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Ontologia dell’arte III: la strana, meravigliosa storia di Mr. Brainwash

Ontologia dell’arte III: la strana, meravigliosa storia di Mr. Brainwash

Set 24

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Filosofia dell’arte

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Molti di voi conosceranno sicuramente Banksy, il più famoso writer del globo. Le sue opere sono l’avanguardia della Street Art e le loro copie sono vendute per cifre che superano i 6 zeri.[1] Tanto per capirci è quell’artista che nel 2005 era sulle prime pagine di tutti i giornali in lingua inglese: aveva affisso i propri stencils sul muro che il governo israeliano aveva eretto al confine con i territori occupati in Cisgiordania. Eccone un esempio (Fig. 1):

Banksy

Se non avete visto il documentario di Bansky sul mondo dell’arte (Exit through the Gift Shop) o non fate parte dei pochi eletti che possono partecipare a un’asta di arte contemporanea (si veda il documentario della BBC, The Great Contemporary Art Bubble), probabilmente non conoscerete l’amico e la nemesi di Bansky, ossia Mr. Brainwash (MBW), alias Thierry Guetta. O forse ne siete a conoscenza indiretta, perché MBW è l’autore della cover dell’ultimo Greatest Hits di Madonna, Celebration (Fig. 2):

Celebration

MBW è ora un artista ricco e affermato, ricercato anche dalle Majors per creare dei Brands altamente innovativi. Riavvolgiamo, però, il nastro della storia e chiediamoci chi sia Thierry Guetta, ossia MBW prima di diventare un’artista globale. La storia è narrata in Exit through the Gift Shop. Guetta è un immigrato francese a Los Angeles, proprietario di un negozio di vestiti usati con la passione per gli home movie. Più che di ‘passione’ si potrebbe parlare di ‘ossessione’ dato che Guetta praticamente riprende qualsiasi cosa gli capiti nell’obbiettivo della videocamera. Per una casualità il suo soggetto preferito diventa la Street art di cui ne segue gli esponenti maggiori durante le lunghe notti di lavoro clandestino e nei viaggi che li portano a lasciare la propria tag in giro per il mondo. In uno dei suoi vagabondaggi Guetta fa conoscenza con Banksy, un artista notoriamente schivo (non c’è un’iconografia ufficiale e anche la sua identità è avvolta nel mistero), che incredibilmente (o, come vedremo, consapevolmente) gli permette di riprendere dal vivo il suo lavoro e lo invita a montare un film sulla Street art. Il risultato è un fiasco totale: Guetta ha moltissimo materiale, ma è completamente privo di tecnica cinematografica e di spirito artistico. Banksy gli consiglia  allora di lasciare la strada del documentario per dedicarsi a tempo pieno alla Street art. Guetta si lancia anima e corpo nell’impresa: vende il negozio, compra una factory e assume una serie di aiutanti (designers, scultori, grafici, etc.). Nel giro di pochi mesi la factory produce centinaia di opere che vengono esibite a Los Angeles nel Giugno 2008 alla prima mostra di MBW, Life is Beautiful. Grazie all’appoggio della stampa (allertata dagli amici di Guetta) e alle recensioni entusiastiche di Banksy e di altri street artists, la mostra ha un successo incredibile e le opere di MBW si trovano improvvisamente al centro del mercato artistico internazionale. È nata una stella.

Questa è la storia raccontata dal documentario, il quale, tuttavia, sin dal titolo, racchiude una morale. ‘Uscite dal Gift Shop’: l’apice dell’arte contemporanea, il culmine della mostra è il negozio di articoli da regalo, ove l’arte diventa puro oggetto commerciale. In questa metamorfosi l’arte e l’artista perdono di ogni importanza, diventano vuoti ‘nomi’ a cui incollare fama e successo. Non importa se l’artista non abbia alcuna idea di ciò che sta producendo (Guetta non ne ha alcuna, e il documentario lo mostra con superba ironia) o se non partecipi minimamente all’atto creativo o produttivo. Nel film di Bansky vediamo molti writers all’opera, mentre non si vede nemmeno un secondo del lavoro di MBW. Da qui il sospetto, nutrito da molti, che l’intera operazione ‘MBW’ sia una burla giocata da Bansky e da altri street artist al mondo dell’arte, con la complicità interessata di Guetta.[2] Lo scherzo, tuttavia, è altamente istruttivo e mostra come ormai l’intero continente artistico, che muove una quantità di denaro incredibile, si regga solo sul giudizio di un ristretto gruppo di persone: artisti, critici, galleristi e curatori. Se Bansky dice che la mostra di MBW è imperdibile, allora la mostra è imperdibile; se la mostra viene definita ‘sorprendente’ dai giornalisti del settore, allora la mostra è sorprendente. Si tratta di un passaggio dal linguaggio al mondo che ha proporzioni e conseguenze pratiche incredibili: pochissimi si sono curati di saggiare l’importanza delle opere di MBW e moltissimi, invece, si sono gettati a comprarle per non perdere un affare o una nuova moda.

A noi interessa che questo strano fenomeno esemplifichi perfettamente sia la virtù che i vizi della teoria istituzionale dell’arte. Questa teoria, tuttora molto in voga in alcuni circoli analitici o di ontologia sociale, è stata teorizzata verso la fine degli anni sessanta da G. Dickie e da R. Sclafani per poi essere ripresa da moltissimi altri autori.[3] All’orgine di questa proposta c’è il problema degli indiscernibili che abbiamo analizzato nel post precedente. Se due oggetti sono tra loro indistinguibili dal punto di vista percettivo (es.: la Brillo Box di Harvey e quella di Wahrol) e uno di essi è un’opera d’arte mentre l’altro è un semplice oggetto reale, non c’è nessun esperto, connoisseur o amatore che possa dire quale dei due sia un’opera e quale, invece, non lo sia, se si limita a osservarli. Non può esserci, nella terminologia di Dickie, alcuna attitudine estetica che possa trasfigurare un oggetto in un’opera d’arte, perché la supposta attitudine estetica non potrebbe discriminare tra le scatole Brillo commerciali e quelle create da Wahrol. La soluzione, che Dickie ricicla da una famosa ipotesi di M. Mandelbaum [4], è la seguente: se la caratteristica che definisce qualcosa qua arte non è percepibile, allora deve consistere in un tratto non visibile all’occhio nudo. Cos’è allora che rende qualcosa ‘arte’? La risposta di Dickie è, in forma breve: il mondo dell’arte! Sono le decisioni prese da curatori, giornalisti professionisti, critici e artisti che rendono ‘arte’ un certo oggetto. Nella sua forma estesa la definizione di Dickie recita:

Un’opera d’arte nel suo senso classificatorio è (1) un artefatto, (2) un insieme dei suoi aspetti che gli hanno conferito lo status di candidato all’apprezzamento da parte di alcune persone che agiscono per conto di una certa istituzione sociale (il mondo dell’arte). [5]

La definizione di Dickie ha moltissimi problemi che mi limiterò a citare: (a) non è detto che un’opera d’arte sia artefatta o artificiale (si vedano alcune opere di arte concettuale o Land Art); (b) lo status di candidato all’apprezzamento sembra far nuovamente rientrare dalla finestra le qualità percepibili che Dickie pensava di aver espulso dalla porta; (c) chi sono le persone che fanno parte dell’istituzione? Come entrano a farvi parte? Chi conferisce loro il potere di battezzare ‘arte’ certi artefatti? Il problema principale della definizione di Dickie, però, sembra essere la sua circolarità. In una buona definizione, infatti, il definiendum non dovrebbe comparire nel definiens: dire ‘l’H2O è composta da due molecole di idrogeno e una di ossigeno’, non dice, di fatto, nulla. Al contrario affermare ‘l’acqua è composta da due molecole di idrogeno e una di ossigeno’ risulta, per quanto scientificamente tautologico, informativo: la definizione ci permette di identificare chimicamente quel composto che, ordinariamente, chiamiamo ‘acqua’. Se abbreviassimo indebitamente la definizione di Dickie, potremmo sintetizzarla con queste parole: Un’opera d’arte è un artefatto apprezzato dal mondo dell’arte. Ergo, un’opera d’arte è definita da una relazione con il mondo dell’arte, ossia quell’insieme di persone che gravitano attorno alle opere d’arte!! Le opzioni sono due: o la definizione di arte è irrimediabilmente circolare [6], oppure le persone del mondo dell’arte sono talmente autorevoli da poter sancire con un fiat quali oggetti siano arte. Non importa se gravitino o meno attorno a delle opere d’arte autentiche o se la conoscenza artistica ha permesso loro di accedere al mondo dell’arte: sono loro che decidono quali oggetti siano da classificare come opere d’arte. A essere onesti, Dickie scoraggia questa seconda opzione ed è molto critico con la pratica surrealista dell’ objet trouvé e con gli esperimenti Dada di Duchamp e, per citare un artista nostrano, P. Manzoni [7], ma non si può negare che le sue intuizioni teoriche ci possano spingere a delle esagerazioni come quella esemplificata da MBW. In questi casi, l’arte lascia totalmente campo libero all’influenza personale, alla decisione strategica e al mondo dell’economia: se un gruppo di persone influenti decide che A è arte, allora A è arte!

Non bisogna demonizzare eccessivamente questa deriva decisionalista. La storia ci dimostra che spesso l’arte si è evoluta a colpi di decisioni da parte di pochi potenti. Ricordiamo il rapporto di Virgilio con Augusto o di Michelangelo con Giulio II. Tuttavia, per quanto Virgilio fosse obbligato a cantare le lodi della Pax Augusta, la sua opera rimaneva pur sempre poesia e, di conseguenza, arte. Abbiamo visto, però, che, al giorno d’oggi, lo scenario è mutato radicalmente: non è per nulla facile dire se qualcosa è arte e perché. Il rischio che corriamo se ci adagiamo completamente su una teoria istituzionale è il seguente: quanto viene presentato come ‘arte’ può essere in realtà un grande bluff, costruito da poche persone che vogliono solo guadagnare soldi e potere. Banksy presenta la propria ‘burla’ per istruirci e avvisarci sui pericoli che nasconde una fede cieca nel cosiddetto ‘mondo dell’arte’. Personaggi meno limpidi e più aggressivi potrebbero ricoprire la ‘bufala’ con un velo di autenticità che forse potremmo non arrivare mai a squarciare.

Vi ho presentato i pro e i contro della teoria istituzionale. Ora sta a voi decidere:

L’arte può essere definita e prodotta su basi istituzionali?

Dickie afferma che A. C. Danto è tra i padri della ‘teoria istituzionale’. Danto, però, disconosce la propria prole e cerca di sviluppare una definizione alternativa che diverrà in breve tempo una specie di totem intoccabile in filosofia dell’arte. Danto, infatti, è forse il filosofo dell’arte e il critico artistico più famoso e influente al mondo. Prima di avventurarci nella discussione delle sue tesi è meglio prepararci adeguatamente e ricordare la teoria di uno dei suoi più celebri predecessori. Mi sto riferendo, sorprendentemente (forse anche per lo stesso Danto!), a I. Kant.

Note

[1] Per chi non lo conoscesse, consiglio S. De Gregori, Banksy. Il terrorista dell’arte. Vita segreta del writer più famoso di tutti i tempi, Castelvecchi, Roma 2010.

[2] Il mondo dell’arte contemporanea è facilmente oggetto di burle e buffonerie. Si va dai popolari sketch televisivi di Aldo, Giovanni e Giacomo al più raffinato pamphlet di Tom Wolfe (T. Wolfe, Come ottenere il successo in arte, Allemandi, Torino 2004) attraverso l’opera teatrale di Y. Reza (Y. Reza, «Arte», Einaudi, Torino 2006). Questa caratteristica fenomenologica dovrebbe essere studiata più a fondo.

[3] Cfr. G. Dickie, “Defining Art”, American Philosophical Quarterly, (6/1969), pp. 253-256.

[4] Cfr. M. Mandelbaum, “Family Resemblances and Generalization concerning the Arts”, American Philosophical Quarterly, (2/1965), pp. 219-228.

[5] Cfr. G. Dickie, Art and the Aesthetic. An Institutional Analysis, Cornell University Press, Ithaca and London 1974, p. 34, traduzione mia.

[6] Dickie, cercando di difendersi dalle molte obiezioni, sembra preferire questa opzione. In uno scritto successivo ad Art and the Aesthetics, in cui risolve alcuni dei problemi sopra menzionati e in cui cesella la sua definizione di ‘arte’, ci avverte:

Ciò che le definizioni di ‘opera d’arte’ stanno realmente cercando di fare è rendere esplicito e consapevole qualcosa che già sappiamo […] Le definizioni di termini come ‘opera d’arte’ non possono informarci di qualcosa di cui siamo ignoranti. (G. Dickie, The Art Circle: A Theory of Art, Haven Publications, New York, 1984, traduzione mia).

La definizione di Dickie non ci vuole dare informazioni come quella di ‘acqua’: intende solo rendere chiara una conoscenza implicita che tutti noi, più o meno oscuramente, possediamo. Dato che si fonda su una pre-comprensione dell’arte da parte di chi la legge, può permettersi di essere circolare.

[7] Cfr. Ivi, p. 61.


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2 comments

  1. Stefano Corsi

    Caro Davide,

    sono sicuro di non aver colto tutto della teoria istituzionale dell’arte ma, per quanto ho capito, mi sembra che essa sia o dannosa o inutile per l’arte, e quindi dispensabile. Vorrei provare a spiegare perché, chiedendo naturalmente un tuo parere.

    Ammettiamo che l’arte possa essere definita su basi istituzionali. Allora, delle due l’una: o chi decide ha ragioni a sostegno della propria decisione, ossia sa giustificare la scelta di un certo oggetto come opera d’arte, oppure non ha queste ragioni.

    Se non ne ha, non mi è chiaro perché un ambito che classifica i propri oggetti in modo arbitrario, autoritario, o casuale, dovrebbe accendere il nostro interesse (in questo senso, la teoria istituzionale è dannosa per l’arte).

    Se invece il decisore ha ragioni per la sua scelta, allora sono queste che andranno sondate per capire che cosa sia un oggetto d’arte, privando così la teoria istituzionale della sua efficacia (in questo senso, la teoria istituzionale è inutile per l’arte).

    Da un lato la teoria istituzionale non mi convince, ma dall’altro non mi persuade nemmeno l’argomento appena formulato per “scaricarla”. Non so, tu che cosa ne pensi?

    • Davide Quattrocchi

      Caro Stefano,
      ti ringrazio delle tue osservazioni e cercherò, come posso, di risponderti.

      Dal post credo sia emersa la mia antipatia per la teoria istituzionale, ma, come ben sai, l’antipatia non è un argomento filosofico e ‘scaricare’ la teoria istituzionale non è facile come può sembrare di primo acchito. 😉

      Il motivo principale di questa difficoltà sembra essere la realtà artistica stessa: l’esempio di Banksy è più che reale. MBW è ora un artista affermato, anche se nasce come un bluff appoggiato ironicamente da alcune ‘autorità’ artistiche. Bisognerebbe studiare anche la parabola dei Young British Artists (forse conoscerai D. Hirst, l’autore del famoso ‘squalo in formaldeide’ che ho citato in un post precedente) i quali, sebbene in alcuni casi dotati di un genuino talento, sono assunti all’empireo del Gotha artistico, soprattutto grazie all’intelligenza economica e agli appoggi del loro influente gallerista londinese, il famoso Mr. Saatchi.

      Detto questo è forse utile introdurre una di quelle noiose distinzioni che forse può risultare utile. Possiamo dire che una definizione di ‘arte’ può darci due informazioni:
      a) Come è possibile che un oggetto diventi arte.
      b) Che cos’è un’opera d’arte.
      Rispolverando il mio arruginito vocabolario aristotelico le potrei ridefinire ‘causa efficiente’ e ‘causa formale’. Mi sembra che la teoria istituzionale cerchi di dare una risposta al primo genere di quesito e sia molto inutile se si vuole cercare lumi sul secondo. Di fatto, in molti casi un oggetto diventa arte su basi istituzionali, ma non è un’opera d’arte perchè lo abbia deciso una istituzione. Facciamo un esempio: Leo Castelli, il gallerista di Wahrol, ha concesso all’artista spazi, pubblico e critica. Gli ha dunque dato tutti gli strumenti per trasfigurare (un termine di Danto) le sue Brillo Box in arte. Se fossero rimaste nella factory di Warhol sarebbero state difficilmente distinguibili dal prodotto industriale. Con questo, però, abbiamo solo la causa efficiente e non sappiamo ancora nulla sulla causa formale che le rende arte. La semplice esibizione di un oggetto in un contesto istituzionale, pace Dickie, è solo una spinta data all’oggetto artistico che deve, però, soddisfare altre condizioni per essere un’opera d’arte. è probabile che la teoria di Danto ti soddisferà maggiormente come risposta al secondo quesito.

      Se il mio discorso è sufficientemente sensato, ti accorgerai che la teoria istituzionale non è ‘scaricabile’ perchè arbitraria, ma perchè altamente ridondante. Non dice nulla che non sappiamo già: che l’opera d’arte abbia bisogno di un contesto istituzionale lo sapevano gli antichi (templi e case patrizie), i medioevali (cattedrali e chiese), i rinascimentali (regge e case signorili), gli uomini dei secoli dei lumi (che inventano le prime mostre, i salon e i primi musei: Napoleone ricrea il Louvre) fino ai nostri giorni. Per un’ironia della sorte una volta formulata, la teoria istituzionale sta diventanto dispensabile: sempre più arte si sta espandendo al di fuori dei confini istituzionali (Land Art, Street Art, etc.). Per un’ironia alla sorte al quadrato, lo stesso creatore della teoria istituzionale, Dickie, ci dice che la sua definizione è ridondante e non-informativa.

      Insomma, per dirla con il Bardo: Much Ado about Nothing!!

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