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Plutarco, Sulla superstizione (7)

Plutarco, Sulla superstizione (7)

Ago 26

Brano precedente: Plutarco, Sulla superstizione (6)


7. Per prima cosa, dunque, ispeziona attentamente la disposizione dell’ateo nell’incontrare fatti imprevisti. Se è per lo più misurato, s’adatta in silenzio alle circostanze presentantisi e si comporta con forza e coraggio; se invece è intollerante e perturbato, scaglia tutte le lamentele contro la tyche ed il caso e grida che nessun evento succede conformemente a giustizia e per provvidenza, tutt’altro: tutte le vicende umane sarebbero condotte confusamente ed incertamente. Ma non è questo l’atteggiamento del superstizioso, tutt’altro: se è colpito da un qualche male anche minimo, anziché reagire aggiunge alla sofferenza altre passioni tormentose, cospicue ed inalienabili, si procura timori, paure, sospetti e turbamenti, si concede ogni sorta di lamento ed ogni sorta di pianto, siccome per ogni sfortuna non incolpa né gli uomini né la tyche né la congiuntura né sé stesso ma Dio, professa che da quest’ultimo giunge su di lui il frutto di un rivo demonico di sciagura, così, giacché non sarebbe un disgraziato bensì una persona che è odiata dagli dei, crede d’esser punito dagli dei, di star rendendo il suo debito colla giustizia e subendo disgrazie tutte quante appropriate. Se malato, l’ateo si ferma a ragionare e rammenta il surplus nel mangiare, le ubriacature di vino ed i disordini pertinenti al regime di vita, il superlavoro o i cambiamenti inconsueti d’aria e di luogo; in occasione d’insuccessi nei progetti politici e di perdita del favore presso la plebe o di distanziamento dal principe egemone, ispeziona se la responsabilità di quest’esito sia in sé stesso o in coloro che gli son prossimi.

Dove ho contravvenuto? Dunque che ho fatto? A quale mio dovere ho mancato? [Pitagora, Versi aurei, 42]

Per il superstizioso, di contro, tutte le infermità di corpo, perdite di denaro, morti di figli o ingestibili disfatte nell’azione politica si leggono come piaghe provocate da un dio ed assalti di un demone. Per questo non osa correre ai ripari né dissipare l’inconveniente né rimediare né contrastarlo, affinché non sembri combattere contro un dio o ribellarsi quando punisce, tutt’altro: quando è malato fa uscire il medico, quando è afflitto chiude al filosofo che vuole consolarlo e rincuorarlo. «Lasciami», dice, «amico, rendere il mio debito colla giustizia: sono empio, maledetto, odiato da dei e demoni». Se un uomo che non ha fede negli dei è addolorato o, in alternativa, perturbato, è possibile asciugargli le lacrime, tagliargli i capelli, togliergli le vesti; con un superstizioso, di contro, come puoi interloquire o come puoi soccorrerlo? Sta seduto all’esterno coperto di sacco e rivestito di cenci sozzi, in più occasioni, rotolandosi addirittura nudo nel pantano, enumera chissà quali sbagli e peccati da lui commessi, giacché ha mangiato o bevuto questo o quello o ha proceduto su una via non permessa dal nume. Nel migliore dei casi, d’altra parte, se cioè la sua superstizione è lieve, se ne sta in casa per celebrare riti purificatori, mentre le vecchie

«come a un attaccapanni», dice Bione, «quel che trovano glielo portano e glielo appendono addosso».

Brano seguente: Plutarco, Sulla superstizione (8)


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