Plotino, Enneade V 3 [49: Sulle ipostasi conoscitrici e su quel ch’è al di là], 13
Plotino, Enneade V 3 [49: Sulle ipostasi conoscitrici e su quel ch’è al di là], 13
Apr 18
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13. Perciò [l’uno] è anche non-verbalizzabile in non-latenza [: verità]; siccome qualunque cosa evochi, verbalizzerai qualcosa. D’altronde questa: «Al di là [7] di tutte le oggettività e al di là del nous [: dell’intelletto] più osservando», nell’insieme di tutte le verbalizzazioni, rimane la sola non-latente [: vera], pur non essendo nome di esso, tutt’altro: verbalizza che né è alcunché fra tutte le cose né v’è nome di esso [8], giacché |5| nulla [si può dire] di esso; d’altronde, com’è in nostro potere, occupiamoci di significare a noi stessi [qualcosa] per quanto riguarda esso. Peraltro allorché c’importuniamo coll’aporia: «Quindi è insensibile verso se stesso e neanche reca coscienza di se stesso nel solco del pensiero né s’avvede di sé», occorre intendere che, enunciando questi giudizi, ci contorciamo in avanzamenti contrari. Difatti lo rendiamo plurale |10| qualificandolo conoscibile e conoscente e, dandogli il pensare, lo rendiamo bisognoso del pensare; anche se il pensare sarà con esso, superfluo sarà per esso il pensare. Si rischia difatti che in generale il pensare, nella convergenza di più nell’identico, sia sinestesi [: coscienza] solidale dell’intero, allorché qualcosa pensa se stesso esso, il che dunque è anche propriamente pensare; ciascun singolo [: ciascuna unità singola] dunque |15| è esso, qualcosa, e non cerca nulla; se invece la noesi [: pensiero] sarà dell’esterno, sarà dunque indigente e non propriamente il pensare.
Invece il totalmente semplice e autarchico ontologicamente non abbisogna di nulla; invece il secondariamente autarchico, abbisognando invece di se stesso, questo abbisogna del pensare se stesso; e questo essente bisognoso in relazione a sé ha realizzato l’autarchia grazie all’intero |20| in quanto natura arrivata all’autosufficienza esito di tutti gli elementi solidalmente insieme, essente con se stessa e annuente a sé. Giacché anche la sinestesi [: coscienza] è sentimento di qualcosa di plurale; e lo testimonia anche il nome [sunaisthēsis].
E la noesi [: intellezione], essendo priore [: prima], si rivolge al di dentro occupandosi di lui [: dell’intelletto], che è manifesto che è plurale; e difatti se esso evochi solo questo: «Sono essente», l’enuncia come |25| scoperta e l’enuncia con evidente legittimità, siccome l’essente è plurale; giacché, qualora l’avesse sottomesso all’intuizione come semplice e avesse evocato: «Sono essente», in quest’occasione non avrebbe imbroccato né se stesso né l’essente. Siccome non legge l’essente come una pietra, allorché enunci non-latentemente [: sia veridico], tutt’altro: ha verbalizzato con una singola verbalizzazione più res. Difatti questo essere, che è giudicato per davvero, ontologicamente, essere e non avente una traccia dell’essente, |30| la quale a causa di questo non sarebbe neanche giudicabile essente, come avviene per un’icona [: immagine] rispetto a un archetipo, ha i più [: molti]. Che dunque? Ciascuno di essi non sarà pensato? Beh, se desidererai assumerlo ermo e rimasto solo [9], non penserai; ma l’essere stesso è plurale in se stesso, e anche se evochi altro, l’essere l’ha. Se dunque questo [è vero], se v’è un che di più semplice |35| di tutti i singoli, non avrà noesi [: il pensiero] di se stesso; siccome, se l’avrà, l’avrà per questo essere plurale. Quindi né esso è pensare né v’è noesi [: intellezione] di esso.
Note
[7] Platone, Repubblica, VI, 509 b 9.
[8] Platone, Parmenide, 142 a 3.
[9] Platone, Filebo, 63 b 7-8.
La traduzione dal greco è condotta sul testo dell’editio minor Henry-Schwyzer:
Plotini Opera, ediderunt P. Henry et H.-R. Schwyzer, 3 voll., Clarendon Press, Oxford 1964-82.
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