Plutarco, Sulla superstizione (5)
Plutarco, Sulla superstizione (5)
Ago 12Brano precedente: Plutarco, Sulla superstizione (4)
5. Nessuna di queste proposizioni è applicabile all’ateismo. Peraltro l’ignoranza è coriacea, il travisamento e la cecità per quanto riguarda questioni talmente serie sono grandi sfortune per la psiche, come se si fosse spento il più splendido ed importante dei suoi molti occhi: la noesi di Dio. Ma a questa dottrina, la superstizione, si aggiungono da subito, com’è stato verbalizzato, passione, ferimento, turbamento e schiavizzazione. Professa Platone [Tim. 47d] che la musica, qual demiurgo di melodiosità e d’euritmia, venne data dagli dei agli uomini non per compiacere e sollecitare gli orecchi, bensì per rimettere in ordine ed agevolare la ricostituzione della giusta direzione delle orbite e delle armonie della psiche che si son sconvolte e han deviato nel corpo giacché l’indigenza di grazia musicale, dispiegantesi con indisciplina e stonatura, riesce il più delle volte in superbia.
Quanto, dunque, Giove non amò ‒ dice Pindaro ‒ atterrisce udendo la voce delle Pieridi [Pitiche, 1, 13-14];
e difatti s’inasprisce e s’irrita, dimodoché professano che le tigri assordate per opera dei tamburi impazziscano, s’agitino ed infine si sbranino tra loro. Il male è dunque minore per coloro che a causa di abbassamento o perdita dell’udito divengono indifferenti ed insensibili alla musica. Tiresia subì una disgrazia nel non vedere i figli ed i parenti, ma ne subirono una maggiore Atamante ed Agave che li videro come leoni e cervi; così per Eracle, impazzito, sarebbe stato davvero meglio non vedere né percepire i figli presenti, piuttosto che trattare come nemici i suoi affetti più cari.
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