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Plutarco, Su virtù e vizio

Plutarco, Su virtù e vizio

Set 04


I vestiti danno il destro ala sensazione di calore nella persona, di sicuro non perché siano essi stessi a scaldare e procurare il calore (siccome di per sé stesso ciascuno di essi è freddo, e per questo spesso accaldati e febbricitanti ne cambiano uno dopo l’altro), tutt’altro, per questo: la veste, aderendo al corpo, coibenta e rinserra il calore che la persona manda all’esterno di sé stessa, cosicché, imprigionandolo nel corpo, non gli permette di disperdersi. Questa identica esperienza, dunque, sussiste nelle azioni pratiche ed inganna i più, propiziando la persuasione che se si circonderanno di dimore maestose e collezioneranno una pletora di schiavi e di ricchezze vivranno soavemente. Il vivere in modo soave ed altresì ilare, or dunque, non è proveniente dall’esterno, anzi, contrariamente a questo, è l’uomo che apporta alle faccende a lui vicine soavità e gradevolezza emettendole dall’ethos come effluvi propagati da una fonte. «Or dunque, se brucia il fuoco, più augusto è l’edificio a vedersi» [Cert. Hom. Hes. 284] e la ricchezza più soave e dignità e potenza più lampanti, se v’è il gaudio dalla psiche; giacché anche povertà, esilio e vecchiaia si soffrono con leggerezza e con propositività in presenza di serenità e mitezza d’indole.

Infatti, ecco, come gli aromi rendono odorosi mantellacci e stracci, mentre il corpo d’Anchise dava sudore sgradevole «che lungo la schiena bagnava il manto di bisso» [Soph. fr. 373 R.], così armandosi di virtù tutte le condizioni e i generi di vita sono immuni da dolore e piacevoli; quando invece il vizio si mescola alle cose esteriormente splendide, preziose e ottime, le rende moleste, nauseabonde e dispregevoli per i possessori. «Costui è considerato felice nell’agorà; all’opposto, quando apre la porta, è tre volte sfortunato: la moglie domina tutto, ordina, combatte sempre» [Men. fr. 251 K.-A.]; ciononostante, di una cattiva moglie si può liberarsi senza difficoltà, se si è un uomo e non uno schiavo; contro il suo proprio vizio, invece, uno non può presentare istanza di ripudio e affrancarsi subito dalle cose importune e riposarsi, divenendo padrone di sé stesso, tutt’altro: coabitando sempre nelle viscere e permanendo attaccato notte e giorno, «ustiona senza torcia e precoce vecchiaia dà» [Hes. op. 705], essendo gravoso compagno di viaggio per la sua tracotanza, commensale esigente e opprimente compagno di letto, dacché stronca e distrugge il sonno con pensieri, preoccupazioni e gelosie. Ed ecco, quel tanto che si dorme è sonno e riposo del corpo, mentre per la psiche son paure, incubi e turbamenti dischiusi dalla superstizione. «Quando addormentatomi l’angoscia mi afferra, son ucciso dai sogni», sostiene qualcuno; questa disposizione, dunque, l’effettuano invidia, paura, collera e intemperanza. Di giorno, ecco, guardando all’esterno e assimilandosi agli schemi di comportamento presentati dagli altri, il vizio disanima oculatamente e cela le passioni e anziché darsi completamente allo sfogo degli impulsi spesso si trattiene davanti ad essi e li combatte; d’altronde, nelle ore del sonno, sfuggendo alle opinioni e alle leggi e trovandosi lontanissimo dal timore e dal pudore, eccita qualunque desiderio e ridesta la pravità consueta e l’intemperanza. «Dunque, ecco che tenta di unirsi alla madre», come dice Platone [resp. 571d], porta alla bocca cibi proibiti e non si astiene dal fare alcunché, godendo del proibito quanto più gli è possibile, in preda a visioni e fantasie che non finiscono in nessuna soavità e ottenimento dell’oggetto desiderato, ma son solo capaci di eccitare e disinibire le passioni e le degenerazioni morbose.

Dov’è quindi la soavità del vizio, se non è mai disgiunto da preoccupazioni e da dolore, privo com’è di autosufficienza e d’atarassia e di tranquillità? Ecco, il benessere e la salute somatici danno luogo e generano i piaceri della carne; nella psiche, d’altro canto, non è possibile che vengano ingenerate gioia e felicità stabili, se per fondamenta non vi sono insediate serenità e impavidità e fortezza o calma intatta da marosi; altrimenti, anche se le arride qualche speranza o sollazzo, essa è subito sconvolta e conturbata, perché l’ansietà scoppia come un temporale a ciel sereno.

Assembra oro, raccogli argento, costruisci ponti, riempi di schiavi la casa e di debitori la polis; se non placherai le passioni della psiche, se non farai posare l’insaziabilità e non t’alienerai da paure ed ansie, filtri vino per un febbricitante, offri miele a un bilioso e prepari cibi e pietanze per dei sofferenti di coliche e di dissenteria, nonostante non possano trattenerli ed esserne fortificati, ma siano pressoché soppressi da essi. Non vedi che gli ammalati non tollerano i cibi più delicati e raffinati, cosicché li sputano fuori e li rifiutano quando li si offre loro e li si costringe, ma poi, quando è cambiata la condizione fisica e si rigenerano in loro respirazione buona, sangue dolce e temperatura normale, ristabilitisi mangiano con gioia e appetito pane ordinario con sopra olive e crescione? È l’intelletto ciò che effettua tale disposizione nella psiche. Sarai autosufficiente, se imparerai che cos’è la kalokagathia: vivrai lussuosamente in povertà, regnerai e amerai la vita non pratica e segreta non meno di quella occupata nelle strutture militari e civili; filosofando non vivrai spiacevolmente, tutt’altro: imparerai a vivere soavemente dappertutto e in tutte le condizioni: per te la ricchezza rappresenterà la gioia di compiere del bene per molti, la povertà di non riempirsi di preoccupazioni, la fama d’esser onorato e l’anonimato di non esser invidiato.


La traduzione dal greco è stata condotta sul testo stabilito da Klaerr per l’edizione dei Moralia curata con Philippon e Sirinelli (Parigi 1989).


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