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Un’elegia introspettiva di Gregorio di Nazianzo (seconda parte)

Un’elegia introspettiva di Gregorio di Nazianzo (seconda parte)

Nov 23

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Anima, a te di seguito sarà
comunicato quanto ti conviene.
Chi, donde, o cosa sei? Chi stabilì
che portassi un cadavere e gettò
nei tristi lacci della vita, ognor
opprressa al suolo? Come fosti mista,
spirito, a massa, mente, a carne, e, lieve,
a peso? Queste cose inver configgono
ostilmente tra loro. Se poi giungesti
in vita avviata colla carne, fu,
ohimè, funesto amplesso da lontano.
Sono immagin di Dio, e fatto figlio
di vergogna. Pudor ho d’arroganza,
madre d’onor. Da flusso infatti sorsi,
e si corruppe; adesso uomo, poi
non più uomo, ma cener: spemi estreme.
Ma se tu sei celeste, chi sei, donde?
Insegna a me che’l bramo. Se di Dio
soffio sei e frammento, come pensi,
scaccia la tracotanza, e mi persuadi.
Infatti non si dà neanche un po’ il caso
che tu, sì sozza, sia parte del puro.
Né infatti il buio è di Sol frammento,
né dal malvagio spirito uno splendido
nato apparve. E allora come sei
tanto agitata dalle vibrazioni
di Belial il funesto, eppur da spirito
celestial rampollante? Se difatti,
nonostante abbia tale difensore,
annuisci al suol, ahi ahi, che rovinosa
malvagità, nonché integral, la tua!
Se invece non mi vieni da Dio, quale
è la natura tua? Ho un gran timore
per davvero ch’io sia vanaglorioso.
Creazione di Dio, paradiso, Eden,
gloria, speme, comandamento, pioggia
per il mondo letal, pioggia incendiante,
poi ancor legge, scritta medicina;
poi ancor Cristo fuse la sua forma
colla nostra, affinché, i miei patimenti
patendo quale Dio, desse soccorso
e mi rendesse Dio in forma umana.
E purtuttavia ho una mente indomita,
e ci gettiam sul ferro con suicida
pazzia, come cinghiali. Quale mai
è della vita il ben? D’Iddio la luce?
Ma pur quella la tenebra gelosa
e triste mi preclude. Nulla in più
è in me. Ma cosa c’è in più nei malvagi?
Oh se solo l’eguale fosse a me,
sia pur prostrato! Giaccio senza voglia,
ma terrore divino mi piegò:
mi logoro in pensieri notte e giorno.
Questo superbo indietro mi cacciò
benché supino, mi camminò sopra.
A me però tu di’ tutti i terrori:
Tartaro tenebroso, Flegetonte
igneo, flagelli, demoni ch’agiscono
coll’alma nostra. Tutto ciò è favola
per i mmalvagi, ma la cosa migliore
è sol ciò che sta in pie’: la cattiveria
non ritorna per niente qual tormento.
Meglio sarebbe se per i colpevoli
remissione ci fosse infin, ch’io ora
sia colmo delle pene dei malvagi.
Ma perché io, perché mai io cantare
tanto devo i dolori degli uomini?
Dolor su tutta nostra genia è.
Mi par che il suol non sia inamovibile,
che sospingano i venti il mare salso.
L’ore in fretta si scambiano l’un l’altra,
notte il dì smorza e’l verno’l ciel oscura;
agl’astri il Sol, e al Sol la nube estingue
la beltà, ma la luna torna in vita,
e in parte appare ancor stellato il cielo.
Anche tu fosti già tra i cori angelici,
Lucifero, invidioso, or però
è caduta dal cielo la vergogna.
A me propizia sii, regina eccelsa,
Trinità! Tu neppur sfuggisti in tutto
alla lingua d’effimeri insensati.
Prima il Padre, di poi il Figlio grande,
ed inoltre lo Spirito di Dio
grande d’ingiurie è fatto bersaglio.
Dove mi farai stare portandomi
via da qui, malpensante cura? Fermati.
Tutto è secondo a Dio. Al Verbo cedi:
Dio non mi fece invan. Il canto contrasto:
dalla pochezza vien di nostra mente.
Ora tenebra, poi comunque il Verbo,
e tutto intenderai, o contemplando
Dio o dal fuoco sfatto. Come il caro
intelletto mi disse queste cose,
smise il dolore. E, tardi, dall’ombroso
bosco a casa tornai, ora ridendo
d’aver diversamente cogitato,
ora di nuovo il cuore macerando
di sofferenza, colla mente in lotta.


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