Appunti sull’amore di Dio, l’autrice prosegue sottolineando che la ricchezza, il potere, la stima, le conoscenze, l’amore di coloro che si ama e l’affetto che si può nutrire verso i propri cari, non sono mai riusciti ad appagarci veramente:

Tuttavia ci ostiniamo a credere che il giorno in cui avremo un po’ di più, saremo finalmente felici. Lo crediamo perché mentiamo a noi stessi. Infatti, se riflettessimo anche solo per qualche istante, ci accorgeremmo che non è vero. [3]

Lo stesso discorso vale per la sofferenza. Quando l’essere umano soffre, a causa di una malattia, della miseria o perché è infelice, in lui nasce una sorta di convinzione, che lo porta a credere che il giorno che verrà a mancare la causa del suo dolore, allora raggiungerà la felicità. Però dentro l’animo resta sedimentato un qualcosa, che suggerisce a noi, in quanto uomini, che il giorno in cui saremo abituati alla mancanza di quel dolore incominceremo a desiderare qualche altra cosa:

Desideriamo continuamente cose nuove. Vogliamo vivere per qualche cosa. È sufficiente non mentire con noi stessi per sapere che non c’è nulla su questa terra per cui si possa vivere. Proviamo ad immaginare che tutti i nostri desideri vengano esauditi: dopo un po’ di tempo saremo di nuovo insoddisfatti. Desidereremo altre cose e ci sentiremo infelici al pensiero di non sapere che cosa vogliamo.

Per la Weil dipende solo dall’uomo tenere sempre presente questa verità:

Ad esempio, se i rivoluzionari non mentissero con se stessi, saprebbero che il felice esito di una rivoluzione li renderebbe infelici, perché avrebbero perso la loro ragione di vita. [4]

Sempre nel corso di questo breve saggio, si tratta della presenza del male. Esso, per la pensatrice francese, non è né la sofferenza, né il peccato; è l’una e l’altro insieme, è una realtà comune all’una e all’altro, dal momento che sofferenza e peccato sono vincolati da uno stretto legame. Questa unione tra sofferenza e peccato caratterizza il male,

quel male in mezzo al quale dobbiamo vivere, nostro malgrado, provando orrore per il fatto che vi siamo invischiati. [5]

L’uomo proietta parte del male che è in lui sulle cose che sono oggetto della sua attenzione e del suo desiderio e

queste cose rifrangono quel male su di noi, quasi ne fossero la fonte. Per questo motivo odiamo e proviamo disgusto per i luoghi in cui ci troviamo sommersi dal male. Ci sembra che gli stessi luoghi ci tengano prigionieri del male. Ecco perché i malati odiano la loro camera e le persone che li circondano, anche se queste sono persone care, e gli operai odiano la loro fabbrica.

Se però l’oggetto dell’attenzione e del desiderio, sul quale l’uomo proietta parte del male che c’è in lui, è del tutto puro, non potrà essere contaminato da quel male, anzi rimane intatto. Solo in questo modo il soggetto riesce a liberarsi dal male [6].

 

Note

[1] M. Veto, Chi era Simone Weil: continuità e novità, in «Annuario filosofico», 29 (2013), Mursia, Milano 2014, p. 167.

[2] Ivi, p. 169.

[3] S. Weil, Lettera a Deodat Roché, in Amore di Dio, Edizioni Borla, Roma 2010, pp. 100-101.

[4] Ivi, pp. 107-109

[5] Ibid.

[6] Weil, Appunti sull’amore di Dio, in L’amore di Dio, Edizioni Borla, Roma 2010 p. 57.

 

 


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