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Ontologia dell’arte IV (prima parte): Embodied Meanings

Ontologia dell’arte IV (prima parte): Embodied Meanings

Ott 22

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Filosofia dell’arte

Post precedente: Ontologia dell’arte (intermezzo): Giulietta, il sole e Immanuel Kant
Questo post e i successivi saranno interamente dedicati all’ontologia dell’arte di Arthur Coleman Danto, probabilmente il più importante filosofo e critico d’arte vivente. Per quest’occasione abbandonerò la forma dei precedenti post – mirati al proponimento di una domanda fondamentale – per dedicarmi all’esposizione secca delle teorie di Danto. Le opere del filosofo americano si articolano in una trilogia: a) La trasfigurazione del banale [1], in cui Danto cerca di chiarire la propria ontologia dell’arte; b) Dopo la fine dell’arte [2] in cui è proposta un particolare filosofia della storia dell’arte; c) L’abuso della bellezza [3] che avanza alcune tesi più prettamente legate all’estetica artistica. A ognuna delle opere saranno dedicati uno o più post a sé stanti.

La pièce teatrale «Arte» di Yasmine Reza si conclude con queste parole:

Sotto le nuvole bianche cade la neve.

Non si vedono né le nuvole bianche né la neve.

Solo un uomo, con gli sci, che scende.

Cade la neve.

Cade finché l’uomo scompare nel vuoto.[4]

Con un po’ di fantasia ognuna delle righe precedenti potrebbe descrivere correttamente il quadro comprato da Serge, uno dei protagonisti della pièce di Reza. Si tratta di “una tela di un metro e sessanta, per uno e venti circa”[5] completamente bianca. Se, ipoteticamente, impiegassimo ognuna delle precedenti righe per dare un titolo a un diverso quadro bianco otterremmo cinque opere d’arte differenti. Se alla nostra cinquina aggiungessimo una tela grezza bianca non lavorata, avremmo da una parte cinque opere d’arte e dall’altra un semplice oggetto, senza che vi sia alcuna possibilità di distinguere percettivamente né le prime tra loro, né quest’insieme preso nella sua totalità dal semplice oggetto. Siamo tornati al difficile problema degli indiscernibili di cui avevamo discusso alcuni post fa. In La trasfigurazione del banale, Danto non si ripromette nulla di meno che aiutarci a capire come mai le prime cinque tele bianche sono delle opere d’arte, mentre quella grezza no e come mai ognuno degli elementi del primo insieme dà vita a un opera d’arte distinta.

Contro ogni criterio metodologico cominceremo dalla fine. Secondo Danto le opere d’arte sono embodied meanings, ossia dei significati incorporati. Ognuna delle parole che compongono la locuzione è estremamente significativa. Innanzitutto le opere d’arte hanno un significato. Sebbene siano (spesso) degli oggetti materiali, la loro ontologia le apparenta agli enti che possiedono una semantica, ossia proposizioni, immagini, rappresentazioni, etc. Tutti gli elementi di questa lista hanno, secondo Danto, una caratteristica comune: l’essere-a-proposito-di (aboutness) qualcosa. La frase ‘La neve è bianca’ afferma qualcosa a proposito del colore della neve; la mappa dell’Italia è a proposito della configurazione territoriale della nazione ‘Italia’. Allo stesso modo ognuna delle precedenti tele è a proposito di qualcosa: della neve bianca, dell’uomo che, sciando, scompare nel vuoto, dell’invisibilità di nuvole e neve bianca, etc. Invece, la semplice tela grezza bianca non è a proposito di nulla: è solo una tela bianca. Possediamo, allora, un tratto decisivo che ci permette di distinguere tra semplici cose e opere d’arte.

Solitamente è il titolo di un’opera a darci le direttive giuste per comprendere di cosa tratta l’opera stessa.[6] Il titolo è un lascito dell’artista che ci consegna le chiavi per accedere al significato dell’opera. Con una serie di atti che Danto chiama ‘identificazione artistica’[7], noi isoliamo i tratti salienti dell’opera e diamo loro un particolare significato. Lo abbiamo fatto anche con la tela bianca che è stata di volta in volta identificata come neve, spazio vuoto, nuvole, etc. L’insieme delle identificazioni elementari dà origine a un’interpretazione ed è quest’ultima ad animare il semplice oggetto materiale rendendolo semanticamente significativo.

Interpretare un’opera significa offrire una teoria su ciò a proposito di cui l’opera è, quindi sul suo soggetto [8]

A identificazioni artistiche differenti corrisponderanno differenti interpretazioni e a differenti interpretazioni opere d’arte differenti. Per questo motivo a cinque tele bianche percettivamente indiscernibili possono essere associate cinque opere d’arte diverse tra loro. L’interpretazione non solo dà vita all’oggetto materiale, ma è l’elemento costitutivo dell’opera. In uno slogan: l’opera d’arte è l’interpretazione. Tuttavia, bisogna ammettere che non andiamo in giro per i colorifici a interpretare tutte le tele bianche che vediamo. Un oggetto, per essere ‘arte’, necessita di una condizione ulteriore e Danto la riconosce nel contesto storico che permea e circonda l’opera. Solo se l’agente che ha creato o presentato l’oggetto si colloca nel giusto contesto e nell’esatta catena storica di eventi, potrà accedere al meccanismo dell’interpretazione artistica. Per dirla in breve: se io e Picasso avessimo proposto una tela bianca come opera d’arte, quella di Picasso sarebbe stata credibile, la mia no. La storicità dell’opera d’arte, inoltre, ci permette di arginare l’arbitrarietà delle possibili interpretazioni. Non tutte le interpretazioni sono corrette: bisogna tenere conto del contesto storico in cui è vissuto l’artista e delle sue possibili intenzioni. Danto scrive:

L’opera costituita nell’interpretazione de[ve] essere tale che l’artista che crediamo ne sia l’autore possa averne inteso l’interpretazione in termini di concetti disponibili a lui e all’epoca in cui ha operato[9]

In questo post abbiamo visto che le opere d’arte sono dei significati. Nel prossimo vedremo perché devono essere ‘incarnati’ (embodied).

Note:

[1] A. C. Danto, La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte, a cura di S.Velotti, Laterza, Roma-Bari 2008.

[2] A. C. Danto, Dopo la fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia, trad. it. Nicoletta Poo, Bruno Mondadori, Milano 2008.

[3] A. C. Danto, L’abuso della bellezza. Da Kant alla Brillo Box, trad. it. C. Italia, Postmediabooks, Milano 2008.

[4] Y. Reza, «Arte», trad. it. A. Serra, Einaudi, Torino 2006, p. 51.

[5] Ibid.

[6] Voi direte: molte opere sono senza titolo o s’intitolano Senza titolo (perdonate il gioco di parole). La teoria di Danto prevede anche questi casi:

Un titolo […] è più di un nome o un’etichetta; è una direttiva per l’interpretazione. Dare ad un’opera un titolo neutro o chiamarla Senza titolo non distrugge propriamente questa connessione, ma la distorce. […] Senza titolo implica almeno che l’oggetto in questione è un’opera d’arte, anche se lascia a noi il compito di trovare un modo di accostarci ad essa. […] il titolo [dà] un’indicazione sulle intenzioni dell’artista riguardo al modo in cui strutturare l’opera. E ciò significa ipso facto la possibilità di strutturazioni diverse (Danto, La trasfigurazione del banale, cit., p. 127).

[7] Ivi, p. 157.

[8] Ivi, p. 145.

[9] Ivi, p. 157.


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2 comments

  1. Edoardo

    Ciao Davide, complimenti per l’articolo chiaro e sintetico (kantianamente). La nota 7 credo si riferisca ad un altra pagina della “trasfigurazione del banale” o forse ho un’altra versione del libro!
    un saluto cordiale

  2. Davide Quattrocchi

    Caro Edoardo, grazie per i complimenti. Effettivamente la nota 7 fa riferimento a pp. 145-sgg.: grazie per aver notato la svista!
    Un saluto,
    Davide.

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