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Plutarco, Sulla superstizione (8)

Plutarco, Sulla superstizione (8)

Set 02

Brano precedente: Plutarco, Sulla superstizione (7)

8. Narrano che Tribano, che stava per esser arrestato dai Persiani, sguainò il gladio e combatté gagliardamente, da uomo forte qual era; dopo, quando gridando gli notificarono che lo arrestavano per ordine del re, buttò subito la spada e presentò le mani per farsele legare. Non s’ingenera forse qualcosa di simile? Gli altri combattono alla disperata le sfortune e si dispongono contro le importunità, macchinando fughe per sé stessi e preoccupandosi di stornare gli imprevisti, mentre il superstizioso, non ascoltando alcuno, invoca contro sé stesso: «Patisci questi eventi, o maledetto, per provvidenza ed ordine d’un dio». Sradica ogni speranza, si dà per vinto, fugge, distanzia i soccorrenti. Molti tra i mali misurati, le superstizioni li rendono letali. L’antico Mida ‒ così sembra ‒ inquietato e scioccato da alcuni sogni, si trovò in uno stato psichico tanto penoso da uccidersi volontariamente bevendo sangue di toro. Da parte sua il re dei Messeni, Aristodemo, nella guerra contro i Lacedemoni, giacché i cani ululavano similmente a lupi ed intorno al suo altare domestico cresceva la gramigna e giacché gli indovini temevano questi segni, scoraggiato e avendo spento le speranze si tagliò la gola da sé stesso. Forse dunque anche per Nicia, lo stratego ateniese, sarebbe stato meglio alienarsi dalla superstizione in questo modo, come Mida od Aristodemo, anziché, impaurito dall’eclissi di luna, lasciarsi serenamente circondare dai nemici e, assieme a quarantamila uomini uccisi e catturati vivi, divenire prigioniero e morire con disonore, siccome non è spaventoso che la terra si trovi in mezzo tra sole e luna né è diro che in un determinato momento dell’orbita proietti la sua ombra sulla luna, tutt’altro: diro è che l’oscurità della superstizione confonda ed accechi l’intelletto dell’uomo che v’incappa, specialmente in affari comportanti l’impiego migliore dell’intelletto.

Glauco, guarda: ecco, il profondo ponto già dimena le onde, e sul promontorio di Gire sta aguzza in verticale una nube, segno di tempesta [Archiloco fr. 105 West].

Visto questo, colui che governa la nave prega per sfuggire e chiama gli dei salvatori, e proseguendo coi voti aziona la barra, getta sotto l’antenna,

sfugge, piegata la magna vela, al tenebroso mare.

Esiodo [Opere e giorni, 465-467] raccomanda all’agricoltore di pregare

Zeus Ctonio e Demetra casta

stringendo l’impugnatura dell’aratro prima d’arare e seminare; da parte sua Omero [Iliade, 7,193 ss.] racconta che Aiace, in procinto di affrontare Ettore in singolar tenzone, raccomandò agli Elleni di pregare gli dei per lui e che poi, mentre quelli pregavano, si armò. E Agamennone, quando ebbe prescritto ai combattenti:

«Che ciascuno affili bene la lancia, che imbracci bene lo scudo» [Iliade, 2,382],

solo allora, ordunque, presenta questa preghiera a Giove:

«Concedimi di buttar giù dalle fondamenta il palazzo di Priamo» [Iliade, 2,414].

Dio, infatti, è speranza di virtù, non pretesto di viltà; d’altra parte i Giudei, siccome era sabato, sedendo nei loro abiti non cardati mentre i nemici accostavano le scale e conquistavano le mura, non si mossero ma permasero come presi assieme in una singola rete: la superstizione.

Brano seguente: Plutarco, Sulla superstizione (9)


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