Gli atti sociali in Edith Stein (3)
Gli atti sociali in Edith Stein (3)
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Psicologia e scienze dello spirito
Ritroviamo il secondo passaggio compiuto da Edith Stein nei due saggi che compongono Psicologia e scienze dello spirito, il primo avente per tema La causalità psichica, il secondo incentrato Sull’individuo e la comunità. Prima di affrontare il testo del 1925, in cui Edith Stein tematizza il proprio confronto con la teoria reinachiana del sociale, è importante rivolgere l’attenzione a questi due scritti, che fungono da cerniera tra la riflessione sull’empatia e quella sulla comunità statale. L’interesse principale di Edith Stein è esplicitato nella seconda parte, che presenta l’evoluzione delle tesi già espresse nel lavoro sull’Einfuhlung. Scopo dell’autrice è indagare le possibili modalità di relazione tra le motivazioni e le disposizioni dell’individuo e quelle, ammesso che sia sensato parlarne in modo proprio, di una comunità; e ancora il significato e la possibilità della partecipazione del singolo alla vita comunitaria, la sua identificazione con essa, e i cambiamenti che questa partecipazione può apportare alla vita dell’individuo stesso.
Per fondare le sue analisi sulla comunità nel modo più solido possibile, la Stein le fa precedere dalla prima parte, nella quale procede alla definizione di concetti-chiave quali “psiche”, “motivazione”, “disposizione”, “sentimento”, e soprattutto porta avanti la sua descrizione fenomenologica dell’atto libero, che richiama direttamente la definizione reinachiana degli atti spontanei. Per Reinach, come per Stein, gli atti spontanei si distinguono dalla categoria generale degli atti mentali in quanto capaci di unire all’esperienza recettiva la capacità di produrre un effetto. La spontaneità di alcuni atti di coscienza risiede nel fatto che il soggetto ne è l’autore esplicito, vi appone, per così dire, la sua firma. Dire che un atto è spontaneo vuol dire dunque affermare la possibilità da parte dell’agente non solo di provare un certo stato di cose, ma di creare da sé le condizioni per una nuova situazione. Edith Stein adotta la termologia reinachiana quando parla di “atteggiamento”, “riconoscimento”, “rifiuto”, “affermazione”, e propone la sua concezione degli atti liberi come atti di volontà, in cui cioè l’io determina ciò che deve essere. Si tratta di atti non determinati da condizioni antecedenti, ma che al contrario dipendono dalla comprensione che l’io ha delle ragioni e delle motivazioni, e dal proprio giudizio al loro riguardo. Una sottocategoria degli atti liberi è rappresentata proprio dagli atti cosiddetti “sociali”:
Per finire vorremmo ancora parlare brevemente di una classe di atti liberi che abbiamo già incontrato di tanto in tanto, dal momento che qui si potrebbe dar luogo a qualche fraintendimento. La rassicurazione, la rinuncia a una pretesa, ma anche la garanzia, il rifiuto, il perdono e così via sono “atti sociali” diretti verso un altro soggetto. Essi possono presentarsi in forma di comunicazione orale, ma non debbono identificarsi con questa. L’asserzione va assolutamente distinta dalla sua espressione linguistica, dal che deduciamo che la medesima espressione linguistica può esprimere un’asserzione, una rassicurazione o una menzogna. Allo stesso modo l’atto della rinuncia o del rifiuto è distinto dalla comunicazione linguistica rivolta al destinatario. D’altro canto anche gli atti suddetti non vanno scambiati con la presa di posizione della volontà su cui si costituiscono [1].
Il fraintendimento che la Stein vuole evitare con queste chiarificazioni è l’assimilazione degli atti sociali agli “atti linguistici”, categoria quest’ultima teorizzata compiutamente da John L. Austin [2], ma che può apparire fuorviante se utilizzata per spiegare la specificità degli atti sociali, in quanto rischia di escludere l’aspetto intenzionale, la cui imprescindibilità è stata già affermata nella trattazione sull’empatia. Vi è però anche la possibilità opposta di una lettura psicologista degli atti sociali, per la quale essi si identificherebbero con la volontà del soggetto tout court, senza alcuna necessità di espressione. L’atto sociale, proprio come i soggetti dai quali esso deriva, è nella sua unità un “sinolo” di interiorità ed esteriorità, di disposizione interna ed espressione fisica. Senza uno solo di questi due elementi, l’atto sociale, allo stesso modo della persona, perde la sua specificità ed è impossibile rendere conto della sua complessità.
Queste considerazioni della Stein permettono di ricostruire anche il rapporto tra gli individui all’interno della società. Si tratta di un rapporto ambivalente, per comprendere il quale la Stein deve mettere a frutto tutte le acquisizioni finora compiute. Vi è infatti un’innegabile apertura degli individui a relazioni sociali di vario genere, ma al contempo c’è anche un aspetto di irriducibilità, lo stesso aspetto che l’aveva portata a distinguere l’empatia da ogni forma di immedesimazione e di assimilazione di un soggetto ad un altro. La categoria di “atto sociale”, sempre opportunamente ripensata, viene ancora una volta in soccorso ad Edith Stein, permettendole di scagionarsi dai possibili fraintendimenti cui poteva incorrere la sua teoria del sociale. Si potrebbe ipotizzare, infatti, che la Stein proponesse una sorta di dicotomia tra l’ipseità dell’individuo e la sua dimensione sociale, finendo col considerare la seconda come un irretimento della prima, e i ruoli sociali (da lei definiti tipi sociali), come maschere che occultano del tutto l’individuo ed il suo vero volto. In uno dei passaggi di maggiore chiarezza espositiva e bellezza stilistica, Stein ribadisce il nesso tra empatia e atto sociale, come legame che raggiunge l’altro pur senza mai assimilarlo in un’unità:
Il rapporto tra individui passa per lo più attraverso atti sociali, con i quali l’uno si dirige e si rivolge verso l’altro. L’uno parla e l’altro lo comprende ed è proprio per il significato di quest’atto che non soltanto viene inteso il contenuto materiale oggettivo espresso e quindi udito, ma viene inoltre comunicato e recepito, in modo che questa correlazione reciproca entri a far parte del contenuto del vissuto. Quando si tratta soltanto di una trasmissione dell’insieme di cose materiali, la direzione abituale del vissuto non si imbatte soltanto nell’altro io, come in una personalità individuale con determinate qualità proprie soltanto ad essa, ma si imbatte in un io che comprende. […] Se da tali atti, al di là della forza vivificante che emana dalla freschezza presente in essi, si determina anche un influsso causale, quest’ultimo proviene dal contenuto di significato e non è più un’azione del parlante [3].
La comprensione di cui si parla altro non è che la comprensione empatica, senza la quale si finirebbe col concepire la comunità come un superindividuo totalizzante, o al contrario come “massa”, in cui non è possibile andare oltre la comprensione del contenuto materiale oggettivo, per dirla con Austin, dell’“atto linguistico”. Ciò che solo può conferire “freschezza” agli atti sociali è la “forza vivificante” che proviene dalla relazione intersoggettiva; essa costituisce pertanto l’apriori per la costruzione di un mondo sociale, quell’apriori che rende “sociali” gli atti sociali, e che Reinach, temendo forse di spingersi troppo oltre il maestro, aveva evitato di scorgere. Questa nuova ontologia non può essere concepita semplicemente come un’accozzaglia di “cose”, di “oggetti sociali” ma è una nuova realtà istituita da atti, i quali a loro volta sono preceduti dal “gioco” della socialità, le cui regole sono soggettive e tuttavia non arbitrarie:
Inoltre è una particolarità degli atti sociali, intesi nel loro significato più ampio, lasciar emergere nuove oggettualità, ovvero i rapporti tra le persone, come amicizia, inimicizia, cameratismo, dominio e così via; essi mostrano, come la fonte da cui scaturiscono, un lato individuale ed uno tipico [4].
Queste “oggettualità” di cui Edith Stein parla nelle ultime pagine di Psicologia e scienze dello spirito non autorizzano da sole a parlare di una vera e propria “ontologia sociale” steiniana. D’altra parte però neanche Reinach aveva concepito la sua riflessione essenzialmente come una ontologia, e in tal senso molte forzature sono state effettuate da parte di numerosi teorici del “mondo sociale”. Resta dunque da capire quale possa essere il valore più profondo affidato dalla Stein alla categoria degli atti sociali, e per far ciò bisogna passare in rassegna alcune pagine del suo saggio sullo Stato, con il quale si chiude la prima fase del percorso intellettuale della nostra autrice.
Note:
[1] Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, pp. 90-91.
[2] John L. Austin, How to do Things with Words, trad. it. a cura di C. Penco e M. Sbisà, Come fare cose con le parole, Genova, Marietti 1987.
[3] Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, pp. 229-230.
[4] Edith Stein, Psicologia e scienze dello spirito, p. 307.
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