Temi e protagonisti della filosofia

Filosofia della storia dell’arte II: Greenberg e il Modernismo.

Filosofia della storia dell’arte II: Greenberg e il Modernismo.

Mar 11

[ad#Ret Big]

Filosofia dell’arte

Post precedente: Filosofia della storia dell’arte I: Vermeer e Vasari
Ad Reinhardt, uno dei padri dell’arte astratta, riassunse in una breve e sagace vignetta il problema che ha segnato l’arte contemporanea per gran parte del Novecento [Fig.1]:
Ad Reinhardt What Do you Represent?

Lo spettatore occasionale è divertito dalla palese mancanza di contenuto rappresentativo evidente nel dipinto astratto della vignetta (potrebbe essere un Pollock, un Kline o un De Kooning [si veda il bellissimo Senza titolo di Kline (1952; Fig. 2)]).
Franz Kline

La domanda ‘What does this represent?’ (‘Che cosa rappresenta questo [quadro]?’) è posta con un tono ironico e al contempo retorico: il protagonista della vignetta non ha alcun dubbio sul fatto che il quadro sia senza valore, privo com’è di qualsiasi verisimilitudine, e deride l’idiozia dell’artista che ha avuto la faccia tosta di esibire un quadro che non rappresenta. Non si può biasimare il nostro Mister X, il quale è, probabilmente, cresciuto sotto l’egida della narrazione storico-artistica realista, i cui presupposti filosofici sono stati accennati nel post precedente dedicato alla coppia Vermeer-Vasari. Bisogna, però, sottolineare che il verbo ‘rappresentare’ ha, nella vignetta, una doppia valenza: da una parte il quadro non rappresenta perché non possiede contenuto rappresentativo, dall’altro non rappresenta perché non ci sono persone che siano disponibili a riconoscersi in un dipinto del genere (o almeno così pensa Mister X). Il secondo significato di ‘rappresentare’ ha una sfumatura politica: un rappresentante dello stato, per esempio, non è simile allo stato, né è simile a coloro che lo hanno eletto o incaricato, ma ‘sta per’ lo stato o i suoi elettori. Egli deve, cioè, incarnare in sé quei valori e quelle opinioni che gravitano attorno alla carica assunta: se manca a questo compito, potremmo non essere più disponibili a riconoscerlo in quanto nostro rappresentante. All’interno dell’‘ipotesi’ Vermeer-Vasari i due sensi del verbo ‘rappresentare’ sono legati tra di loro: il quadro non solo rappresenta una versione verisimile della realtà, ma rappresenta anche il mondo di una certa realtà sociale che riesce così a riconoscersi nell’arte prodotta in quel certo periodo. Ad esempio, i quadri di Hogarth sono lo specchio della società libertina inglese [Fig. 3], quelli di Velázquez della corte spagnola del Seicento [Fig. 4] e quelli di Chardin della piccola borghesia francese pre-rivoluzionaria [Fig. 5].
Hogarth

 

Velazquez

 

Chardin

Dalla vignetta di Reinhardt si capisce che, nella crisi prodotta dall’astrazione, la rottura dell’arte con la rappresentazione verisimile è direttamente proporzionale al crollo della società che l’arte dovrebbe rappresentare. All’ironia facile dello spettatore, lo stesso dipinto (e gli artisti astratti con esso) lanciano un j’accuse: ‘What do you represent?’ (‘Che cosa rappresenti tu?’). Gli artisti non sono più disponibili a rappresentare un’umanità in cui non credono. Sarebbe troppo lungo ricapitolare la storia dello scollamento tra gli artisti e la società: di fatto, però, ha avuto origine a inizio Novecento, si è acuito, per ragioni politiche, tra le due guerre e la relazione si è definitivamente fratturata negli anni Cinquanta. Gli artisti hanno allora prosciugato la propria arte da ogni contenuto rappresentativo e si sono ritirati in Bohemia, la torre d’avorio in cui ogni impegno politico e sociale è precluso e sopravvivono solo gli interessi interni a ogni forma d’arte. Questo punto di partenza segna l’inizio della riflessione di Clement Greenberg sul Modernismo [1]. Greenberg è stato probabilmente il più importante critico d’arte del dopoguerra, ha scoperto artisti come Jackson Pollock, ma, soprattutto, ha plasmato la più importante filosofia della storia dell’arte del post-Vasari. Il pensiero di Greenberg è, in nuce, il seguente: gli artisti, una volta abbandonata la rappresentazione e la luna di miele con la società che dovrebbero rappresentare, devono concentrarsi sugli aspetti formali della propria arte, cercando di estrapolarne l’essenza.[2] Quando il contenuto dell’arte diventa riflessivamente la forma e gli strumenti dell’arte stessa, l’arte non può che essere astratta: il contenuto di un dipinto saranno semplicemente … colori; della musica … il suono; della scultura … la mera bidimensionalità spaziale e così via. La vera novità introdotta da Greenberg, però, – una novità che lo mette sullo stesso piano di Vasari – è la dinamicità narrativa, il telos che viene abbinato all’astrazione. Ogni arte si trasforma in un’epopea diretta alla purezza delle proprie caratteristiche mediali e formali: non solo se ne deve occupare in maniera esclusiva, ma deve anche isolare quali siano essenziali e quali siano, invece, spendibili. La filosofia della storia dell’arte di Greenberg, che volgarmente prende il nome di Modernismo, è una sorta di riduzionismo: il telos finale dell’arte è la riduzione alle caratteristiche essenziali di ogni arte. Celebre, per esempio, è l’interpretazione Modernista che Greenberg dà della pittura: i limiti essenziali di quest’arte sarebbero una semplice superficie piatta delimitata. Una tela grezza stesa su un cavalletto è sufficiente per fare un quadro: colori e linee sono ornamenti superficiali.[3]

L’interpretazione di Greenberg contiene una precisa filosofia della storia dell’arte con una precisa narrazione teleologica e, in questo senso, è strettamente imparentata con quella vasariana che va a soppiantare. Mettiamole a confronto: la filosofia di Vasari è il realismo, quella di Greenberg è il formalismo; la narrazione di Vasari tende alla verisimiglianza, quella di Greenberg al riduzionismo essenzialista. Pur nelle differenze, entrambi i pensatori condividono il medesimo impianto narratologico di fondo. Cosa succede, però, se si porta Greenberg all’estremo? Cosa succede se l’arte giunge effettivamente al suo telos, ossia esibisce un’opera che soddisfa appieno la sua essenza? Succede che la narrazione greenberghiana ha termine e si entra nel postmodernismo o, come preferisce chiamarla Danto, nella condizione post-istorica. Ad essa ci volgeremo nel prossimo post.

Note:

[1] Cfr. C. Greenberg, “Avant-Garde and Kitsch”, in Id., The Collected Essays and Art Criticism, Vol. I, University of Chicago Press, Chicago 1988, pp. 5-22.

[2] Cfr. C. Greenberg, “Modernist Painting”, in Id., The Collected Essays and Art Criticism, Vol. IV, University of Chicago Press, Chicago 1995, pp. 85-94.

[3] Cfr. Ivi, p. 87.


Ti è piaciuto il post? Dona a Filosofia Blog!

Cliccando sul pulsante qui sotto puoi donare a Filosofia Blog una piccola cifra, anche solo 2 euro, pagando in modo sicuro e senza commissioni. Così facendo contribuirai a mantenere i costi vivi di Filosofia Blog. Il servizio di donazioni si appoggia sul circuito il più diffuso e sicuro metodo di pagamento online, usato da più di 150 milioni di persone. Per poter effettuare la donazione non è necessario avere un account Paypal, basta avere una qualsiasi carta di credito o Postepay. Grazie!

Leave a Reply