Osservare l’arte tra esperimenti e creazione. Possibilità e limiti di una sperimentazione estetica (4)
Osservare l’arte tra esperimenti e creazione. Possibilità e limiti di una sperimentazione estetica (4)
Set 18
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C. Emozioni, desiderio e linguaggio: il dominio dell’inconscio
Esprimere una valutazione, dar voce ad un’emozione più o meno intensa, soddisfare un desiderio, sono tutte operazioni che passano attraverso l’uso del linguaggio. C’è un’idea, comune a diverse scuole di pensiero, secondo cui il singolo si esprimerebbe in due modi differenti, o, per meglio dire, verbalizzerebbe pensieri e stati d’animo seguendo due schemata ben distinti. In origine – potremmo dire – fu Ferdinand de Saussure, il padre della linguistica, che nel suo Cours de linguistique generale introdusse la separazione canonica tra langue e parole, dove la prima indica la componente sociale del linguaggio basata su convenzioni stipulate all’interno di una determinata comunità di parlanti, mentre la seconda evidenzia la dimensione privata, individuale del linguaggio, l’atto linguistico liberamente effettuato da un singolo parlante. Una suddivisione che fu poi ripresa e superata, in ambito cognitivista, da Noam Chomsky, che distinse due tipi di linguaggio: il linguaggio I (Internal Language) è costituito da un insieme di strutture innate, che permettono al parlante di esprimersi, mentre il linguaggio E (External Language) è basato sulle differenti sedimentazioni storico-culturali delle lingue.
Ancora diverso è quanto espresso da Gilles Deleuze in un significativo passaggio dedicato alla “lingua del teatro”: l’uomo è un essere bilingue ma, paradossalmente, lo è in una sola lingua. Egli è uno straniero nella sua stessa lingua. L’idea di Deleuze è che si possa parlare di un «uso della lingua secondo la variazione»: l’uomo – nel caso specifico, l’attore in scena – impone una variazione continua alla sua lingua, in modo tale da dare l’impressione di esprimersi in più lingue. È un lavoro di costante variazione che passa per continui cambi di tonalità e di volume: è un linguaggio che “balbetta”, s’interrompe, incespica su se stesso, sperimenta nuove forme.
La prospettiva di un linguaggio che funziona per variazione e in maniera irregolare rimanda ad un dominio caratterizzato dalla discontinuità, dall’assenza di controllo e dal dominio dell’irrazionale: a partire dalla lezione di Jacques Lacan, anche l’inconscio si esprime attraverso un suo linguaggio. La possibilità dell’istituzione di un diretto collegamento tra arte e psicoanalisi ci è data dallo stesso Lacan, che più volte si sofferma su problematiche di natura estetica, in relazione all’intreccio tra inconscio, desiderio e linguaggio. D’altra parte, possiamo ravvisare, con una certa facilità, che, nel momento in cui l’arte ha cessato di riprodurre fedelmente il reale, il registro del Simbolico, dominato dalle strutture e dalle variazioni del linguaggio, ha acquisito un valore preminente. In questo senso, l’oggetto rappresentato diviene esso stesso un rinvio continuo ad una dimensione altra, ad una regione fatta di pulsioni e di moti incontrollabili, cosicché il gesto artistico – che è gesto creativo, poietico – diviene irriducibilmente soggettivo, ma risulta, insieme, assolutamente indecifrabile persino all’autore stesso. Per Lacan la pratica dell’arte e la psicoanalisi hanno un punto in comune: entrambe sono pratiche eminentemente simboliche che interrogano il rapporto del Simbolico con il suo stesso limite, il Reale, visto come «centro esterno al linguaggio». L’arte, secondo Lacan, è sostenuta da una forza di sublimazione che, a differenza di Freud, egli non ritiene semplicemente un meccanismo di difesa, ma che considera come l’apertura di una possibilità per le pulsioni dell’individuo – la possibilità di godere senza incorrere nel pericolo della rimozione. Egli precisa, poi, che la sublimazione consiste nell’«elevare un oggetto alla dignità della Cosa»: in altri termini, nel processo di sublimazione artistica l’oggetto d’arte non è altro che un oggetto immaginario divenuto “cosa”, ovvero inserito nel “vuoto del reale” [10].
Das Ding è segnata da un vuoto costitutivo, da un’assenza e da una mancanza reali: questo conduce direttamente alla prima estetica lacaniana, l’estetica del vuoto.
In questa prima fase, Lacan intende l’arte come una pratica di «organizzazione del vuoto», una pratica simbolica che si pone come obiettivo primario il confronto con il Reale: l’opera d’arte è vista come «bordatura del vuoto» della Cosa, intraprende un rapporto con essa, con la sua grandezza priva di forma, ma al tempo stesso sancisce la necessità di una presa di distanza. E ciò che ci permette di mantenerci a debita distanza dal vuoto terrificante di das Ding è il Bello: la bellezza è, per Lacan, una barriera, un velo dotato di una grande efficacia simbolica e immaginaria nel suo continuo “dar forma”. Come scrive Recalcati rievocando la lezione di Nietzsche:
Occorre dare una forma alla forza informe della pulsione. La bellezza è un velo apollineo che deve far presentire il caos dionisiaco che pulsa in se stessa. [11]
Tuttavia, Lacan compie un passo ulteriore proponendo una seconda idea di estetica, in contrasto con l’idea di “forma”: l’estetica anamorfica avvalora l’ipotesi di un’arte intesa non più come organizzazione e bordatura del reale, ma come tentativo di realizzazione di un incontro con il reale. Il vuoto lascia spazio alla Tyche, al fato (all’incontro fatale). Nell’opera d’arte, avverte Lacan, occorre ravvisare una funzione costante: non vi può essere arte dove non c’è funzione quadro. Si tratta di una nozione particolarmente complessa che presenta due significati: in prima istanza, si intende, come già accennato, produrre un incontro con il reale, in secondo luogo la funzione quadro sovverte il modo ordinario di considerare il rapporto tra osservatore e opera d’arte. Siamo di fronte, in questo caso, ad una sperimentazione estetica a rovescio, dove l’attore principale è l’opera, non il soggetto: in poche parole, nell’ottica di Lacan, non è il soggetto che osserva l’opera e la considera semplicemente un oggetto della sua visione, ma è l’opera che lo coinvolge, che lo tocca, che lo guarda. C’è un totale ribaltamento nel campo scopico: il soggetto è chiamato ad “entrare” nel quadro, è foto-grafato; l’opera non subisce più passivamente lo sguardo di un osservatore, ma lo attira a sé e gli fa vivere un’esperienza paragonabile all’abbandono. Foto-grafare il soggetto, d’altra parte, è la funzione tipica dello schermo, che non dà alcuna possibilità di identificazione (come potrebbe fare lo specchio), ma che realizza l’esclusione del soggetto e l’impossibilità di una sua raffigurazione.
L’ultimo contributo dato da Lacan in ambito estetico consiste nell’elaborazione di una terza estetica: l’estetica della lettera. Il punto centrale, attorno a cui gravitano le riflessioni dello psicoanalista, è, in questo caso, la funzione della scrittura come traccia, come indizio di una singolarità, come sinthome. L’atto dello scrivere rappresenta l’affermazione di un luogo singolare che si distanzia dall’influenza universale dell’Altro, perché esso si concretizza in un gesto unico, privato: la calligrafia. La lettera sottrae il soggetto all’universalità del significante: è uno svuotamento di senso che intende affermare l’irripetibile unicità di chi scrive. L’autore che ha saputo realizzare al meglio questo tipo di scrittura è ovviamente James Joyce, nei cui romanzi il libero flusso delle parole impresse sul testo afferma, seppur in maniera atipica, la singolarità dello scrittore.
Porre mano ad un testo significa scrivere il proprio sé, contribuire pragmaticamente alla realizzazione della propria storia, o, per meglio dire, fare della propria vita un materiale da plasmare come se avessimo a che fare con un’opera d’arte. Indubbiamente, l’aspetto più esplicitamente sperimentale dell’esperienza artistica è la sua componente pragmatica: fare arte è mettere mano ad un lavoro non solo sulla natura, ma anche e soprattutto su se stessi; è un atteggiamento poietico che, attraverso gesti, movimenti, parole, intende plasmare delle forme.
Note
[10] M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012, p. 561.
[11] Ivi, p. 597.
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