Il ‘caso’ Brancusi
Il ‘caso’ Brancusi
Lug 16[ad#Ret Big]
Nell’ottobre del 1926, Costantin Brancusi, scultore romeno di fama, sbarcò negli Stati Uniti per esibire alcune sue opere. Tra di esse figurava anche Uccello nello spazio (Fig. 1).
Un solerte doganiere, controllando tra gli effetti di Brancusi, trovò questo oggetto. Bisogna sapere che negli Stati Uniti era in vigore il Tariff Act, una legge che prevede l’esenzione fiscale per le opere d’arte introdotte nel paese. Il doganiere, ligio al proprio dovere, fu costretto a classificare l’oggetto e, non comprendendone la natura artistica, né conoscendo l’artefice, lo reputò un utensile da cucina (Kitchen Utensil) destinato al commercio e, di conseguenza, tassabile. Brancusi, per non pagare l’obolo e per evitare un possibile scandalo, decise di appellarsi ad una corte giudiziaria. Cominciò in questo modo il processo: Brancusi vs United States. I particolari sono molto succosi e sono riassunti su Wikipedia.
La morale che possiamo trarre dall’episodio è la seguente: l’arte contemporanea, a partire dall’arte astratta e forse ancora prima con Manet e gli impressionisti, ci obbliga a mettere in questione tutte le precedenti convinzioni su cosa sia arte e su cosa, invece, non lo sia. Per Brancusi l’oggetto è ovviamente un’opera d’arte, ma non si può nemmeno biasimare il doganiere per aver classificato l’oggetto in maniera erronea. Per quanto la superficie levigata dell’Uccello nello spazio possa definirsi ‘bella’, e la sua silhouette risvegli in noi nozioni importanti in scultura come l’estensione nello spazio o il gioco di luci ed ombre sulla superficie scolpita, tuttavia, l’oggetto non rivela alcun segno di essere frutto di un’elaborazione artistica. Sembra mancare di molte caratteristiche proprie della ‘scultura’: non c’è alcuna rappresentazione di evento o personaggio, non ha scopo celebrativo, non è evidente la mano dell’artista, né quale sia la concezione che si vuole incorporare nell’opera (se non si conoscesse il titolo, sfido chiunque a capire che si tratta di un esperimento sulla dinamica spaziale, non lontano da quelli di Boccioni). Ho scelto, per altro, un esempio in cui l’arte è ancora intuibile, seppur con qualche sforzo. Immaginate la reazione del doganiere statunitense se, al posto della scultura di Brancusi, si fosse trovato dinnanzi Fontana di Duchamp (Fig. 2) o L’impossibilità fisica della morte nella mente di un vivo di D. Hirst (Fig. 3).
Vi starete chiedendo quale problema filosofico possa nascondere l’arte contemporanea se non un banale problema di classificazione. Le questioni classificatorie saranno oggetto di alcuni futuri post, in quanto istruttive e divertenti allo stesso tempo. Il punto di questo intervento, però, è il seguente: l’arte torcendosi e interrogandosi su sé stessa e obbligandoci a riesaminare le nostre salde presupposizioni (obbligando a chiederci: Che cos’è arte?) aspira alla condizione della filosofia. Senza voler pretendere di dire cosa sia la filosofia[1], è indubbio che essa aspiri ad un’interrogazione radicale dei presupposti. La croce e la delizia del filosofare si nascondono nell’inevitabile instabilità di ogni apparente punto fermo. Se da una parte questa inclinazione le ha attirato le critiche da parte di discipline più costruttive (‘La filosofia è priva di risultati. Sono solo fantasticherie campate in aria’), dall’altra le permette di mettere radici su qualsiasi argomento che possa essere discusso (cosa che aveva capito bene Aristotele nel Protrettico). Il curioso esempio di Brancusi ci permette di osservare che l’arte si è ormai instradata su di un destino analogo: nessuna cosa che ci viene presentata come arte lo è in maniera ovvia e, conversamente, qualsiasi cosa (si vedano gli esempi di Duchamp e Hirst) sembra poter aspirare allo status artistico.
Data la conclusione riflessiva della nostra storia, il problema su cui oggi vi propongo di meditare non può essere che altrettanto riflessivo:
(1) Può l’arte essere filosofia e rimanere ancora arte?
O, simmetricamente:
(2) Può la filosofia farsi arte e rimanere ancora filosofia?
Come al solito, non cercherò di darvi una risposta univoca, ma di indicarvi alcune strade che poi potrete percorrere con le vostre gambe. Abbiamo due domande che sembrano richiedere un responso bipolare.
Le risposte positive a (1) e (2) sono apparentemente le più difficili da formulare, perché richiedono un’elaborazione di criteri che distinguano in modo netto arte e filosofia. Una possibilità molto in voga in quest’epoca di nostalgico postmodernismo consiste nel ritenere ‘arte’ ciò che si richiama, cita o fa riferimento alla storia dell’arte precedente. (Esercizio: sostituisci al termine ‘arte’ la parola ‘filosofia’ e avrai una teoria speculare). Una seconda possibilità, tanto arrogante quanto circolare, consiste nel ritenere arte ciò che gli artisti producono. (Esercizio 2: come sopra, con il termine ‘filosofi’ al posto di ‘artisti’ e il verbo ‘scrivere’ al posto di ‘produrre’). In realtà, questi sforzi teorici, per quanto siano da plaudire, sono anche piuttosto prevedibili, perché il senso comune (forgiato da secoli di divorzio tra le due attività umane) ci dice che la differenza tra arte e filosofia è una sorta di ovvietà.
Molto meno prevedibili (ed euristicamente più interessanti) sono le risposte negative a (1) e (2). Si tenga presente, inoltre, che, se si può usare la stessa strategia per rispondere positivamente, dare un responso negativo a (1) e (2) implica soluzioni e prospettive radicalmente differenti. Hegel e Kosuth mi faranno da esempi. È nota la tanto chiacchierata idea hegeliana di ‘fine dell’arte’. Non entro nei particolari per non essere sbranato da lupi di mare hegeliani più furbi e scavati di me, ma mi sembra possibile riassumerla in questo modo: l’arte non ha più il compito di guidare gli uomini a comprendere lo spirito assoluto (sé stessi, il mondo e la divinità). Questo compito è stato rilevato dalla filosofia. ‘Fine’ dell’arte non significa un esaurimento della produzione artistica, ma una sua decadenza ad attività secondaria, quasi ornamentale. Se l’arte vuole essere significativa, allora dovrà farsi filosofia e, di conseguenza, fare appello alla ragione e non ai sensi. In questo stato, però, l’arte diviene un surplus, un’illustrazione quasi inutile delle teorie filosofiche (e chi tra voi ha assistito ad alcune mostre di arte concettuale può confermare fenomenologicamente questo assunto). Hegel, quindi, risponderebbe negativamente al primo quesito.
Questa possibilità, però, è controbilanciata da forze che affermano l’esatto contrario. La questione è posta chiaramente in un famoso scritto di J. Kosuth, uno dei padri dell’arte concettuale:
Il ventesimo secolo ha dato inizio a un’epoca che si potrebbe chiamare ‘la fine della filosofia e l’inizio dell’arte'[2]
Kosuth ritiene che l’appropriarsi da parte dell’arte degli scopi e degli strumenti della filosofia, ne decretino la fine. Al tramonto dei filosofi corrisponderebbe l’aurora degli artisti, i quali diventerebbero i veri detentori della riflessione concettuale. Anche questa posizione ha una sua plausibilità fenomenologica: spesso noi filosofi troviamo più ‘cibo’ su cui riflettere in una mostra artistica che in uno sterile trattato storico-filosofico.
Non so chi abbia ragione nell’anacronistico dibattito tra Hegel e Kosuth. Sono solo contento che da un evento apparentemente banale come un processo doganale si sia riusciti ad arrivare a questioni così importanti come il destino di ‘arte’ e ‘filosofia’.
Note:
[1] Su questo punto rimane valido il vecchio detto: fai sedere quattro filosofi ad un tavolo e falli discutere a proposito dell’oggetto e dello scopo della filosofia e puoi essere sicuro di ottenere quattro definizioni diverse di ‘filosofia’.
[2] J. Kosuth, ‘Art after Philosophy’, in A. Alberro, B. Stimson (eds.), Conceptual Art: a Critical Anthology, MIT Press, Cambridge (MA) 1999, pp. 158-177, qui p. 160.