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Ontologia dell’arte I: il mondo in un deposito

Ontologia dell’arte I: il mondo in un deposito

Ago 26

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Filosofia

Filosofia dell’arte
Adam Verver, uno dei protagonisti de La coppa d’oro di H. James, sogna di edificare un museo per i propri concittadini in cui radunare ogni oggetto dotato di bellezza, per liberare quelle “moltitudini riconoscenti e assetate” dalla “schiavitù del brutto”[1]. James lo descrive come un tempio, come un “museo dei musei, palazzo dedicato all’arte, che doveva apparire compatto come era compatto un tempio greco, ricettacolo di tesori selezionati fino ad attingere un vero carattere sacro”.[2] Verver è un collezionista e un connoisseur: è capace di distinguere a colpo d’occhio un oggetto artistico da una patacca, l’opera di un maestro da un falso. Le sue capacità discriminatorie (unite ovviamente all’ingente patrimonio) gli permettono di sognare che  ogni artefatto umano dotato di bellezza sia radunato in un unico luogo: il museo dei musei. James scrive il suo romanzo nel 1904: è un’epoca in cui è ancora in voga l’estetismo, il cui profeta è  l’inglese John Ruskin, in cui l’opera d’arte è un oggetto dotato di bellezza osservabile all’occhio allenato e disinteressato, in cui l’arte e il bello sono ancora aureolati da un alone di sacralità.

Circa cinquant’anni e due guerre mondiali dopo, André Malraux riprende la locuzione jamesiana ‘museo dei musei’ (si vedano i due scritti Les voix du silence e Le Musée Imaginaire). Malraux sublima l’edificio che il businessman di James avrebbe voluto costruire: si tratta dopotutto di un autore fortemente influenzato da Benjamin e dalla nozione di riproducibilità tecnica. L’arte ha perso la sua aura a causa dei mezzi tecnici di riproduzione: per vedere un Michelangelo non siamo costretti a viaggiare per l’Europa come Verver, possiamo limitarci a sfogliare il catalogo di una mostra. Secondo Malraux, questa situazione è galvanizzante: in linea di massima, infatti, consente di realizzare concretamente il museo vagheggiato da James. Sarebbe sufficiente adunare tutte le riproduzioni di ogni opera d’arte in un enorme schedatrice e allora avremmo il ‘museo dei musei’. O forse avremmo evocato anche qualcosa di più generale: l’Arte o, quanto meno, l’intera estensione del suo concetto (i.e.: gli elementi che ne fanno parte).

Alla base dei due esempi riportati c’è un assunto comune: tra tutti gli enti che costituiscono il mondo è possibile raccogliere (con l’esperienza, la connoisseurship, l’occhio allenato) solo e soltanto quegli enti (o le loro riproduzioni) che sono anche opere d’arte. C’è molto ottimismo sia in James che in Malraux: in entrambi i casi le doti percettive (seppur guidate dalla pratica assidua) sembrano sufficienti per riconoscere un’opera d’arte. Malraux ipotizza addirittura il ‘farsi carne’ dell’intera estensione del concetto ‘arte’. Se questo sogno si realizzasse, potremmo fare a meno di scervellarci su una definizione del termine: ‘arte’ sarebbe ciò che è contenuto nello schedario. O ancora meglio: una definizione sarebbe pleonastica, dato che ci sono alcuni di noi (gli esperti, i critici, i connoisseur) capaci di distinguere a occhio nudo l’arte da ciò che non lo è. Non possiamo, però, evitare di chiederci se tutta questa euforia sia giustificata. In un famosissimo articolo, il filosofo neo-wittgensteiniano W. E. Kennick, cerca di rassicurarci.[3]

L’articolo s’intitola ‘Does Traditional Aesthetics Rest on a Mistake?’ e la domanda, secondo Kennick, è retorica. Se l’estetica tradizionale cerca di trovare tutte e sole quelle proprietà che appartengono alle opere d’arte, allora sta perdendo tempo. L’arte è un territorio così vasto da contenere oggetti che possiedono proprietà in contraddizione tra loro. Senza contare che l’arte è in continua espansione e le opere hanno sempre nuovi tratti essenziali, mentre altri, invece, perdono importanza col tempo. Non bisogna pensare che questa prospettiva ci costringa a un agnosticismo artistico. Se è vero che non ci sono delle proprietà che appartengono a tutte le opere d’arte e solo ad esse, tuttavia, le opere formano un insieme eterogeneo di oggetti simili tra loro. Con un tecnicismo wittgensteiniano formano una ‘somiglianza di famiglia’. Non abbiamo bisogno di tratti comuni, è sufficiente “una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda”.[4] Per fare un esempio: tre opere d’arte [A], [B] e [C] non devono avere necessariamente una caratteristica comune che le identifichi come ‘arte’. Perché esse siano chiamate ‘arte’ è sufficiente che [A] sia simile a [B] e che [B] sia simile a [C], sebbene la relazione di somiglianza tra [A] e [B] e tra [A] e [C] sia di natura differente. La questione è più complicata, ma, per ora è sufficiente sottolineare due punti: 1) la nozione di ‘somiglianza di famiglia’ ci libera dalla necessità di una definizione univoca; 2) le somiglianze sembrano essere tratti osservabili direttamente (“Non dire: ‘Deve esserci qualcosa di comune a tutti […]’ – ma guarda […]”, afferma Wittgenstein[5]). Secondo i neo-wittgensteiniani, un occhio sufficientemente allenato sarà capace di distinguere i tratti simili e di raggruppare tra loro solo quegli oggetti che chiamiamo ‘opere d’arte’. Convinto di ciò, Kennick ci propone un celebre esperimento mentale:

Immagina un deposito molto grande, pieno di ogni sorta di cose: immagini di ogni tipo, partiture musicali per sinfonie e danze, inni, macchine, attrezzi, navi, case, chiese e templi, statue, vasi, libri di poesie e di prosa, arredi e vestiti, giornali, francobolli, fiori, alberi, pietre, strumenti musicali. Ordiniamo a qualcuno di entrare nel deposito e di portar fuori tutte le opere d’arte che contiene. Sarà in grado di farlo con successo nonostante, come dovranno convenire gli studiosi di estetica, non possegga alcuna definizione soddisfacente di ‘Arte’ nei termini di qualche proprietà comune, dal momento che una tale definizione non è ancora stata trovata. [6]

Naturalmente il deposito immaginato da Kennick non è altro che il mondo in scala. Ed egli è fiducioso che, se adeguatamente istruito, ognuno di noi sarà capace di orientarsi nel mondo senza confondere le opere d’arte con gli altri oggetti che lo compongono. Da questa prospettiva, ogni uomo è capace di riconoscere quelle somiglianze che fanno di una partitura e di una statua, di un dipinto e di una poesia, di un romanzo e di una chiesa un’opera d’arte e che escludono francobolli e scatole dall’estensione del termine. La domanda che vi pongo è, dunque, la seguente:

è possibile osservare in maniera percepibile i tratti che rendono qualcosa un’opera d’arte?

Si tratta di una domanda dalla vita breve, perché è già tempo di metterla in crisi. Lo farò con gli esempi che saranno presentati nel prossimo post.

Note:

[1] H. James, La coppa d’oro, trad. it. V. Papetti, Bur, Milano 2007, p. 192.

[2] Ibid.

[3] W. E. Kennick, “Does Traditional Aesthetics Rest on a Mistake?”, Mind, 67 (1958), pp. 317-334.

[4] Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, trad. it. M. Trinchero, Einaudi, Torino 1999, § 66.

[5] Ibid.

[6] Kennick, “Does Traditional Aesthetics Rest on a Mistake?” cit., p. 321-322, traduzione mia.


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9 comments

  1. Lau

    Mi è piaciuto leggere della somiglianza di famiglia, una via per definire un insieme attraverso caratteristiche non definibili…se ho capito bene. Nonostante tutto mi rimane ancora difficile da digerire il concetto di opera d’arte e di come ognuno di noi possa riconoscerla secondo l’esperimento di Kennick. Cosa si intende per ‘opportunamente istruito’? perchè un libro sì e un francobollo no? ciao grazie!

  2. Davide Quattrocchi

    Cara Laura, ti ringrazio per il tuo commento che, effettivamente, tocca uno dei punti problematici della prospettiva neo-wittgensteiniana. Non c’è una via breve per spiegare cosa significhi essere ‘opportunamente istruito’ per Wittgenstein …o per Kennick. Posso cercare, però, di darti degli indizi e poi mi aiuterò con una citazione da un testo di Wittgenstein. In primo luogo non pensare che ‘istruzione’ significhi semplicemente ‘studio di una data materia a scuola o sui libri’. L’idea di ‘istruzione’ è molto più ampia e implica la crescita e la maturazione all’interno di una data società o di una data cultura. Un esempio: se sei nata e cresciuta in un qualsiasi paese occidentale dovresti essere preparata a vedere appesi quadri sui muri e non dei trattati di meccanica. In termini contemporanei, l’uso istituzionale degli uni è molto differente da quello degli altri. Inoltre, con i quadri ti sono state insegnate una serie di attività che non ti sogneresti mai di svolgere con un trattato di meccanica: i quadri li contempli, ti ci tieni a debita distanza, impari ad ammirarne gli autori e addirittura a impararne aneddotti biografici e trivia. Infine, sai bene identificare un quadro: sai che, sebbene non tutti i dipinti siano composti allo stesso modo, o viene usato l’olio, o la tempera, o i colori acrilico, aquarello o pastello. Sai che, solitamente, sono incorniciati e che, sempre in condizioni normali, rappresentano una scena tridimensionale su una superficie bidimensionale. Ora: tutte queste cose le sai e, nel caso sapresti elencarle, ma non è detto che tu sia stata istruita esplicitamente. Può darsi semplicemente che i tuoi genitori o i tuoi insegnanti ti abbiano condotto a mostre, esibizioni, etc. e che, seguendo il loro esempio, tu abbia sviluppato una conoscenza tacita di ognuna di queste ‘regole’. Se quanto ti ho detto ti ha convinto, dovresti capire perchè, secondo Kennick, una persona ‘opportunamente istruita’ dovrebbe essere capace di riconoscere senza problemi un’opera d’arte nel suo enorme magazzino. Concludo il mio sbrodolamento con la citazione da Wittgenstein che ti avevo promesso. Ad un suo studente che gli chiedeva come si potesse descrivere il gusto musicale di una data epoca, il filosofo ha risposto: “Nel descrivere il gusto musicale devi descrivere se i bambini danno concerti, se li danno le donne oppure solo gli uomini, se i genitori che vanno ai concerti insegnano ai figli, ecc., se le scuole insegnano in un certo modo, ecc.”. Ecco: descrivere cosa sia l’istruizione che ci porta a riconoscere un’opera d’arte è un po’ come cercare di sintetizzare il gusto musicale di un’epoca: bisogna descrivere un’intera cultura. Scusami per la lunghezza del post che è contro ogni etichetta di un buon blog, ma come vedi l’argomento mi interessa molto. Ciao e grazie a te!!

  3. Lau

    Caro davide, grazie. La tua risposta è convincente e ragionevole, almeno in termini generali. Esperienza, indole, cultura mi hanno portato a considerare le ‘regole’ sia per quello che sono che per il loro esatto contrario, per creare un modo di osservare e considerare secondo la mia coscienza. Io forse avrei preso anche i francobolli, o solo i francobolli…chissà! In termini assoluti probabilmente la risposta non esiste…
    cos’è l’arte è una domanda ‘ampia’ con la quale mi sono scontrata (o incontrata) piuttosto recentemente, da più tempo gioco invece con un amico a trovare risposte alla domanda ‘cos’è un (libro) classico?’. Ci vedo uno stretto ed ovvio legame con l’arte e l’estetica, forse più evidente di quanto riesca a rendermene conto…che ne pensi?

    • Davide Quattrocchi

      Non mi stupirei affatto se tu scegliessi i francobolli (o solo i francobolli)!! Anzi, questo confermerebbe le loro idee (in un modo che nè Wittgenstein, nè Kennick potevano nemmeno lontanamente immaginare e che forse non avrebbero approvato). Dopotutto si tratta di due filosofi di un’altra epoca: Wittgenstein appartiene all’humus culturale della Vienna fine secolo, mentre Kennick scriveva alla metà degli anni ’50; anni in cui l’artista più conosciuto era forse J. Pollock. Noi, però, siamo nati e cresciuti in un’epoca plurale e, per rubare una nozione di Baumann molto in voga, ‘liquida’. I confini del mondo dell’arte si sono estesi a dismisura e si sono irrimediabilmente confusi con quelli della vita di tutti i giorni: se vai ad una mostra di arte contemporanea non è impossibile trovare frigoriferi, vespe (intendo i motorini), etc. C’è sicuramente spazio per i francobolli! Per non parlare di movimenti artistici più strani come la Food Art o la Land Art. Ma rincariamo la dose: se uno considera la Street Art, allora non devi nemmeno andare all’interno di una istituzione per godere dell’arte, basta passeggiare per strada. In un certo senso, questo confermerebbe l’idea di Kennick: siamo cresciuti e maturati in un periodo che ci ha abituato a considerare tutto potenzialmente ‘arte’. Penso che se uno qualsiasi dei nostri coetanei ‘opportunamente istruito’ entrasse oggi nel magazzino di Kennick, avrebbe delle grosse difficoltà. Non di scelta, però: il problema è che dovrebbe portare via tutto! Questa è una delle conseguenza del Boom! che ha fatto l’arte negli anni ’60 e che l’ha portata a confondersi con la realtà di tutti i giorni. Sulla questione dei classici ti rispondo con un altro post, altrimenti questo rischia di assumere proporzioni gargantuesche.

      • Lau

        già, il concetto di arte si è talmente espanso che non sappiamo più neanche definirne i confini… per associazione mi viene in mente un orizzonte, ti pare sia fin lì, lì dove lo vedi, ma sai bene che non riuscirai mai a dire esattamente dove finisce…ecco la mia sensazione di arte. e, ti dirò, non so se questo senso di indefinito mi soddisfa!

        • Davide Quattrocchi

          Magari ti soddisferanno di più i tentativi di circoscrivere l’orizzonte che hanno proposto alcuni filosofi analitici. Non posso dire di più altrimenti mi gioco tutte le cartucce a disposizione, ma se sei curiosa ti consiglio di seguire i post futuri della sezione ‘Filosofia dell’arte’ 😉

  4. Davide Quattrocchi

    Ovviamente la questione dei ‘classici’ ha moltissimo a che fare con l’arte e l’estetica. Non posso che concordare. Ti darò la mia opinione, se mi prometti di non tenerla troppo in considerazione, perchè non ci ho riflettuto a fondo. La parola ‘classico’ è polisemica e molto spesso ingenera diatribe lunghissime, perchè gli interlocutori hanno in mente i diversi significati del termine (ebbene sì … anche a me capita spesso di discuterne). Tre sensi del termine che mi vengono in mente sono: a) ‘Imprescindibile’, b) ‘legato alle litterae classicae’, c) ‘che ha superato il test del tempo’. Lasciamo stare la prima, perchè molto soggettiva e la seconda, perchè ormai è anacronistica. Se ci soffermiamo sulla terza ci sembra di avere un terreno solido: ‘un classico è un oggetto artistico che è apprezzato dalla maggior parte delle persone per un lungo periodo di tempo’. In realtà i problemi sono molteplici: cosa significa la maggior parte delle persone? Quanto dura un periodo di tempo che sia sufficientemente lungo? Non lo so. La cosa curiosa è che c’è chi ha cercato di definire l’arte attraverso il test del tempo: ‘arte’ sarebbe ciò che ha superato il test del tempo. Ti lascio immaginare in quali grovigli di contraddizioni possa gettarti una posizione del genere. Bene… io la mia opinione l’ho messa sul campo: tu, invece, che ne pensi? Cos’è un classico? Hai in mente altri significati della parola? Sono molto curioso!

    • Lau

      grovigli di contraddizioni, hai detto bene…se un classico supera il test del tempo mi fai pensare all’universalità, almeno in senso temporale. senza sollevare la questione del “più piace, meno è bello”, quanto conta l’influenza del pensiero condiviso e del consenso sociale sul giudizio di un libro (ma anche di molto altro) e quindi sulla sua “sopravvivenza”? a mio parere tanto… forse classico non coincide necessariamente con bello…tanti classici tradizionalmente definiti infatti li trovo illeggibili… come vedi idee chiare non ne ho, ma è piacevole trovare altri “folli” con cui condividere questi pensieri 🙂

      • Davide Quattrocchi

        Per discutere più fruttuosamente la nozione di ‘classico’ forse potremmo chiedere aiuto al buon vecchio Kant e alla sempre-verde Critica del Giudizio. In quel meraviglioso testo Kant teorizza che i giudizi estetici siano caratterizzati da un tratto semi-contraddittorio: ‘l’universalità soggettiva’. Quando dico ‘x è bello!’ sicuramente sto dando espressione al sentimento di piacere che mi fa provare x, ma al contempo pretendo che tutti gli uomini siano d’accordo con me. Una cosa del genere succede quando diciamo, per esempio: ‘La Divina Commedia è un classico’. Non mi limito ad esprimere una preferenza verso Dante, ma pretendo che ognuno sia d’accordo con me. Lo dimostra il fatto che sono disposto a combattere per la mia asserzione, difenderla e a cercare di convincere qualsiasi antagonista. E se qualcuno mi dicesse: ‘Quando dice che la Divina Commedia è un classico dai espressione solo alla tua personalità, alla tua cultura e alle tue radici (italiane)’, sarei colpito dalla profonda scorrettezza dell’affermazione. Risponderei: ‘Quello che dici può anche essere vero, ma non è ciò che affermavo. Io intendevo dire che l’opera di Dante dovrebbe piacere a tutti’.

        Poi, il giudizio di gusto kantiano ha un milione di problemi, però mi sembra che colga una parte del mix di universalità e particolarità che giustamente hai osservato nel giudizio sui classici.

        P.s.: è sempre piacevole condividere!!!

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