Plotino, Enneade V 8 [31: Sulla bellezza intelligibile], 10
Plotino, Enneade V 8 [31: Sulla bellezza intelligibile], 10
Dic 27
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10. Per questo anche Giove, pur essendo il più vecchio fra gli altri dei, che egli guida, per primo si porta sull’osservazione di questo [: del cosmo intelligibile], dunque seguono gli altri dei e demoni ed anime, quelle che possono guardare queste cose [15]. Costui |5| dunque appare a essi uscendo da qualche luogo inguardabile e, assurgendo al sommo su di essi, ha lampato verso tutti gli oggetti e li ha riempiti di splendore e ha colpito piagando proprio quelli in basso, e si sono voltati incapaci di vedere, come avviene a quelli che vedono il sole. Gli uni, ordunque, si son abilitati a mirarlo; gli altri, invece, si turbano tanto quanto si siano distanziati da lui. |10| Guardando dunque ‒ quelli capaci di vedere ‒ fissano tutti verso di lui e verso quel che gli è proprio; non lo stesso spettacolo contemplativo comunque acquisisce sempre ciascuno, ma l’uno, vedendo intensamente, vede lampante la fonte e la natura del giusto, un altro invece s’è riempito dello spettacolo contemplativo della temperanza, non come quella che gli umani |15| han presso di sé, quando l’abbiano, siccome questa imita in qualche maniera quella; lo splendore dunque che occorre su tutti gli oggetti e corre intorno per tutta ‒ come dire? ‒ la magnitudine di esso [: del cosmo intelligibile] è guardato al termine da coloro dai quali furono già adocchiati più spettacoli contemplativi illuminati, gli dei come singoli e ogni [dio] assieme, le anime le quali guardano là tutte le cose e nascono da tutte le esistenze, sicché tutte le esistenze |20| le hanno anche loro nelle lor pertinenze dal principio al termine; e sono là tanto quanto la loro natura può essere là, più volte comunque anche il loro tutto è là, allorché non siano divise.
Vedendo quindi queste cose Giove, e se v’è qualcuno di noi suo compagno in amore, al termine guarda la bellezza rimanente saldamente intera su tutti gli oggetti [: tutte le idee], avendo anche parte in questa bellezza, |25| quella di là; [la bellezza] illumina difatti tutte le cose e riempie le genti di là, sicché anch’esse divengano belle, così come più volte degli umani, avventurandosi su luoghi alla sommità, ove la terra ha questo colore biondo, si son riempiti di quel colore, somigliatisi all’oggettività su cui venivano camminando. Là dunque |30| il colore che fiorisce è bellezza, o meglio, tutto è colore e bellezza sin all’estrema profondità, siccome non è altro [: diverso] il bello in occasione del fiorire.
D’altro canto da parte di coloro che non guardano l’intero rimane considerata solo l’impressione del solido esterno; a coloro che invece per tutto il tempo si son come avvinazzati e riempiti del nettare, giacché la bellezza ha attraversato l’intera psiche [: anima], succede di non |35| rimanere solo spettatori contemplativi. E difatti non v’è più da questo canto quest’oggetto esterno e da quest’altro canto invece questo contemplare l’esterno, tutt’altro: lo sguardo acuto ha in se stesso il guardato e, pur avendolo, per lo più ignora che ce l’ha e lo mira come un ente esterno, giacché lo mira come un che di guardato e giacché desidera mirare. Ordunque, tutto ciò che qualcuno mira come osservabile, lo mira dall’esterno. D’altronde bisogna |40| ormai trasferirlo dentro il proprio sé e mirarlo come singolo [: unità] e mirarlo come il proprio sé, come per esempio se qualcuno, per soggiogamento dovuto a un dio, pigliato da Febo o suggestionato da qualche Musa, realizzasse in se stesso la contemplazione del dio, se ha la potenza di mirare un dio in se stesso.
Note
[15] Platone, Fedro, 246 e 4-6; 247 a 7; 248 a 1.
La traduzione dal greco è condotta sul testo dell’editio minor Henry-Schwyzer:
Plotini Opera, ediderunt P. Henry et H.-R. Schwyzer, 3 voll., Clarendon Press, Oxford 1964-82.
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